04 agosto 2025

Quando la critica diventa irriconoscente

 


Riflessione personale sulle parole di Selvaggia

Lucarelli contro Liliana Segre. 

di Paolo Corrias

Viviamo in un tempo in cui l’indignazione è diventata un mestiere, e la parola più efficace è spesso quella più brutale. Il confronto si è trasformato in accusa, il dissenso in delegittimazione, e la memoria in fastidio. In questo clima, le parole hanno smesso di cercare ponti, preferendo scavare trincee.

È in questo contesto che si colloca la polemica scatenata da Selvaggia Lucarelli contro Liliana Segre. Non si tratta, in fondo, solo di due punti di vista differenti su un conflitto tragico come quello israelo-palestinese. Si tratta, piuttosto, del modo in cui si esercita oggi la critica, specialmente quando viene rivolta verso figure che portano sulla propria pelle il peso della storia.

Lucarelli, commentando un’intervista rilasciata da Liliana Segre a La Repubblica, ha accusato la senatrice sopravvissuta alla Shoah di aver trovato finalmente la forza di parlare — non per condannare il massacro dei civili palestinesi a Gaza, ma per difendere Israele dall’accusa di genocidio. E lo ha fatto con sarcasmo tagliente, scrivendo frasi come: “Anzi, chiedo scusa a Segre. Non lo chiamerò genocidio per non turbarla, ma ‘esercizio prolungato di autodifesa con effetti collaterali sorprendentemente sgradevoli’”.

Ora, si può — si deve — dissentire anche da chi ha vissuto l’indicibile. Ma c’è modo e modo. E il modo in cui Lucarelli ha scelto di colpire è, a mio avviso, sintomatico di un’epoca in cui il rispetto per la complessità viene visto come debolezza, e la parola “genocidio” usata come una clava da chi vuole schierare ogni coscienza sotto una sola bandiera.

Liliana Segre non è un personaggio pubblico qualunque. Non parla da una posizione di comodo o da una torre d’avorio. Le sue parole, ogni sua dichiarazione, sono attraversate da un vissuto che pochi al mondo possono comprendere davvero. La bambina di otto anni che fu deportata ad Auschwitz, che vide morire il padre, che uscì da quell’inferno con il numero tatuato sulla pelle e la vita a brandelli, oggi ha quasi cento anni. E nonostante questo, continua a esporsi. A parlare. A dare voce — sempre — al rifiuto dell’odio.

Nell’intervista che tanto ha indignato Lucarelli, la senatrice non nega le colpe del governo israeliano. Al contrario, afferma con parole durissime: “È straziante vedere Israele sprofondato in un simile abominio, con ministri fanatici e coloni che compiono azioni squadristiche”. Eppure, ciò che ha fatto scattare la reazione indignata è stata la sua scelta di non definire “genocidio” quanto sta accadendo a Gaza. Una scelta che, per Lucarelli, equivarrebbe a una complicità morale.

Ma è davvero così semplice?

Possiamo davvero ridurre la posizione di Segre — intrisa di sofferenza, attenzione al linguaggio e profonda inquietudine storica — a una fredda presa di posizione politica?

Possiamo ignorare ciò che ha detto esplicitamente, ovvero che Israele non deve usare la Shoah come scudo per giustificare ogni suo eccesso?

E possiamo accettare che una giornalista liquidi tutto questo con l’ironia del “non la chiamerò genocidio per non turbarla”?

C’è un’assenza nelle parole di Selvaggia Lucarelli che grida più forte di qualunque sarcasmo. Non un cenno alla strage del 7 ottobre. Non una parola sulle famiglie massacrate nei kibbutz, sulle donne stuprate davanti ai figli, sugli anziani trascinati via come bottino di guerra, sugli ostaggi ancora rinchiusi nei tunnel, sulle 1.200 vite spezzate in una mattina di terrore. È come se tutto questo non fosse mai accaduto.

È un’assenza che pesa. Pesa sulle coscienze, sulle parole, sulla credibilità di chi si erge a giudice morale. Pesa perché non si può pretendere giustizia per le vittime palestinesi ignorando deliberatamente le vittime israeliane. Pesa perché la giustizia vera — quella difficile, scomoda, imperfetta — non ha bandiere. Ha solo occhi aperti.

Chi tace sul 7 ottobre non solo manca di equilibrio, ma finisce per contribuire, anche involontariamente, a quella spirale di disumanizzazione che oggi sta inghiottendo ogni possibilità di dialogo. I bambini palestinesi non valgono meno dei bambini israeliani. Ma nemmeno il contrario.

Lucarelli scrive che per Segre non sarebbe la realtà a suggerire la parola “genocidio”, ma che sarebbe la parola a manipolare la realtà contro Israele. E ci tiene a precisare che, secondo lei, chi si rifiuta di usare quel termine starebbe cercando di “salvare Israele” dall’infamante accusa.

Ma qui si gioca una partita più sottile, che riguarda non solo Israele, ma tutti noi. Riguarda la responsabilità delle parole. Il linguaggio non è neutro. Le parole costruiscono narrazioni, definiscono il campo morale in cui ci muoviamo. E “genocidio” non è un termine qualunque: è un termine giuridico, storico, carico di una memoria precisa.

Segre — che del genocidio è sopravvissuta — conosce bene il significato e il peso di quel termine. Non vuole negare i crimini di guerra, gli abomini, l’ingiustizia. Ma teme — e lo dice con forza — che l’uso strumentale di quella parola possa cancellare la memoria della Shoah, o peggio, riattivare un antisemitismo latente che oggi si traveste da critica legittima a Israele.

C’è un altro punto che vale la pena approfondire. Quando Segre dice che “l’isterica insistenza” nel voler usare la parola genocidio “scaturisce da sentimenti antisemiti, magari inconsci”, viene accusata da Lucarelli di voler delegittimare le voci di denuncia, in particolare quelle femminili, attraverso una parola — isteria — che storicamente è stata usata per zittire le donne.

È vero: il termine “isteria” porta con sé una lunga storia di misoginia e patologizzazione del dissenso femminile. Ma in questo caso, mi sembra che il richiamo sia a qualcosa di diverso: alla perdita di equilibrio, alla trasformazione del dolore in furore accusatorio, alla volontà di ridurre tutto a una sola parola, un solo colpevole, una sola vittima.

Ed è qui che il rischio si fa reale: quello di sostituire un’ingiustizia con un’altra, una narrazione unilaterale con un’altra narrazione, ugualmente assolutista. Criticare Israele, denunciare i crimini di guerra, chiedere il cessate il fuoco, pretendere giustizia per i palestinesi: tutto questo è necessario. Ma trasformare Israele nel nuovo male assoluto, accostarlo senza esitazione al nazismo, ignorare le sue paure, il suo trauma fondativo, la sua storia, significa privare la critica della sua forza morale. E significa, anche, cedere terreno a quel risentimento che spesso, troppo spesso, sfocia in antisemitismo.

Uno degli aspetti più inquietanti della vicenda è la pretesa, da parte di alcuni, di stabilire chi ha ancora il “diritto” di parlare. Lucarelli lo fa implicitamente, accusando Segre di essersi “svegliata” solo per difendere Israele. Ma chi stabilisce quando una voce è legittima? Chi decide quando il silenzio è colpevole e quando invece è un atto di misura?

Liliana Segre ha parlato, eccome. Ha parlato della sua sofferenza, della paura per il ritorno dell’odio, del rischio che il dolore si trasformi in vendetta cieca. Ha parlato con la compostezza di chi ha imparato che ogni parola deve pesare. E forse è proprio questo che oggi dà fastidio: la lentezza, la cautela, la complessità. In un mondo che grida, chi sussurra appare sospetto.

Ci siamo abituati a pensare che indignarsi significhi automaticamente avere ragione. Che chi urla di più sia dalla parte giusta. Che chi è più feroce nella denuncia sia moralmente superiore. Ma non è così.

L’indignazione è necessaria, ma non è tutto. Ci vuole anche discernimento, capacità di ascolto, rispetto per chi ha vissuto il male in prima persona. E soprattutto, serve la consapevolezza che il conflitto israelo-palestinese non si risolverà con i tweet, le battute sarcastiche, o i processi sommari sui social.

Le parole possono ferire più di una pallottola. Possono disumanizzare, escludere, separare. Ma possono anche costruire ponti. Liliana Segre ha sempre cercato di costruirli. Anche ora, da una posizione che le è costata lacrime, insulti, solitudine. Per questo la sua voce merita qualcosa di più della caricatura in cui è stata ridotta.

Criticare Liliana Segre non è un sacrilegio. Nessuno lo è. Ma ridicolizzarla, ignorarne la storia, metterne in dubbio la buona fede, banalizzare il suo pensiero e ridurlo a una parodia, è un atto di superficialità grave. È una forma di violenza culturale.

Abbiamo bisogno di voci come la sua. Voci che non urlano, che non cercano like, che non semplificano il mondo in buoni e cattivi. Voci che fanno i conti con la Storia e con il dolore. E che ci ricordano, ogni giorno, che la verità non è un’arma, ma una responsabilità.

Se vogliamo davvero costruire un mondo più giusto, iniziamo da qui: dalla capacità di ascoltare anche chi non dice esattamente quello che vorremmo sentire.


Le stagioni che finiscono male. E quelle che non cominciano mai


Il caso Todde, tra diritto, responsabilità politica e una Sardegna che continua a rinviare la propria maturità istituzionale. 

di Paolo Corrias

C’è un momento, in ogni vicenda pubblica, in cui la cronaca diventa storia. E in cui la storia chiede conto non solo dei fatti, ma della visione. Il caso della presidente Todde, al centro di un intricato contenzioso giuridico-politico, sembra essere arrivato a quel momento.

Dietro le carte bollate e le firme “a coccarda” depositate in Tribunale, c’è molto più di una lite elettorale: c’è una Sardegna che rischia di ripetere l’ennesimo fallimento, perché non ha voluto (o saputo) imparare dai precedenti.

La vicenda giudiziaria che coinvolge la presidente Todde, e su cui Paolo Maninchedda ha scritto un articolato editoriale su Sardegna e Libertà il 2 agosto, è arrivata a un punto critico. L’appello è stato depositato. I termini sono scaduti. Ma invece di chiarezza, abbiamo l’eco di un errore: secondo il giurista Fercia, il ricorso potrebbe essere addirittura inammissibile per una questione di metodo.

Un errore da manuale. Uno di quelli che nemmeno in una simulazione d’esame si dovrebbero commettere. Eppure è lì, nero su bianco, e rischia di rendere definitiva la sentenza di primo grado.

Ma ciò che mi colpisce davvero, da semplice cittadino, è il simbolo che questa vicenda rappresenta. L’ennesima stagione politica nata all’insegna del cambiamento che finisce schiacciata sotto il peso della sua impreparazione. Della sua fretta. Della sua presunzione.

La Todde, all’inizio, aveva rappresentato per molti un’alternativa vera: una donna competente, un volto nuovo, la promessa di un’altra Sardegna. Non quella dei notabili o delle clientele. Non quella delle chiacchiere da corridoio regionale. E invece, dopo pochi mesi, ci troviamo a fare i conti con errori clamorosi, scelte discutibili e una gestione del potere che non sembra affatto diversa da quella di chi è venuto prima.

Nel racconto di Maninchedda si percepisce chiaramente il disagio di chi conosce i meccanismi istituzionali ma sa anche quanto siano fragili, e facilmente aggirabili. La paura del “revanscismo giudiziario”, la circolazione selvaggia degli atti legali, il sospetto che la politica venga oggi combattuta più nei tribunali che nelle piazze o nei consigli comunali.

È questo che ci deve preoccupare: non solo chi perde, ma come si perde. Non solo chi ha sbagliato, ma cosa si è costruito per evitarlo. E soprattutto: perché chi prometteva rigore, trasparenza e competenza ha finito per inciampare proprio su quei terreni.

Forse sono ingenuo, ma continuo a credere che la politica possa (e debba) essere un luogo alto. Un luogo in cui si risolvono i conflitti, non dove si creano. Un luogo in cui la fiducia del cittadino non viene barattata con una campagna social, o con una difesa mal scritta.

E invece vedo un teatrino stanco, dove anche chi viene presentato come "nuovo" parla, agisce e sbaglia come chi c’era già. Dove le responsabilità non si assumono mai, ma si scaricano. Dove il linguaggio è tutto e la sostanza poco o nulla.

Cosa verrà dopo? Questa è la domanda vera. Se la presidente dovesse decadere, se il Consiglio regionale fosse sciolto, se si tornasse alle urne… cosa ci aspetta? Un’altra campagna di slogan? Un’altra ondata di illusioni? Un’altra corsa al potere mascherata da progetto civico?

Oppure, finalmente, qualcosa di più maturo? Persone preparate, capaci, con una visione chiara, che conoscano i regolamenti e soprattutto la realtà delle persone che vivono in questa terra difficile e meravigliosa?
Lo spero. Ma non lo do per scontato.

Ciò che stiamo vivendo non è solo una crisi politica o giuridica. È una crisi di credibilità, di competenza, di profondità.

E allora permettetemi una riflessione conclusiva, che non è un j’accuse ma un richiamo civile:

"Cara Sardegna, svegliati tu.
Svegliati prima di continuare a delegare la tua voce a chi non la sa usare. A chi urla ma non costruisce. A chi difende ma non governa. A chi promette, ma poi scompare quando le cose si fanno difficili."

Le stagioni finiscono. Ma a volte neanche cominciano davvero. Tocca a noi fare in modo che la prossima non sia solo una replica.


03 agosto 2025

Il Foulard, la Ciotola e la Motosega

C’è una stanza, al terzo piano di Palazzo Chigi, che sembra uscita da una commedia felliniana. Dentro, stipati come in un baule delle meraviglie, ci sono oggetti degni di una collezione improbabile: il foulard dell’albanese Edi Rama, una ciotola donata da Joe Biden, un paio di scarpe in pitone blu con tacco dorato, l’action figure del presidente argentino Javier Milei con tanto di motosega, un iPad da Zelensky, cappelli da alpino e da bersagliere, un pacco di riso Made in Pakistan. È l’inventario semi-ufficiale dei doni istituzionali ricevuti da Giorgia Meloni in questi due anni e mezzo di governo.

Nulla di nuovo sotto il sole. Da sempre, le visite di Stato si accompagnano a omaggi più o meno simbolici. Qualcosa finisce in mostra, qualcosa resta in deposito, qualcosa – se troppo prezioso – viene trattenuto dallo Stato. Regole chiare, trasparenza amministrativa, burocrazia ordinaria. Ma siccome siamo in Italia, persino una ciotola diplomatica può scatenare una polemica parlamentare.

Così è accaduto che Francesco Bonifazi, deputato di Italia Viva, abbia presentato un’interrogazione parlamentare per sapere esattamente cosa abbia ricevuto la Presidente del Consiglio, dove siano custoditi questi oggetti, se siano stati dichiarati, valutati, eventualmente devoluti o tenuti. In apparenza: trasparenza. In sostanza: guerriglia politica travestita da zelo istituzionale.

A stretto giro, Fratelli d’Italia ha rilanciato: benissimo, allora pubblichiamo anche i regali ricevuti da Renzi, Gentiloni e Conte. Ed è qui che l’aria cambia. Perché dei regali istituzionali ricevuti da Matteo Renzi quando era a Palazzo Chigi non c’è traccia. Non esiste, ad oggi, una lista pubblica, un elenco, un inventario simile a quello di Meloni. Eppure l’ex premier, oggi gran conferenziere internazionale, non era certo immune a tappeti, foulard e doni ufficiali. Come mai nessuno ha mai visto quella lista?

La senatrice Raffaella Paita, anche lei di Italia Viva, ha reagito indignata: “Massima trasparenza per tutti!”, ha detto. E giù accuse incrociate, fino a chiedere la pubblicazione delle fatture e dei bonifici dell’abitazione privata della Premier. Una battaglia a colpi di contabilità, in cui i doni ufficiali diventano l’ultima arma di un confronto logoro e prevedibile. Eppure, sarebbe bastato poco: prima di chiedere conto dei foulard di Meloni, sarebbe stato elegante – e politicamente maturo – pubblicare la propria lista, rendere visibili i regali di Renzi, mostrare i bonifici dell’abitazione di Renzi. Non per una vendetta, ma per coerenza.

Invece no. Italia Viva continua a giocare su due piani: moralismo selettivo da una parte, reticenza dall’altra. Come se bastasse sollevare polveroni per nascondere ciò che manca. Come se l’arte di accusare l’altro potesse sostituire l’onestà di raccontare se stessi.

La verità è che la politica italiana è diventata un talk show permanente, dove ogni oggetto è pretesto per un dibattito, ogni dettaglio un campo di battaglia, ogni foulard una bandiera ideologica. E mentre ci si accapiglia sui doni istituzionali, il Paese resta a guardare, sempre più distante, sempre più disilluso.

Perché il problema non sono le scarpe pitonate o le statuette con la motosega. Il vero problema è l’ipocrisia di chi chiede trasparenza solo agli altri, di chi si erge a paladino della legalità quando è all’opposizione, ma diventa opaco quando è al potere. E questo vale per tutti. Ma oggi, in particolare, riguarda chi – come Italia Viva – ha fatto del doppio standard una strategia comunicativa.

Ci si riempie la bocca di legalità, ma non si pubblicano nemmeno le ricevute del passato. Si invoca la trasparenza, ma si dimenticano gli anni in cui si stava al governo. Si chiedono i bonifici di oggi, ignorando quelli di ieri.

Il risultato? Un teatrino stanco, ripetitivo, autoreferenziale. Dove la politica diventa polemica sterile, e la verità è solo un optional da sventolare quando conviene. Un Paese che discute per settimane di una ciotola di ceramica e non riesce a discutere seriamente di sanità, scuola, giustizia, lavoro, è un Paese che ha perso il senso delle priorità.

E allora sì, ridiamoci pure su. Ma con amarezza. Perché se i regali diplomatici sono il pretesto per l’ennesima lite da cortile, forse il vero dono che ci meritiamo – noi cittadini – è uno solo:
la fine della politica fatta di fumo, ego e distrazione di massa.

 

 

02 agosto 2025

Zona franca: il diritto negato di un’isola che resiste

 


Riflessione personale di un sardo qualunque

Mi chiamo come tanti. Vivo in Sardegna. La osservo ogni giorno dalla mia finestra, o seduto su una panchina che guarda il mare. Una terra meravigliosa, sì. Ma anche una terra dimenticata.

Da anni sento ripetere una frase che, col tempo, è diventata più un’eco stanca che una promessa: “La Sardegna è zona franca.” Lo dice lo Statuto, lo dicono i politici in campagna elettorale, lo dicono alcuni cittadini con fierezza, altri con disincanto.

Eppure, noi sardi continuiamo a pagare tutto, fino all’ultimo centesimo. Paghiamo tasse alte, accise sui carburanti, IVA sui beni, costi enormi per spostarci da e verso l’Italia. Paghiamo perfino con la solitudine geografica e infrastrutturale.

Ma allora, zona franca di cosa? Di chi?

Una promessa scritta ma mai mantenuta

Lo Statuto della Sardegna, firmato nel 1948, all’articolo 12 ci promette questo:

“La Regione è autorizzata ad attuare nel proprio territorio una zona franca con vantaggi fiscali e doganali…”

Parole solenni. Ma sono passati più di 70 anni, e quelle parole sono rimaste in un cassetto. Abbiamo avuto governi di ogni colore, promesse rinnovate, titoli di giornale e dichiarazioni trionfali.

Ma la verità è che la Sardegna non è mai stata una vera zona franca. Mai.

Qualche porto, qualche proclama

Ci sono sei porti in Sardegna dichiarati “zone franche doganali”: Cagliari, Olbia, Porto Torres, Oristano, Arbatax, Portovesme. Ma riguardano solo le merci in transito. Un discorso tecnico, lontano dalla vita concreta delle famiglie, degli artigiani, dei giovani che cercano un futuro.

Chi vive a Sassari, a Nuoro, a Iglesias, a Quartu o a Lanusei non ha alcun beneficio. Nessuna detrazione. Nessun regime speciale.

Eppure viviamo su un’isola. E questo, nel 2025, significa ancora isolamento, ritardi, costi doppi. Significa essere cittadini italiani… ma un po’ più a caro prezzo.

Politica delle illusioni

Ci sono stati presidenti regionali che hanno proclamato la zona franca integrale. Ma la verità è che serviva – e serve – una legge dello Stato, e un riconoscimento dell’Unione Europea.

E nessuno ha mai avuto davvero il coraggio di combattere fino in fondo per ottenerlo.

Hanno preferito gestire l’ambiguità. Alimentare speranze. Senza spiegare che, senza il via libera di Roma e Bruxelles, tutto resta carta straccia.

E altrove, invece, funziona

Lo dico con rispetto: a Livigno l’IVA non si paga. A Campione d’Italia, enclave svizzera, ci sono vantaggi fiscali. Alle Canarie, a Madeira, in alcune zone della Spagna e del Portogallo ci sono regimi fiscali agevolati per davvero. Approvati. Funzionanti. Operativi.

E la Sardegna? La Sardegna resta ferma. Con uno Statuto bellissimo ma inattuato. Con porti che accolgono merci, ma con giovani che partono senza più tornare.

Zona franca è giustizia, non privilegio

Non è solo una questione economica. È una questione di dignità. Di equità. Di rispetto per una terra che ha dato tanto e ricevuto poco.

Io non voglio che la Sardegna diventi un paradiso fiscale. Non voglio l’illegalità, né l’evasione. Ma voglio un trattamento giusto. Vero. Coerente con la nostra storia, la nostra posizione, le nostre difficoltà.

Perché vivere su un’isola è una condizione che chiede qualcosa in cambio. Non per avere di più. Ma per non restare sempre con meno.

E ora?

Vorrei che chi legge queste righe si fermasse un istante a pensare. Che sia un sardo o no. Che sia un politico o un semplice cittadino.

Vorrei che ci chiedessimo, tutti insieme: perché a noi no? Perché la Sardegna non ha ciò che altri territori hanno avuto?

Se davvero vogliamo cambiare le cose, serve consapevolezza. Non proclami. Non illusioni. Ma volontà. Competenza. Coraggio.

Io continuo a sperarci. Ma non in silenzio.

Quando la sinistra perde la bussola (e l’onestà intellettuale)

 


L’attacco permanente a Giorgia Meloni non è più opposizione: è solo livore ideologico

In un Paese che ha attraversato governi deboli, media compiacenti e un’opposizione sempre più disancorata dalla realtà, il dibattito pubblico si è ridotto a un tiro al bersaglio continuo contro chi oggi ha la responsabilità di governare. Giorgia Meloni ne è il bersaglio prediletto, colpita ogni giorno da una sinistra che non fa più opposizione, ma professione di disprezzo.

L’ultimo pretesto? I dazi concordati tra Unione Europea e Stati Uniti, originati sotto l’amministrazione Trump, rivisti e adattati durante quella di Biden, con cui anche l’Italia, com’è naturale in un sistema multilaterale, si confronta e si coordina. Eppure, per certa sinistra, basta questo per scatenare la solita accusa: “Meloni è subalterna a Trump”. Uno slogan, nulla più.

Ma cosa significa davvero questa accusa? È fondata su dati concreti? Sull’analisi di una strategia economica o geopolitica? No. È soltanto un modo di ribadire, a prescindere dai contenuti, che chiunque non appartenga a una certa élite culturale e politica debba essere screditato.

Il problema non è solo che la critica è sterile, ma che è diventata una forma di riflesso pavloviano. Ogni passo di questo governo, anche quelli che ottengono risultati visibili o consenso internazionale,  viene subito etichettato come regressivo, pericoloso, grottesco. Senza discussione, senza onestà.

La sinistra italiana sembra ormai incapace di riconoscere il merito altrui, anche quando si tratta di difendere interessi nazionali, posizionarsi in modo autonomo sul piano internazionale, o rispondere a una crisi migratoria ed energetica che loro stessi hanno contribuito ad aggravare.

Perché è questo il nodo centrale: dov’era tutta questa indignazione quando Giuseppe Conte, presidente del Consiglio per due governi, firmava accordi con la Cina in piena sudditanza diplomatica, o si piegava a ogni diktat dell’UE senza ottenere alcun vantaggio concreto per l’Italia? Quello stesso Conte che, non dimentichiamolo, è stato il capo di governo meno attrezzato, meno coerente e più contraddittorio dell’intera storia repubblicana.

Il governo Meloni, pur tra mille difficoltà e limiti fisiologici, ha riportato una linea di coerenza politica. Ha costruito rapporti strategici con paesi chiave, ha restituito all’Italia un profilo istituzionale chiaro, e ha dimostrato capacità di tenere il punto su dossier complicati. In politica estera si è fatta rispettare sia con Biden che con Modi, sia a Bruxelles che nel G7.

Ma per la sinistra ideologica tutto questo non conta. Ciò che conta è non perdere il monopolio del giudizio morale. Anche a costo di mistificare. Anche a costo di sembrare arroganti, rancorosi, autoreferenziali.

C’è qualcosa di profondamente tossico in questa narrazione, dove l’attacco a Meloni diventa una forma di legittimazione identitaria, più che una critica basata sui fatti. Una sinistra che si dice democratica, ma che non tollera un governo democraticamente eletto. Che si dice europeista, ma che ignora il diritto di ogni Paese di portare avanti la propria visione. Che si dice antifascista, ma che usa il fascismo come insulto universale per evitare il confronto sul merito.

Non si chiede alla sinistra di applaudire la Meloni. Si chiede, più semplicemente, di essere onesta. Di tornare a essere un’opposizione seria, non una caricatura ideologica. Di distinguere tra ciò che è sbagliato e ciò che è legittimamente diverso. Perché non tutto ciò che non piace è sbagliato, e non tutto ciò che non rientra nel proprio schema mentale è pericoloso.

Il discredito sistematico non rafforza la democrazia: la logora. E chi si ostina a negare l’evidenza di un governo che, con i suoi difetti, lavora, tiene la barra e affronta dossier lasciati marcire per anni, dimostra solo una rabbia sterile e controproducente.

Giorgia Meloni sta restituendo all’Italia un’identità politica, un’autorevolezza e una centralità internazionale che erano andate disperse. E chi non riesce nemmeno ad ammetterlo, non è alternativo: è fuori tempo massimo.

31 luglio 2025

IL SILENZIO CHE FA RUMORE

 


Riflessione personale

Ci sono momenti in cui anche le parole sembrano sbagliate. Non per ciò che dicono, ma per ciò che possono provocare. È così che mi sento ogni volta che cerco di pensare, e forse anche solo sussurrare, qualcosa su Gaza. È come camminare su vetro: ogni parola potrebbe frantumarsi, ogni frase potrebbe essere interpretata, travisata, etichettata. E allora – come molti – mi fermo. Taccio. Ma questo silenzio non mi rende più saggio, né più umano. Solo più confuso, più distante da ciò che provo davvero.

Mi accorgo che la difficoltà non è solo nella complessità della realtà laggiù, ma nella paura che si è instaurata qui, dentro e attorno a me. Paura di sbagliare tono. Paura di offendere qualcuno. Paura di essere frainteso, ridotto a un'opinione che non è mia, o peggio, a uno schieramento ideologico a cui non appartengo.

Eppure non si può ignorare il dolore. Non si può essere spettatori passivi quando la sofferenza – così evidente, così lacerante – si riversa nei nostri occhi. Bambini affamati, famiglie sotto le macerie, ostaggi dimenticati, madri in fuga. E non importa da quale parte arrivino. La sofferenza vera, quella umana, non ha passaporto.

Mi rendo conto che spesso vorrei solo avere uno spazio per dire: "Non capisco tutto. Non so chi abbia ragione. Ma so che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui stiamo vivendo questo dramma collettivo". Non dico "vivendo" nel senso diretto, ma "vivendo interiormente": quel senso di impotenza mista a paura, la frustrazione che nasce dal non sapere come reagire, come parlarne, con chi, e se davvero vogliamo farlo.

A volte, l’unico pensiero chiaro che riesco a formulare è questo: siamo diventati incapaci di distinguere la compassione dalla posizione politica. Se esprimo dolore per Gaza, qualcuno penserà che sto legittimando Hamas. Se parlo dell’attacco del 7 ottobre, qualcun altro penserà che sto ignorando le sofferenze palestinesi. E allora si tace. Ma questo tacere ha un prezzo: quello della solitudine morale. Smettiamo di confrontarci, smettiamo di pensare insieme. Rimaniamo intrappolati nelle nostre bolle etiche, spaventati anche solo dal fatto che un amico possa pensarla in modo radicalmente diverso.

Eppure credo che il vero pericolo sia proprio questo: arrenderci all’idea che non si possa più parlare. Che non esistano più spazi per il dubbio, per l’empatia, per la fragilità del non sapere. Invece ce ne sarebbe un bisogno disperato. Non per risolvere tutto. Ma per tornare a guardarci negli occhi e dirci: "Io sento questo. Tu cosa senti?".

Vorrei che ci fosse più coraggio nell’ammettere la confusione. Più umiltà nel riconoscere che, spesso, la verità non sta da una parte sola. Più umanità nel dire che il dolore di un bambino israeliano non cancella quello di un bambino palestinese. E viceversa.

Non ho risposte. Ma credo che il primo passo sia permettersi di fare domande. Non con l’intento di vincere una discussione, ma per restare umani dentro una tragedia che ci supera.

Magari basterebbe questo: cominciare a parlarne. A bassa voce. Con rispetto. Con pudore. Senza slogan, senza giudizi. Solo con la volontà di restare presenti, e non complici del silenzio.

Ciò che accade a Gaza, come in molte altre parti del mondo, ci sfida a pensare in profondità cosa significhi oggi essere empatici, critici e dialogici allo stesso tempo. Questo testo non pretende di avere l’ultima parola. È, se mai, un tentativo di dare voce a quel disagio che molti sentono ma pochi osano esprimere. Se anche solo una persona, leggendo queste righe, sentirà meno solitudine nel proprio silenzio interiore, allora questo scritto avrà avuto un senso.

 

 

28 luglio 2025

L’accordo tra UE e USA “di Paolo Corrias”

 

C’è un valore sottile, e spesso trascurato, nei compromessi. È il valore della stabilità in tempi turbolenti, della pazienza quando il mondo corre, della lucidità quando sarebbe più facile gridare. È questo che ho pensato ieri sera, mentre leggevo dell’accordo raggiunto a Turnberry, in Scozia, tra la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente americano Donald Trump.

Non è solo un'intesa commerciale. È un gesto politico, simbolico e – nel suo piccolo – anche culturale. È un segnale che, tra due colossi economici come l’Unione Europea e gli Stati Uniti, il filo del dialogo resta saldo. E questa, da semplice cittadino europeo, mi pare una buona notizia.

Il cuore dell’intesa è semplice: un dazio uniforme del 15% sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, incluse automobili, farmaci e semiconduttori. Certo, non è un regalo. Ma è una soglia che, rispetto alle previsioni di un possibile 30%, rappresenta una forma di equilibrio. Lo ha detto con onestà la presidente von der Leyen: “È il massimo che siamo riusciti a ottenere”.

Come cittadino, non ho strumenti per giudicare la complessità delle trattative, ma posso apprezzare un risultato che – pur imperfetto – ha evitato l’irrigidimento dei rapporti e un’escalation di tensioni commerciali. In un’epoca in cui i dazi vengono usati come armi, questa è già una vittoria di maturità politica.

C’è un altro aspetto dell’accordo che merita attenzione. L’Unione Europea si è impegnata ad acquistare energia statunitense per un valore complessivo di 750 miliardi di dollari in tre anni, favorendo così il progressivo distacco dai combustibili fossili russi.

Una mossa che, pur con i suoi costi, indica una scelta di indipendenza strategica. Ci stiamo allontanando da vecchie dipendenze, da equilibri rischiosi. E anche se la transizione energetica è ancora lunga, questi sono i primi mattoni su cui costruire una maggiore autonomia.

Non solo: anche l’ambito militare è parte del pacchetto. L’Europa acquisterà nuove forniture militari dagli USA. È un tema delicato, su cui le opinioni si dividono. Ma non si può ignorare che in un mondo instabile, con conflitti alle porte dell’Europa, rafforzare la cooperazione tra alleati storici significa anche rafforzare la sicurezza condivisa.

L’accordo prevede anche l’azzeramento reciproco dei dazi su una lista di settori strategici: aeromobili, componentistica, farmaci generici, semiconduttori, alcuni prodotti agricoli. È un primo passo. E la stessa von der Leyen ha promesso che si lavorerà per allargare questo elenco.

Certo, alcuni nodi restano da sciogliere – come quello dei dazi su vino e superalcolici – ma l’apertura al confronto continuo mi sembra più importante del risultato immediato. Significa che non è un’intesa chiusa, ma un processo in evoluzione. E in un mondo che cambia rapidamente, il fatto stesso di poter aggiornare e migliorare un’intesa è già un punto di forza.

Non ho appartenenze politiche da rivendicare, né tesi da difendere. Scrivo solo da cittadino europeo attento e coinvolto, che non vuole lasciarsi andare al cinismo o alla sfiducia. Forse perché credo ancora che l’Europa, pur tra mille limiti, possa essere un esempio di dialogo in un tempo che predilige lo scontro.

In questo accordo vedo non la resa a una potenza più forte, ma la scelta consapevole di restare interlocutori credibili, capaci di trattare, di difendere i nostri interessi, di costruire ponti anche quando sembra più facile alzare muri.

Viviamo un’epoca difficile, in cui ogni notizia sembra subito diventare polarizzante. Ma non tutto è bianco o nero. A volte, nel mezzo, ci sono intese come questa, che non brillano per spettacolarità ma che, silenziosamente, fanno funzionare il mondo.

A distanza di 24 ore, rileggo le parole dei due protagonisti dell’accordo: Trump entusiasta come sempre, von der Leyen prudente ma ferma. Tra i due stili, due visioni. Ma la sostanza rimane: ci siamo parlati, abbiamo trovato un punto d’incontro.

E se c’è una lezione da trarre, forse è questa: in tempi incerti, la forza non sta solo nella potenza, ma nella continuità del dialogo.

Io, da cittadino europeo, lo considero un passo nella direzione giusta. Piccolo, forse. Ma necessario.


Il silenzio che sa di complicità.


Davanti alle violenze avvenute recentemente in Val di Susa, alle aggressioni alle Forze dell’Ordine, alle scene che nulla hanno a che vedere con il diritto al dissenso, ciò che più mi colpisce non è solo la brutalità dei fatti – già grave in sé – ma il silenzio ostinato e colpevole della sinistra italiana (disagio morale, prima ancora che politico), di quella che si definisce progressista, democratica, europeista. Di quella che si raccoglie sotto l’etichetta sempre più vuota del “campo largo”.

Dove sono Elly Schlein e Giuseppe Conte?

Dove sono le parole chiare, nette, in grado di distinguere tra protesta e violenza?
Dove sono le condanne senza “ma” e senza “se”?

Non ci sono. Non si sentono. Non parlano.

E questo silenzio non è neutrale: è complice.

È un silenzio che puzza di calcolo, di strategia elettorale, di paura di perdere i consensi delle frange più radicali che da anni agiscono sotto la bandiera dell’ambientalismo e dell’anticapitalismo. È un silenzio che non ha il coraggio della responsabilità politica, ma si nasconde dietro l’ambiguità, l’inerzia e l’autoassoluzione.

Io questo non lo accetto. E non lo dimentico.

La sinistra italiana, oggi, non riesce più nemmeno a dire l’ovvio. Non riesce a dire che lanciare pietre, incendiare mezzi, ferire poliziotti, sabotare cantieri non è “protesta”: è violenza, punto. E chi resta zitto, chi si gira dall’altra parte, chi borbotta con parole vaghe su “modelli di sviluppo alternativi” senza mai prendere posizione, si sta assumendo una responsabilità pesante. Sta contribuendo ad alimentare una cultura della tolleranza verso l’intimidazione e il disordine, solo perché arriva dalla parte “giusta”.

È questa la sinistra che dovremmo sostenere? Una sinistra che si indigna per i manganelli contro gli studenti ma tace quando si colpiscono gli agenti? Una sinistra che si autodefinisce “democratica” e poi non ha il coraggio nemmeno di dire che la violenza è inaccettabile sempre, da chiunque provenga?

Elly Schlein ha avuto tempo e modo per parlare. Ha avuto gli spazi e le occasioni. Ma ha scelto il silenzio. Conte, da parte sua, è un campione di ambiguità: condanna “la violenza” in astratto, ma sempre con tono indulgente, sempre con quel retrogusto giustificazionista che serve solo a tenere buoni i voti degli ex grillini rimasti intrappolati nel mito della lotta perenne contro il sistema.

E allora lo dico chiaramente: il campo largo, così com’è, non è un progetto politico. È un contenitore fragile di viltà, silenzi, convenienze. Un’alleanza senza spina dorsale, senza coraggio, senza una visione vera dell’Italia. Perché chi non ha il coraggio di condannare la violenza solo perché ha paura di perdere il voto del centri sociali, dei comitati, degli attivisti più urlanti, non può governare un Paese.

Non mi basta che Schlein parli di diritti, di giustizia sociale, di uguaglianze. Tutte cose nobili, ma che si svuotano se non si ha il coraggio della coerenza. Non mi basta che Conte si presenti come il garante della Costituzione se poi sta zitto davanti a chi la calpesta con le molotov e i petardi.

Non ci sono ambiguità ammissibili quando c’è qualcuno che attacca lo Stato con la violenza. Non si può restare in silenzio in nome della pluralità. Il silenzio, in politica, è una scelta. E oggi è una scelta codarda.

Personalmente, non appartengo a Fratelli d’Italia ma almeno in questa occasione hanno avuto il coraggio di dire ciò che la sinistra non osa dire: che chi aggredisce, devasta e ferisce deve essere punito. Che le Forze dell’Ordine meritano rispetto, non silenzio.

Il paradosso è che questa sinistra, quella del campo largo, non riesce nemmeno più a difendere i principi su cui dovrebbe essere nata: la non violenza, la legalità, la difesa dei diritti dentro le regole democratiche. La protesta è sacra, sì. Ma non esiste protesta legittima che passi attraverso l’odio, l’aggressione, la strategia del terrore. E chi oggi non condanna questi atti non è ambiguo: è connivente.

Questo non è un attacco ideologico. È una presa di coscienza. Ed è una delusione amara.
Da cittadino che ha creduto in certi valori, oggi mi ritrovo orfano di una sinistra vera. Una sinistra che abbia il coraggio di essere scomoda anche per sé stessa. Di condannare chi sbaglia anche se indossa una bandiera amica. Di mettere la democrazia prima del consenso.

Ma oggi, quella sinistra non c’è. C’è solo un campo largo che resta muto.

E quando si tace davanti alla violenza, si diventa parte del problema.

27 luglio 2025

Giuseppe Conte: il volto gentile della spesa pubblica senza freni

È difficile parlare di Giuseppe Conte senza inciampare nel paradosso. Un uomo arrivato alla guida del governo italiano senza essere mai stato eletto, privo di una militanza politica alle spalle, ma capace , con una sorprendente abilità mimetica, di attraversare due governi agli antipodi (prima con la Lega, poi con il PD e il M5S), sopravvivere a due legislature e presentarsi infine come leader di un movimento “di lotta e di governo” allo stesso tempo. Ma al di là della sua capacità comunicativa e dell’immagine da “avvocato del popolo”, c’è un’eredità più pesante che va analizzata con freddezza: il conto che ha lasciato allo Stato italiano.

Parlare di bilancio pubblico può sembrare noioso o tecnico. Ma è da lì che si capisce tutto: la visione politica, la credibilità, il rapporto tra la promessa e la realtà. E Giuseppe Conte, in questo, ha incarnato un modo di governare basato più sulla distribuzione del consenso che sulla sostenibilità delle scelte.

Durante i governi Conte I e Conte II, l’Italia ha accumulato centinaia di miliardi di nuovo debito pubblico, gran parte dei quali giustificati in nome dell’emergenza sanitaria e sociale. Ma c’è una differenza tra spendere per salvare vite – cosa doverosa – e utilizzare la pandemia come paravento per misure populiste, assistenziali e spesso clientelari, con impatti strutturali sul bilancio statale.

Il reddito di cittadinanza, per esempio, è una misura che ha avuto senso in un contesto di povertà estrema, ma la sua applicazione, durata e gestione sono state profondamente sbagliate. Introdotto nel 2019 con il governo Conte–Salvini, doveva “abolire la povertà” – slogan che lui stesso usò, col piglio da santone più che da premier – ma ha di fatto creato una nuova fascia di dipendenza assistenziale, senza risolvere il problema della disoccupazione e aggravando le casse pubbliche.

Costo annuo stimato: oltre 8 miliardi di euro, con punte di spesa superiori nei primi anni, senza effetti reali sull’occupazione. Il fallimento dei “navigator”, la mancata attivazione di percorsi di reinserimento lavorativo e le truffe emerse nel tempo ne sono la prova.

Sotto Conte, lo Stato è diventato una sorta di bancomat elettorale. Dalle lotterie degli scontrini al bonus monopattino, dal superbonus 110% (che merita un capitolo a parte) al bonus terme, vacanze, biciclette, occhiali… si è creata una cultura del “premio” scollegata da ogni idea di merito o riforma strutturale.

Il Superbonus 110% in particolare è stato uno dei più costosi, disorganizzati e dannosi interventi mai visti nella storia della finanza pubblica italiana. Nato con buone intenzioni (rilanciare l’edilizia, migliorare l’efficienza energetica), è diventato una valanga incontrollata di spesa, con stime che oggi oscillano oltre i 150 miliardi di euro. Soldi sottratti al futuro, a una fiscalità seria, a una programmazione vera.

Il meccanismo del credito d’imposta cedibile ha creato un sistema opaco e incontrollabile di guadagni facili per imprese furbe, consulenti, banche e intermediari. Chi aveva già una casa e i mezzi per avviare lavori ha beneficiato enormemente, mentre i più poveri, ancora una volta, sono rimasti ai margini. Un Robin Hood al contrario.

Conte ha inoltre consolidato un modello di spesa corrente fuori controllo, senza preoccuparsi degli equilibri di medio-lungo periodo. Le sue manovre finanziarie sono state spesso costruite con entrate fittizie, stime ottimistiche, fondi emergenziali e deroghe continue alle regole di bilancio.

Durante la pandemia, è vero, serviva flessibilità. Ma Conte ha approfittato di quella flessibilità per non affrontare mai il nodo vero: come rendere sostenibili i conti pubblici nel tempo. Le clausole di salvaguardia, le spese obbligatorie, gli impegni futuri assunti dallo Stato sono esplosi, lasciando ai governi successivi il compito di fare i conti con una realtà drammatica.

Secondo diverse analisi indipendenti, tra il 2018 e il 2021 il debito italiano è passato dal 134% al 156% del PIL, in parte per il COVID, ma in parte per una serie di scelte fatte senza alcuna valutazione dell’impatto a lungo termine. Quando si distribuisce consenso a debito, il conto arriva. Sempre.

Il grande paradosso di Conte è che, mentre accumulava deficit, debito e misure insostenibili, riusciva a mantenere una narrazione da “statista responsabile”. Merito della sua calma, della voce pacata, della retorica sempre sobria. Un abile comunicatore, certo. Ma la sostanza dice altro: sotto il suo governo non c’è stata alcuna riforma fiscale, nessun taglio vero agli sprechi, nessuna razionalizzazione della macchina pubblica. Solo incentivi, proroghe, bonus, rinvii.

Conte è stato il re dell’interventismo emergenziale, ma totalmente assente nella costruzione di una visione a medio termine. L’Italia non è uscita più forte dalla sua gestione. È uscita più indebitata, più confusa, più dipendente dallo Stato, senza strumenti reali per affrontare le sfide del futuro: invecchiamento, produttività, transizione ecologica.

C’è un punto che, per me, è decisivo. Conte rappresenta una nuova forma di populismo: non urlato, ma sussurrato. Non quello dei Vaffa e degli slogan brutali, ma quello più elegante, insinuante, apparentemente moderato. Eppure, la logica è la stessa: dare qualcosa a tutti, promettere senza coprire, evitare i conflitti veri, dire ciò che piace sentirsi dire.

Ha governato con Salvini, poi con Zingaretti e Franceschini. Ha detto tutto e il contrario di tutto. Si è definito “socialista liberale” e poi ha stretto alleanze con le ali estreme. Oggi guida un Movimento 5 Stelle trasformato in partito personale, senza congressi, senza dibattito interno, e con un programma economico ancora centrato sulla spesa pubblica massiva e su un’idea di Stato che distribuisce denaro come fosse gratuito.

Giuseppe Conte ha dimostrato che si può diventare popolari non facendo riforme, ma distribuendo illusioni. E questa, in fondo, è la sua vera eredità politica: ha consolidato l’idea che governare significhi semplicemente “dare qualcosa a tutti”, senza affrontare il costo sociale delle scelte, senza avere il coraggio di dire qualche no.

Il risultato? Un’Italia più fragile, un debito fuori controllo, conti da sistemare per decenni. E mentre lui continua a presentarsi come la voce del popolo, a opporsi al governo in carica con la stessa retorica del “noi stiamo con i deboli”, restano le macerie di un bilancio drogato da bonus e promesse.

La politica ha bisogno di passione, ma anche di responsabilità. E Conte, in questo equilibrio, ha scelto sempre la via più facile: quella del consenso immediato, a spese del futuro.


Elly Schlein: la distanza tra simbolo e sostanza

 

Non è facile per me parlare di Elly Schlein senza cedere alla tentazione del giudizio affrettato. Da mesi osservo la sua figura pubblica con attenzione, provando a mettere da parte le emozioni , lo spaesamento, la disillusione, a volte persino la rabbia, che ogni giorno la politica italiana riesce a suscitare in chi ancora spera che essa possa servire a qualcosa. Forse è proprio questo il punto: Elly Schlein rappresentava, per molti, una promessa. Per alcuni una speranza di rinnovamento radicale, per altri l’ennesima illusione camuffata da progresso. Per me, all’inizio, una curiosità intellettuale. Oggi, più che mai, uno dei sintomi di una politica che ha smarrito il proprio centro: quello della credibilità.

Quando fu eletta segretaria del Partito Democratico, Schlein arrivò come un volto nuovo, giovane, fresco, alternativo al solito apparato di uomini grigi e autoreferenziali. Era donna, era dichiaratamente queer, era femminista, europeista, figlia del mondo globalizzato e della sinistra radical chic. Parlava benino, si muoveva tra le lingue e le identità come chi ha frequentato più università che piazze. E questo, per molti suoi sostenitori, era un pregio. Per me, era un campanello d’allarme.

Il problema non è mai la cultura, sia chiaro. Il problema è l’uso che si fa della cultura. Elly Schlein non ha mai provato a nascondere le sue origini borghesi, ma ha anche cercato, fin dall’inizio, di costruire una narrazione “alternativa” di sé: quella di una ragazza ribelle ai salotti buoni, più vicina agli attivisti di strada che ai circoli del potere. È una strategia vecchia quanto la politica, eppure oggi funziona ancora: camminare tra i migranti a Lampedusa, indossare abiti sobri, citare le lotte LGBTQ+ e i Fridays for Future, mentre si guida, di fatto, un partito che ha amministrato gran parte del potere negli ultimi trent’anni.

La sinistra italiana è diventata negli anni un laboratorio permanente di contraddizioni. Elly Schlein non le ha risolte. Le ha semmai incarnate con una coerenza sorprendente: progressista nei discorsi, moderata nelle azioni. Inclusiva nei toni, ma sempre più elitaria nei contenuti. Una sinistra che parla a una minoranza molto istruita, urbana, internazionalizzata, ma che ha rotto ogni rapporto con le classi popolari, i piccoli imprenditori, gli operai, i disoccupati, gli italiani di provincia.

In questo senso, la sua elezione è stata un atto simbolico perfetto: rappresenta alla perfezione il vuoto identitario di un partito che ha smesso di rappresentare chi lavora. Ha ereditato un PD già in crisi, e anziché ricostruirne le fondamenta, ha scelto di cambiarne la vernice. Con toni gentili, ma con lo stesso distacco.

Parlare di comunicazione politica oggi significa parlare di linguaggio. E il linguaggio di Elly Schlein, per quanto spesso sofisticato e ben costruito, è anche profondamente ambiguo. Non per incapacità, ma per strategia. Come molti leader contemporanei, anche lei gioca sulla sfumatura, sull’indistinto, sul detto e non detto. Vuole apparire radicale, ma non troppo. Inclusiva, ma senza dividere. Di sinistra, ma dialogante. In un’epoca in cui la chiarezza premia (vedi Giorgia Meloni), Elly Schlein sembra voler vincere con la diplomazia.

Ma la realtà è che la gente vuole sapere da che parte stai, non con chi ti confronti. Se sei contro il jobs act o no. Se pensi che la famiglia sia solo quella “tradizionale” oppure se vuoi davvero una riforma seria dei diritti. Se vuoi abolire il reddito di cittadinanza oppure ampliarlo. La politica è fatta anche di scelte nette, e Schlein sembra più a suo agio nel raccontare il cambiamento che nel praticarlo.

In molti suoi interventi pubblici, ho avuto la sensazione di ascoltare una brava studentessa che conosce bene il programma ma non ha mai messo piede in una fabbrica. E non per mancanza di volontà, ma perché il suo orizzonte simbolico è un altro: quello delle ONG, delle università, delle reti europee, dei think tank progressisti. Tutto questo è utile, persino necessario, ma non può bastare. Non puoi fare opposizione a Giorgia Meloni senza mettere i piedi nella polvere della vita reale.

La sconfitta alle elezioni europee del 2024 ha rappresentato per Elly Schlein una doccia fredda. Ma era prevedibile. In un’Italia dove la destra vince parlando alle paure e ai bisogni della gente, la sinistra non può più permettersi di parlare solo a se stessa. Non può rifugiarsi nel linguaggio dei diritti senza affrontare il problema della giustizia sociale. Non può invocare l’Europa mentre metà del Paese affoga nella precarietà. E soprattutto, non può restare zitta sui grandi temi, o limitarsi a reazioni timide.

Sulla guerra in Ucraina, sull’immigrazione, sulla crisi energetica, sul lavoro povero… il PD di Schlein ha spesso oscillato tra silenzi imbarazzanti e posizioni annacquate. Nessun affondo netto, nessuna proposta davvero di rottura. Solo dichiarazioni di principio, conferenze stampa, tweet ben scritti. L’impressione è che la battaglia non sia nel cuore, ma solo nella forma. E che l’ideologia – se esiste – sia più un’estetica che una missione.

Un altro punto dolente riguarda la questione femminile. Elly Schlein è spesso presentata come simbolo del femminismo contemporaneo. Ma quale femminismo? Quello delle quote rosa? Delle foto in prima pagina con i tailleur sobri? Della narrazione tutta centrata sull’identità personale? Essere donna, in sé, non basta. E non basta nemmeno essere queer. Il vero femminismo politico dovrebbe tradursi in atti concreti: tutela della maternità, lotta al gender gap, accesso gratuito alla sanità, contrasto alla violenza, riforma del lavoro part-time e precario. E qui, il vuoto si sente.

Schlein ha parlato, certo. Ma ha agito poco. E soprattutto, ha rappresentato un femminismo che – ancora una volta – parla più alle élite urbane e colte che alle donne delle periferie, alle mamme sole, alle impiegate in nero. Un femminismo simbolico, ma non popolare. E quindi, come spesso accade, inefficace.

Elly Schlein è, forse, il simbolo perfetto di una sinistra che ha smarrito il legame con la propria base. Non perché non sia intelligente, colta, sensibile. Ma perché parla un linguaggio che pochi riconoscono come proprio. Non sa entusiasmare. Non sa emozionare. Non riesce a generare quel senso di “noi” che è l’anima profonda di ogni progetto collettivo.

E così, mentre la destra continua a occupare spazi e territori, mentre le diseguaglianze aumentano, mentre la rabbia cresce e si trasforma in rassegnazione o populismo, la sinistra di Elly Schlein resta impigliata nella sua retorica e nella sua correttezza. Forse per paura di sbagliare. Forse per un eccesso di cautela. Forse per mancanza di coraggio.

Scrivere questo articolo non è stato facile. Non per mancanza di idee, ma per delusione. Avevo sperato, come molti, che Elly Schlein potesse essere qualcosa di diverso. Che la sua elezione segnasse un cambio di passo, un ritorno al pensiero forte, al coraggio delle scelte. Invece, mi ritrovo a guardare una figura competente ma distante, elegante ma impalpabile, appassionata ma fredda.

Forse è ancora presto per giudicare. Forse la sua visione ha bisogno di tempo per radicarsi. Ma la politica non aspetta, e le speranze tradite lasciano cicatrici profonde.

Oggi, guardando la sua traiettoria, mi chiedo se Elly Schlein sia davvero la leader che serve alla sinistra italiana. O se sia solo l’ennesimo esperimento di un partito che continua a cercare fuori ciò che ha perso dentro.