"Problemi economico-finanziari della Sardegna". È questo il titolo del nuovo libro del siniscolese Adriano Bomboi edito da Condaghes.
Dopo diversi anni di letture confronti sull’argomento Zona Franca, sul
quale ho sempre indicato Mario Carboni come riferimento certo e rigoroso, ho
riletto in questi giorni ció che ha scritto Adriano Bomboi nel ultimo libro
dedicato ai problemi economico-finanziari della Sardegna.
I temi trattati, accompagnati dai contributi di economisti e addetti
ai lavori alle prese coi dati ufficiali e le dinamiche del mercato: dalla
“guerra del latte” al problema dei trasporti, dalla situazione della sanità al
piano paesaggistico regionale, passando per la vertenza entrate sino al
controllo politico della Fondazione Banco di Sardegna (e la BPER). E inoltre,
mancate zone franche, accise, basi militari, Abbanoa, dispersione scolastica,
pensioni e spopolamento. Per la prima volta, l'opera osserva questi e
altri argomenti relativi all’economia contemporanea dell’isola, senza cercare
alibi nelle classi dirigenti del passato, per evidenziare le responsabilità
della politica locale e dello Stato italiano nel drammatico ritardo di
competitività del territorio.
Lo riporto di seguito integralmente.
“Oggi una parziale ma decisiva risposta alla crisi dell’industria e
delle manifatture può arrivare dall’istituto delle zone franche. Ma, si
intenda, sia il contesto normativo che quello politico lasciano spazi ristretti
a questa misura. I motivi sono molteplici: in primo luogo è necessario
ricordare che ciò che in Sardegna viene definito zona franca, nel mondo
esiste in un’ampia gamma di tipologie e sotto diverse denominazioni.
Generalmente il porto franco consiste in un’area esente dal pagamento di
imposte e dazi di importazione. Pensiamo alle Export Processing
Zones (vedere le Zone Economiche Speciali, largamente utilizzate in Cina)
in cui i vantaggi si proiettano nella capacità di realizzare beni per l’export
sul mercato internazionale, grazie all’opportunità di attirare capitali
stranieri, a loro volta stimolati da speciali incentivi fiscali. In secondo
luogo, dobbiamo considerare che attualmente in Sardegna non esistono né le
leggi, né la volontà politica per sviluppare qualcosa di paragonabile a queste
soluzioni. Vi sono due motivi:
1) perché l’isola si trova inserita nel contesto normativo italiano ed
europeo (tale per cui determinati benefici vengono concessi solo a minoritarie
e/o periferiche zone UE, come le Canarie);
2) perché la confusione della politica attorno a tale misura genera,
da un lato, politici propensi a propagandare fasulle zone franche al
consumo o zone franche integrali; dall’altro, totale
ostruzionismo alla determinazione degli unici punti franchi oggi
giuridicamente possibili da attivare.
In merito al primo motivo possiamo pensare a tutti quei piccoli
amministratori che, tramite delibere prive di fondamenti giuridici,
attribuiscono al proprio comune poteri statuali, tali per cui si pretendono
addirittura infondati sconti sul prezzo della fornitura di carburanti alle
compagnie che operano nel loro territorio, e che ovviamente non vengono
concessi. Né, costoro, sono in grado di argomentare quale economia
sorreggerebbe l’isola nell’ipotetica attivazione di una zona franca integrale
(che farebbe venir meno anche il gettito IRAP con cui oggi, ad esempio, viene
finanziata una lauta percentuale della sanità, e nonostante l’IRAP sia da
tagliare). Meglio sarebbe, come suggerì anche Paolo Savona prima della sua
entrata nel governo Conte, una fiscalità maggiormente agevolata per chi crea il
lavoro269.
Il secondo motivo invece attiene a una storica battaglia sardista,
portata avanti non solo dal classico PSD’AZ, seppur a fasi alterne e grazie
all’input di Mario Carboni, ma anche, per citare un’altra sigla,
dalla Fortza Paris di Gianfranco Scalas. In cosa consiste questa
battaglia? Nell’attuazione dell’art. 12, comma 2°, dello Statuto speciale per
la Sardegna: «Saranno istituiti nella regione punti franchi». Parole chiare e
nette che per decenni hanno trovato ostacoli di ogni sorta, come quelli
derivanti dal PCI, ideologicamente vicino alla programmazione e dunque
contrario al laissez-faire delle zone franche, nonché
avversario di ogni compagine politica autonomista270.
L’art. 12 ha trovato accoglimento nel decreto legislativo n. 75 del 10
marzo 1998, con il quale vennero previste le zone franche nei porti di
Cagliari, Olbia, Oristano, Porto Torres, Portovesme, Arbatax, e prescrivendo
che la loro ampiezza dovesse comprendere aree industriali a essi funzionalmente
collegate e collegabili. La legge regionale n. 20 del 2 agosto 2013 varò poi le
ulteriori norme di attuazione per renderle operative, ma fu un testo privo di
effettiva applicazione271. I punti franchi non vennero concretamente
perimetrati, ignorando persino l’apertura statale avuta all’epoca del decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri datato 7 giugno 2001 (concernente
ulteriori disposizioni per l’operatività della zona franca di Cagliari), e
l’interesse al riguardo delle comunità locali.
Insomma, ripartire da un iter lasciato in sospeso, cosa che richiede
pura e semplice volontà politica, sarebbe uno strumento utile anche per l’avvio
e il potenziamento del processo di riconversione economica del territorio a
seguito del progressivo smantellamento di alcune grandi industrie. Poli che
dovrebbero lasciare spazio all’assorbimento e alla riqualificazione della
manodopera nelle bonifiche e in una serie di attività che, grazie all’apporto
di nuovi capitali esterni, permetterebbero il consolidamento di un rinnovato
tessuto d’impresa.
Cioè
nuove aziende sostenibili, dedite ad agroalimentare e
artigianato, ma anche alla logistica, e quindi alla produzione e alla
trasformazione. Aziende capaci di trascinare con sé anche un know-how di
conoscenze e professionalità indispensabili alla crescita del nostro tessuto
economico, senza il quale non vi è consolidamento e diffusione dell’eccellenza.
Ricordiamoci infatti che la prima fase, le sole bonifiche, non costituiscono
un’alternativa occupazionale e di lungo termine ai problemi del territorio.
Ogni processo di riconversione, pur tenendo conto della possibilità di una
prossima crescita degli investimenti incentrati sulla sostenibilità ambientale,
non può aggirare il problema della sostenibilità economica dell’operazione, in
rapporto alle caratteristiche del nostro mercato.
Ma a queste soluzioni prevalgono inconsistenti soluzioni alternative,
tra cui delle opinabili proposte di zona franca urbana, o pseudo-ZES, come
quelle proposte dal PD, fondate sulla solita elargizione di denaro pubblico in
compensazione a un regime fiscale sostanzialmente immutato.
Solo in presenza di un’ipotetica indipendenza dell’isola sarebbe
possibile vagliare forme più efficienti di zona franca. Un ulteriore elemento
da considerare riguarda infatti l’avvento dell’Unione Europea, successiva alla
nascita dello Statuto autonomo regionale del 1948, che ha
ulteriormente compresso la libertà di disegnare nuovi punti franchi.
Un tentativo abortito di ricalcare la normativa del 1998 venne realizzato
dalla Cagliari Free Zone, società inizialmente formata dall’Autorità
portuale di Cagliari e dal Consorzio Industriale provinciale di Cagliari,
relativamente alla creazione di una zona franca doganale. Il progetto
atteneva alla possibilità di attirare aziende per produzioni da esportare in
ambito extraeuropeo. Nei fatti, anche a causa della normativa
paesaggistica, non si lavorò a una perimetrazione della zona franca, mentre la
politica regionale si orientò ancora nella volontà di promuovere altre
improbabili tipologie di area franca. Per esempio a Olbia, come quella non
interclusa (ossia inerente un deposito franco per le merci e non un’autentica
zona franca), senza risultati. Infatti, secondo una nota dell’Agenzia delle dogane
e dei monopoli: «Il Codice doganale dell’Unione Europea prevede,
all’articolo, un solo tipo di zona franca, quella interclusa, in cui il
perimetro e i cui punti di entrata e di uscita sono sottoposti a vigilanza
doganale. Le zone franche di tipo II e i depositi franchi sono stati
soppressi. […] L’articolo 243 si limita a prevedere che gli Stati membri
destinino alcune parti del territorio dell’Unione a zona franca. Rimane valida
quindi la disposizione secondo cui per l’istituzione di una zona franca è
necessaria l’emanazione di una legge»
In termini ancora più chiari: una zona franca deve essere recintata in
un preciso spazio geografico (da ciò il senso di perimetrare/intercludere), con
uscite e accessi vigilati. Dopodiché al loro interno si potrà eliminare il
volume del fisco che invece incide al di fuori dei suoi confini. Ecco perché la
miriade di comuni sardi che chiesero di inserirsi nei punti franchi previsti
nel 1998 non sono mai stati presi sul serio.
Il recente Codice doganale UE275 fa dunque piazza pulita di
alcune fantasiose interpretazioni sulla zona franca diffuse nell’isola, tra cui
quella di immaginare un’immensa area extradoganale corrispondente a tutta la
Sardegna, finalizzata a evitare imposte al consumo nel cuore del Mediterraneo occidentale.
Si tratta di aree che nella realtà, in Europa, presentano dimensioni contenute,
e sono generalmente situate in zone portuali, periferiche e/o di confine, come
a Livigno. I comuni italiani, come predetto, non hanno il potere di istituire
zone extradoganali nel proprio territorio, un’iniziativa che può svolgere solo
il governo, previo accordo con l’UE, data la partecipazione dell’Italia al
Mercato comune europeo (e contestualmente allo SEE). Ricordiamoci a tal
proposito il primo comma dell’art. 12 dello Statuto speciale della Sardegna, il
quale recita in modo chiaro e netto: «Il regime doganale della regione è di
esclusiva competenza dello Stato
In conclusione, negligenza politica e mentalità assistenziale sono ben
radicate e inalterate, un humus dagli echi hobbesiani in cui il libero mercato
viene inquadrato come un mondo inesplorato dominato dal caos e dal disordine.
Un luogo oscuro dove il conflitto non viene visto come un ordine spontaneo in
cui la concorrenza rappresenta il presupposto di qualità e innovazione, ma come
causa assoluta di diseguaglianze a cui rispondere con sempre più massicci
interventi pubblici. Gli economisti austriaci definiscono le alterazioni
prodotte da questi ultimi come conseguenze non
intenzionali dell’azione politica sul mercato (per esempio, la vicenda
della peste suina, inerente l’apparente bontà del sussidio e la conseguenza
reale e negativa della sua applicazione, rientra in questa casistica).
Difficile dunque in un simile contesto culturale, prima che politico, immaginare
la nascita di nuovi e ampi distretti industriali e manifatturieri sulla
falsariga del Veneto, della Lombardia o dell’Emilia Romagna, quali quelli
descritti dall’economista Giacomo Becattini. In Sardegna, eccetto pochi casi,
come la filiera del marmo oroseino o del sughero di Tempio e Calangianus, non
esiste un indotto capace di scompattare le varie fasi del processo produttivo
di determinati beni (come vedremo infatti nel capitolo VIII sull’istruzione),
manca persino un adeguato capitale sociale formato alle sfide della
specializzazione. Considerando inoltre che, a oggi, un ampio settore
dell’industria sarda, quella chimica, rappresenta un ciclo integrato. Ossia un
modello produttivo incapace di generare nel territorio circostante un
indotto di imprese e dipendenti deputato a lavorare in continuità con lo stesso
ambito. Il caso del Veneto, con il suo peculiare “ecosistema” produttivo,
dimostra inoltre che non tutte le piccole e medie imprese costituiscono limiti
economici (ad esempio derivanti dal nanismo aziendale, che porta a basse
capacità di accedere al credito e di innovare, e dunque di essere maggiormente
produttive). Ma la Sardegna dovrà investire parecchio anche in innovazione
tecnologica. Perché? Pensiamo all’era in cui nacque un’impresa
come Tiscali, frutto di uno dei rari momenti di fortunata sinergia tra
settore pubblico (tramite il centro di ricerche CRS4, fondato nel 1990 e pioniere
del web di tutta Italia), e settore privato (tramite imprenditori come Nicola
Grauso, che attirò esperti di fama mondiale; e Renato Soru, in seguito
impegnatosi in un’opinabile avventura politica). Un distretto web bruciato nel
giro di pochi anni poiché ormai divenuto appannaggio di un diverso modello di
business, a capital intensive, con cui i nostri piccoli privati, in
termini di volume dei capitali da destinare all’innovazione, non potevano più
stare al passo.
Adriano Bomboi.
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