20 settembre 2025

Dalla logica del nemico alla logica della fratellanza

Competere senza distruggere: perché l’umanità deve trasformare il conflitto in cooperazione per salvare sé stessa, la specie e la Terra.


C’è un pensiero che mi accompagna da tempo: la guerra sembra ineliminabile dal sistema. Ovunque guardi, trovo conflitto. Nella politica, nei rapporti sociali, nelle famiglie, perfino dentro ciascuno di noi.

Chi, come me, agogna la pace, e non solo quella tra gli Stati ma soprattutto quella sociale, viene facilmente etichettato come “utopista”. Nel migliore dei casi. Altre volte, più fanaticamente, si viene bollati come “filo-qualcosa”: filo-russo, filo-americano, filo-dittatore, a seconda delle convenienze.

Sembra che la mente umana, individuale e collettiva, abbia bisogno di avere sempre un nemico. Non solo per difendersi, ma per esistere. Il nemico diventa un elemento identitario: è la cornice dentro cui definiamo chi siamo.

Non è un pensiero nuovo. Eraclito lo aveva intuito più di duemila anni fa, quando scriveva che Polemos, il conflitto, è “padre di tutte le cose”. È il motore che disvela gli uni come dei e gli altri come uomini, che rende alcuni schiavi e altri liberi.

Eppure lo stesso Eraclito esaltava il logos, la ragione. Se il conflitto è padre di tutto, la ragione dovrebbe essere la madre. Dovrebbe guidarci, aiutarci a distinguere il bene dal male, il positivo dal negativo, permetterci di evitare ciò che ci ferisce e di perseguire ciò che ci fa crescere.

La storia, purtroppo, ci ha mostrato il contrario.

La psicoanalisi ha fatto il resto. Freud, Jung, Lacan ci hanno ricordato che l’uomo è anche – e forse soprattutto – un essere irrazionale. Le sue scelte non sono mai del tutto consapevoli: sono condizionate da pulsioni che abitano l’inconscio, spesso in conflitto tra loro. Dentro di noi convivono eros e thanatos, amore e morte, costruzione e distruzione.

Questa tensione interiore è la stessa che si proietta fuori di noi. È la radice delle guerre, delle violenze, delle competizioni distruttive. Persino delle rivalità familiari: Freud lo aveva descritto come “complesso di Edipo”.

Devo allora rassegnarmi? È davvero inevitabile accettare che la guerra sia il destino ultimo dell’uomo?

I realisti, quelli che si vantano di “vedere il mondo com’è”, dicono di sì. È la natura umana, ripetono. È sempre stato così, e sempre così sarà.

Io, invece, continuo a dire di no. Non credo che la guerra sia una condanna scritta nella pietra. Credo che esista un modo per incanalare l’energia del conflitto senza distruggere.

La mia proposta è semplice, anche se ambiziosa: competizione nella cooperazione.

Non si tratta di eliminare il conflitto, ma di trasformarlo. È ciò che avviene nello sport: si gareggia, ma non per sterminare l’avversario. Si compete per migliorarsi, per spingersi oltre i propri limiti.

Immagino una società che faccia lo stesso. Dove le nazioni competano non per conquistare territori ma per salvare vite. Dove si misurino non per chi produce più armi ma per chi riduce di più le emissioni di CO. Dove la rivalità si giochi su chi ricostruisce più foreste, chi innova di più per proteggere la biodiversità, chi salva più rifugiati dalle catastrofi climatiche.

Non è fantascienza. Lo abbiamo già visto.

Quando un terremoto devasta una regione, quando un’alluvione sommerge città intere, i popoli si mobilitano. Persino i governi più ostili tra loro inviano aiuti, aprono corridoi umanitari, mandano soccorsi. Per qualche settimana, la logica del nemico lascia il posto alla logica della vita.

Perché non farlo sempre?

Certo, questo richiede un salto culturale. Occorre superare l’idea che la sicurezza consista nell’avere un nemico. Franco Fornari, in un testo profetico come Psicoanalisi della guerra atomica, lo aveva spiegato bene: la guerra, paradossalmente, non serve tanto a difenderci da nemici reali, ma a inventarli. È un meccanismo di difesa contro le nostre paure interiori, contro il “Terrificante” che abita l’inconscio.

Il problema è che oggi questo meccanismo è diventato letale. La guerra atomica non ha più una funzione “curativa”: porterebbe solo all’autodistruzione totale. Non ci sarebbe un vincitore e un vinto. Ci sarebbe il nulla.

Eppure assistiamo a un’escalation militare che sembra cieca. La NATO, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Russia continuano ad alzare i toni. In Ucraina la guerra è già realtà, e ogni giorno si parla di “linee rosse” che non devono essere superate, come se bastasse un passo falso per innescare l’irreparabile.

Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, vediamo le stragi di civili nella Striscia di Gaza. Donne, anziani, bambini che diventano danni collaterali. E una parte dell’opinione pubblica che sembra quasi provare un piacere sadico nel vedere l’annientamento del “nemico”.

Se c’è un effetto positivo, è che questa crisi globale ci costringe a guardare in faccia il problema. Ci obbliga a chiederci: chi sono i leader che ci guidano? In che stato psicologico si trovano? Hanno l’equilibrio emotivo per reggere il peso delle loro decisioni?

Non basta più valutarli per le loro competenze politiche o gestionali. Dobbiamo chiederci quali traumi portino dentro, quali ferite li muovano, quali ossessioni possano spingerli a trascinarci nel baratro.

Umberto Galimberti ci ricorda che la modernità è finita. Che siamo entrati in una fase nuova, post-moderna, in cui non possiamo più affidarci a verità universali. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di un nuovo paradigma.

Non basta difendere i confini delle nostre patrie. Dobbiamo difendere la Terra, che è l’unica patria che abbiamo.

Serve una nuova etica planetaria, capace di superare l’idea dello Stato come monopolio della violenza. Un’etica che metta al centro la fratellanza – laica, universale – e che riconosca che i beni del pianeta appartengono a tutta l’umanità.

La “competizione nella cooperazione” potrebbe essere la norma etica di questa nuova era. Non più la folle corsa agli armamenti, ma una corsa a chi salva più vite, a chi crea più ponti di pace, a chi riduce di più le disuguaglianze.

È una sfida difficile, certo. Ma non impossibile.

Epicuro diceva che la felicità nasce dalla riduzione del dolore, dalla negazione di ciò che ci fa soffrire. Freud, al contrario, sosteneva che al di là del principio di piacere si trovano le pulsioni distruttive, che ci portano a cercare il dolore.

Forse è tempo di una terapia nuova.

Non possiamo più curare le nostre angosce con la guerra. Dobbiamo trovare un altro modo di dare sfogo alle nostre paure, di trasformarle in energia creativa.

Dobbiamo riscrivere le regole del gioco, sostituire la logica del nemico con quella della fratellanza. Non per buonismo, ma per sopravvivenza.

Perché se la specie umana scompare, non ci saranno più vincitori né vinti. Solo silenzio.

19 settembre 2025

Caporioni in Parlamento: riflessioni personali sui bulli della politica

Dalla polvere dei cortili agli scranni del potere: perché i bulli non sono mai scomparsi, si sono solo evoluti – e oggi guidano intere nazioni.


Confesso che ogni volta che osservo la scena politica, nazionale e internazionale, ho un déjà-vu. Mi sembra di tornare bambino, a quegli anni Sessanta in cui il mondo era piccolo come la piazza del mio paese e il caporione – il bullo del rione – dettava legge.

All’epoca, molti di noi vivevano in condizioni che oggi sarebbero difficili persino da immaginare: due stanze per dieci persone, l’acqua che andava presa alla fontana pubblica, la luce elettrica che arrivava a intermittenza, quando arrivava. Le donne lavavano i panni a mano, la cenere del camino serviva a sbiancarli, i bambini inventavano i loro giochi per strada. Non c’erano televisori, non c’erano cellulari, non c’erano svaghi confezionati. E in quel microcosmo, il bullo era la figura dominante.

Lui decideva cosa fare, chi poteva giocare, chi doveva essere preso in giro. Era il “caporione”, il piccolo despota del vicolo, quello che sapeva “menar le mani” meglio degli altri e che si guadagnava il rispetto (o il timore) del gruppo. Era lui a proporre le bravate, a lanciare le sfide più pericolose, a portare tutti a rubare le mele dal frutteto del vicino o a fare dispetti alla vecchia del paese. Chi si rifiutava veniva isolato, deriso, escluso dai giochi.

Quel microcosmo era, in fondo, una metafora del mondo: il potere come esercizio di forza, la leadership come imposizione, l’etica come optional.

Con il tempo, l’Italia è cambiata. È arrivato il benessere, almeno quello materiale. Le famiglie hanno avuto il frigorifero, la lavatrice, la televisione in bianco e nero. I paesi del Sud si sono svuotati, milioni di persone hanno preso il treno per Torino, Milano, Genova, in cerca di lavoro. L’Italia ha conosciuto la sua “età dell’oro”, almeno secondo le statistiche economiche.

Eppure, il caporione non è mai davvero scomparso. Ha solo cambiato abito. È passato dal cortile al comizio, dalla sassata alla retorica urlata, dalla bravata all’atto politico. Oggi lo ritroviamo in Parlamento, al governo, ai vertici delle istituzioni.


Quando il bullo diventa politico

La politica è diventata, troppo spesso, un’arena per bulli. Non quelli di quartiere, ovviamente, ma figure che hanno interiorizzato la stessa logica: imporre la propria volontà sugli altri, mostrare i muscoli, sfidare chiunque dissenta.

Machiavelli scriveva nel Principe che “è molto più sicuro essere temuti che amati”. Molti leader contemporanei sembrano aver fatto di questa massima il loro mantra. La paura diventa strumento di governo. E il consenso, sorprendentemente, spesso li premia.

Perché – e qui mi ci metto anch’io, come cittadino – quando le cose vanno male, quando c’è incertezza, quando il mondo sembra sfuggirci di mano, cerchiamo l’uomo forte, quello che “prende decisioni”. Ma come ammoniva Lord Acton:

“Il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto.”

E il rischio è che, nel nostro desiderio di sicurezza, finiamo per consegnare troppo potere a chi ha già dimostrato di usarlo in modo autoritario.


Dalla Guerra Fredda all’illusione del “dopo 1989”

Io appartengo a una generazione che ha visto crollare il Muro di Berlino. Ricordo ancora le immagini in televisione, la gente che ballava sopra i blocchi di cemento, il racconto di un’Europa che finalmente si ricongiungeva. Ci avevano detto che stava iniziando un’era di pace e cooperazione. Francis Fukuyama parlava di “fine della storia”, e noi ci abbiamo creduto.

Poi è arrivata la realtà: guerre nei Balcani, attentati, crisi economiche, terrorismo, pandemie. La storia non era affatto finita. E con ogni crisi, i bulli della politica si sono rafforzati. Hanno alzato i toni, hanno chiesto poteri speciali, hanno invocato emergenze permanenti.

La pandemia da Covid-19 è stata, in questo senso, un laboratorio: divisione tra “pro” e “contro”, tra “responsabili” e “negazionisti”, tra chi accettava le regole e chi veniva additato come pericoloso dissidente. Il dibattito pubblico si è polarizzato, la tolleranza è sparita. Non c’era più spazio per il dubbio, per la domanda, per la ricerca delle cause profonde.

Hans Morgenthau, il padre del realismo politico, scriveva che “la politica internazionale, come ogni politica, è una lotta per il potere”. E negli ultimi anni lo abbiamo visto con chiarezza: la guerra in Ucraina è stata trasformata in un banco di prova ideologico, in una divisione manichea tra buoni e cattivi.


Numeri che fanno riflettere: il mondo in armi

I numeri parlano chiaro, e sono impressionanti. Secondo il SIPRI, nel 2024 la spesa militare mondiale ha toccato i 2.718 miliardi di dollari, il 2,5% del PIL globale: il livello più alto mai registrato. Stati Uniti, Cina, Russia, Germania e India insieme coprono il 60% di questa cifra.

Gli Stati Uniti da soli hanno speso quasi 970 miliardi di dollari, più di quanto abbiano messo insieme i dieci Paesi successivi. Eppure, il debito pubblico USA ha superato i 37 trilioni di dollari e il deficit annuo si aggira attorno ai 1,9 trilioni. Solo gli interessi sul debito federale ammontano a oltre 1.300 miliardi di dollari l’anno: soldi che potrebbero andare in scuole, ospedali, infrastrutture, e che invece servono a pagare il conto di un sistema che continua a indebitarsi per sostenere, in gran parte, la spesa militare.

In Europa la situazione non è molto diversa. La richiesta della NATO di portare le spese per la difesa al 2% del PIL ha spinto molti governi ad aumentare i bilanci militari. Si parla persino di un esercito comune europeo. Ma io mi chiedo: davvero la sicurezza dei cittadini passa per altri carri armati, altri missili, altre spese per la difesa?


Lezioni dalla storia

Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Tucidide, nel celebre Dialogo dei Melii, faceva dire agli Ateniesi:

“I forti fanno ciò che possono e i deboli soffrono ciò che devono.”

La storia è piena di imperi che hanno imposto il proprio volere sugli altri. Roma, l’Impero britannico, l’URSS: tutti sono caduti. Tutti hanno pensato di poter governare con la forza, e tutti si sono scontrati con il limite della storia.

Oswald Spengler, nel Tramonto dell’Occidente, ci ricorda che le civiltà hanno un ciclo vitale: nascono, fioriscono, decadono. Oggi vediamo un mondo in transizione: il monopolio americano è messo in discussione dalle potenze emergenti – Cina e India in primis – e dalla Russia. È l’alba di un mondo multipolare.

La domanda è: sapremo accompagnare questo passaggio in modo pacifico o sceglieremo lo scontro? Samuel Huntington parlava di “scontro di civiltà”. Io preferirei parlare di “incontro di civiltà”.


Un editoriale personale: cosa vorrei vedere nella politica

Non scrivo queste righe per rassegnazione. Scrivo perché credo ancora che la politica possa essere altro. Che possa tornare ad essere dialogo, confronto, intelligenza collettiva.

Vorrei vedere leader che non siano caporioni, che non si impongano urlando più forte, ma che sappiano ascoltare. Vorrei una politica che investa in ricerca, sanità, cultura, non in missili. Vorrei governi che rispettino davvero la volontà popolare, non che la aggirino con decreti e emergenze continue.

Albert Einstein diceva:

“La pace non può essere mantenuta con la forza; può essere solo raggiunta con la comprensione.”

Ecco, credo che questa frase dovrebbe stare scritta su ogni scranno parlamentare, su ogni tavolo di trattativa internazionale.


Isolare i bulli: il ruolo dei cittadini

C’è un punto su cui sono convinto: i bulli, in politica come nel cortile, comandano solo se qualcuno li segue. Siamo noi, i cittadini, che possiamo isolarli, sfiduciarli, rifiutare la logica dello scontro.

Non è facile. Ci vuole coraggio per dire no, per rifiutare la retorica del nemico, per chiedere soluzioni diplomatiche invece che escalation militari. Ma se non lo facciamo, il prezzo lo pagheremo noi e i nostri figli.

Perché il rischio, inutile nasconderlo, è enorme: in un mondo pieno di armi nucleari, un errore di calcolo potrebbe portare a un disastro irreversibile. E in quel caso, nessuno vincerebbe.


Tornare a scegliere la ragione

Oggi più che mai sento l’urgenza di recuperare la ragione, di rimetterla al centro della vita pubblica. Di smettere di lasciarci trascinare dai caporioni, dai bulli in giacca e cravatta, da chi preferisce il clamore allo studio, lo scontro al dialogo.

Lo “spirito del mondo”, direbbe Hegel, sta andando in una nuova direzione: verso un mondo multipolare, dove nessuno è più padrone assoluto. Possiamo accompagnare questo cambiamento in modo intelligente, oppure opporci con forza, rischiando di trascinare il mondo in nuovi conflitti.

Io scelgo la prima strada. E spero che anche altri lo facciano. Perché il futuro – se vogliamo che ci sia un futuro – non può essere costruito sulle urla dei caporioni, ma sulla voce calma e ferma della ragione.









 

on venerdì, settembre 19, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

14 settembre 2025

Il Movimento 5 Stelle: da speranza a disillusione

Come un sogno di rinnovamento politico si è trasformato, per molti, in una grande occasione mancata.

Perché, nel mio sguardo personale e severo, il M5S incarna una grande occasione mancata - tra democrazia promessa e centralismo reale, riforme bandiera e risultati dimezzati, scandali, giravolte e un consenso dimezzato.

Confesso: ho voluto crederci. Ho seguito il Movimento 5 Stelle fin dalle origini con la curiosità di chi intravede un varco nella muraglia della politica italiana. La promessa era magnetica: trasparenza radicale, democrazia diretta, taglio ai privilegi, cittadini competenti al posto dei professionisti della politica. Per un Paese stanco di scandali, clientelismi e immobilismo, l’idea di una rivoluzione gentile ma concreta era una boccata d’ossigeno. Poi sono arrivati i voti (tanti), la responsabilità di governare e — soprattutto — la prova dei fatti. Ed è lì, nella distanza tra parole e realtà, che per me si è consumata la disillusione.

Parlo da osservatore coinvolto e severo: oggi il M5S mi appare come la parabola perfetta di un potenziale travolto dal potere, di un movimento che predicava orizzontalità e ha finito per praticare verticalismo, che sventolava l’onestà come bandiera ma ha inciampato in piccole e grandi incoerenze, che prometteva competenza diffusa e ha esitato davanti alla macchina amministrativa. Il risultato? Un patrimonio di fiducia dissipato, un’immagine appannata e, soprattutto, un’occasione storica sprecata.

Dalla democrazia diretta al centralismo: la promessa tradita

Il cuore del sogno era Rousseau: la piattaforma che avrebbe dovuto abilitare un nuovo patto tra base e vertice, con deliberazioni dal basso e scelte trasparenti. L’epilogo è stato, invece, un divorzio rumoroso: nel 2021, dopo mesi di bracci di ferro legali e polemiche sui dati degli iscritti e sulla governance, Davide Casaleggio ha annunciato l’addio e Rousseau ha sospeso i servizi al Movimento. Il messaggio è stato inequivocabile: la forma-movimento che voleva “disintermediare” la politica si è scontrata con la realtà di un partito che accentrava, decideva e litigava come gli altri. (Approfondimenti: Repubblica, 5 giugno 2021)

Il paradosso si è compiuto tra il 2024 e il 2025, quando — a votazioni online chiuse e riaperte — gli iscritti hanno approvato modifiche di statuto che hanno messo in soffitta il “garante” Beppe Grillo e allentato la storica regola dei due mandati. La retorica dell’eccezionalismo è stata piegata al pragmatismo di una forza ormai strutturata: meno vincoli identitari, più spazio alla gestione. Per carità: è la normalità della politica. Ma qui il punto è esattamente questo: il M5S è diventato “normale”, smentendo la propria promessa fondativa. (Riferimenti utili: Il Fatto Quotidiano, 24 nov 2024; RaiNews, 8 dic 2024; Corriere, 24 nov 2024)

La mia impressione personale è netta: non è stato un percorso verso la maturità, ma una resa. Quando una comunità nata per rovesciare i meccanismi della partitocrazia finisce per riprodurli, l’elettore che aveva scommesso sull’eccezione si sente ingannato. Non perché cambi idea — le idee evolvono — ma perché smette di credere che quell’evoluzione sia ancora “sua”.

Le giravolte di governo: “né di destra né di sinistra”, però con tutti

Il M5S ha governato con la Lega nel 2018 (Conte I), poi con il PD e LeU (Conte II), quindi ha sostenuto Mario Draghi fino alla crisi dell’estate 2022. La sequenza è scolpita nelle cronache: alleanza “giallo-verde” (2018–2019), quindi “giallo-rossa” (2019–2021), e infine larga maggioranza con Draghi (2021–2022), fino allo strappo che ha portato allo scioglimento delle Camere. Nessuno scandalo: il parlamentarismo è anche questo, compromesso e realismo. Ma per un movimento nato per “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, passare nel giro di poche stagioni dall’abbraccio con Salvini all’intesa con il PD, per poi sostenere il banchiere simbolo della tecnocrazia europea, ha significato consumare il credito identitario.

Nel mio taccuino, quel continuo riposizionamento è stato il punto di non ritorno: la coerenza promessa sulla carta si è frantumata nella pratica. E non è solo una questione estetica. La fiducia è materia fragile: si costruisce con poche scelte nette, si perde con molte scelte contraddittorie. (Per i dettagli cronologici: vedi le voci sui governi Conte I e II e le ricostruzioni sulla crisi del governo Draghi)

Il Reddito di cittadinanza: la riforma-bandiera che ha diviso il Paese

Non ho mai considerato il Reddito di cittadinanza un male in sé. Anzi, come strumento di sostegno alla povertà ha avuto una funzione: ha dato ossigeno a famiglie fragili, ha messo un argine in anni complicati. Ma il problema — lo si sapeva dall’inizio — era la pretesa di farne un volano occupazionale senza avere un sistema di politiche attive all’altezza. I centri per l’impiego non erano pronti, i “navigator” sono stati un rabdomante istituzionale di breve stagione, e gli incentivi al lavoro si sono scontrati con un mercato fatto di salari bassi, contratti precari e divari territoriali. Gli studi indipendenti lo hanno notato: gli effetti sull’occupazione sono stati deboli o difficili da misurare, mentre sul fronte povertà il beneficio è stato più tangibile ma non risolutivo.

I numeri del contesto, del resto, non raccontano una rivoluzione: nel 2023 l’ISTAT stima la povertà assoluta stabile intorno al 9,7% degli individui e all’8,4% delle famiglie. Parametri che testimoniano quanto sia arduo scardinare, da soli, fenomeni strutturali. Nel 2024–2025 il Rdc è stato definitivamente archiviato e sostituito dall’Assegno di inclusione (ADI) e dal Supporto per la formazione e il lavoro (SFL). I dati INPS di metà 2024 fotografavano circa 625 mila nuclei beneficiari ADI a maggio e un importo medio mensile di poco oltre 615–620 euro, con una forte concentrazione nel Mezzogiorno; SFL, invece, contava poco meno di 100 mila beneficiari nella fase iniziale e una platea mediamente più adulta del previsto. Sono numeri che dicono due cose: il bisogno sociale esiste e resta massiccio; l’attivazione lavorativa è la vera incognita. (Approfondimenti: ISTAT 2024; INPS Osservatorio ADI/SFL luglio 2024; Pagella Politica)

Perché considero questa storia emblematica del M5S? Perché il Movimento ha avuto il merito di imporre il tema della povertà come priorità nazionale, ma non ha costruito — o difeso con lucidità — l’infrastruttura che ne garantisse gli effetti di lungo periodo: servizi per l’impiego capaci, percorsi formativi seri, una strategia per alzare salari e qualità del lavoro. Il risultato è stato una riforma-bandiera che ha acceso un faro, sì, ma non ha cambiato la mappa.

Onestà e rimborsi: il boomerang dell’etica a mezzo bonifico

Il M5S si è presentato come moralizzatore, e in parte ha avuto il merito di alzare l’asticella dell’attenzione pubblica su sprechi e privilegi. Proprio per questo, lo scandalo dei rimborsi del 2018 — la famosa “rimborsopoli” — ha pesato più di altri. Le verifiche giornalistiche (a partire dall’inchiesta de Le Iene) e le ricostruzioni della stampa hanno documentato casi di bonifici annunciati e poi annullati, restituzioni parziali, irregolarità varie. Il Movimento reagì con espulsioni e richiami. Ma l’effetto reputazionale fu devastante, perché toccava l’“anima” del brand: l’intransigenza sui soldi pubblici. (Per ricapitolare: Il Post, Corriere, RaiNews, La Stampa)

Da osservatore, non mi interessano tanto i singoli importi o le responsabilità personali — quelle spettano alla magistratura e agli organi interni. Mi colpisce di più la dinamica: quando costruisci la tua identità sull’etica contabile, non puoi concederti neanche una scivolata. Eppure quella scivolata c’è stata, e ha rimesso in discussione il patto morale con gli elettori.

La prova del governo locale: Roma come specchio (impietoso)

Roma è stata il più importante laboratorio amministrativo del M5S. L’elezione di Virginia Raggi nel 2016 rappresentò la chance di dimostrare che si poteva far meglio del “sistema” che si denunciava. Ma la gestione dei rifiuti — tra impianti saturi, incendi, discariche chiuse, bilanci di AMA contestati e consigli d’amministrazione a rotazione — ha trasformato la Capitale in un caso di scuola. Nel 2019 la città affrontò picchi di crisi con cassonetti traboccanti e appelli dell’azienda ai cittadini a “produrre meno rifiuti”; nello stesso periodo, la guerra sui bilanci di AMA e i continui cambi ai vertici restituivano l’immagine di un’amministrazione in affanno strutturale. La vicenda giudiziaria sul bilancio AMA del 2018, con il rinvio a giudizio di Raggi per calunnia (dopo richieste di archiviazione), ha aggiunto un ulteriore strato di complessità e polemica.

Non sostengo che tutti i guai di Roma siano “colpa del M5S”: sarebbe intellettualmente disonesto. Ma l’aspettativa era quella di un cambio di marcia visibile. Quello che molti romani hanno percepito, invece, è stata una fatica cronica a tenere insieme visione, impianti, raccolta e governance. Per un movimento che prometteva efficienza civica, è una ferita aperta.

Scissioni, espulsioni, personalismi: il Movimento che si è mangiato il movimento

Ogni forza politica, col tempo, fa i conti con leadership e correnti. Ma nel M5S la sequenza è stata vorticosa: espulsioni, addii, rientri, fino alla scissione guidata da Luigi Di Maio nel 2022, con la nascita del gruppo “Insieme per il futuro” e l’uscita di oltre 60 parlamentari. Per una forza che rivendicava unità e disciplina, è stato un colpo “di sistema”. Poi, nel 2024, l’atto simbolico: la messa in discussione e, di fatto, l’archiviazione del ruolo del garante Beppe Grillo, con votazioni online che hanno sancito il primato della nuova leadership di Conte e il superamento di un vincolo (due mandati) eretto per anni a feticcio identitario.

È qui che la mia critica si fa più personale: ho la sensazione che il M5S non abbia saputo — o voluto — istituzionalizzare il dissenso senza demonizzarlo. Dalla centralità carismatica di Grillo si è passati alla centralità garbata di Conte, ma l’architettura resta top‑down. Il risultato sono onde di scissioni e rientri, anziché una fisiologia di confronto che, in altri partiti, produce linee alternative senza scomuniche.

Il crollo del consenso: dai fasti del 2018 al ridimensionamento del 2022

I numeri dicono più delle impressioni. Nel 2018 il M5S è la lista più votata: oltre il 32% dei consensi nazionali. Quattro anni dopo, alle politiche del 25 settembre 2022, il Movimento totalizza circa il 15,5% al Senato, fuori da coalizioni. È una perdita secca di più della metà dei voti. Che cosa si è rotto? Credo si siano sommate tre linee di frattura: (1) la delusione di chi chiedeva rottura e ha visto compromesso; (2) l’inefficacia percepita di alcune misure simbolo, come il Rdc; (3) la fatica nei territori, dove l’amministrazione è misurata su servizi e opere, non su slogan.

Chi conosce la politica sa che i cicli di consenso vanno e vengono. Ma la parabola del M5S ha il sapore amaro delle aspettative tradite: si era venduta la rivoluzione, è arrivata la controriforma.

Il punto di principio: perché, per me, “vergogna” non è un insulto ma una diagnosi

Usare la parola “vergogna” è forte, lo so. Non è un epiteto, è una diagnosi civile: la vergogna di un Paese che si è visto promettere la politica come servizio e ha ritrovato la politica come mestiere; la vergogna di una comunità che ha provato a credere all’idea che “uno vale uno” e si è ritrovata con leader indiscussi, carriere, correnti, e con il ritorno dei professionisti della politica sotto altre etichette; la vergogna di milioni di elettori che hanno chiesto coerenza e hanno visto governare “con tutti”, ieri con Salvini, oggi con il PD, domani chissà.

La vergogna, per me, non nasce dal fatto che il M5S abbia sbagliato alcune mosse — sbagliano tutti — ma dal fatto che abbia rinnegato i propri anticorpi: regole ferree, trasparenza spinta, auto‑limitazioni. Se togli gli anticorpi, il sistema ti assorbe. E il M5S si è fatto assorbire.

Le mie tre lezioni (amara utilità di un esperimento)

1.      Le piattaforme non sostituiscono le istituzioni. Senza una cultura organizzativa solida, la democrazia digitale rischia di diventare plebiscito intermittente o lotta per il controllo dei dati. Rousseau doveva essere uno strumento, non il feticcio di una legittimazione.

2.      Le riforme non vivono da sole. Il Rdc ha mostrato che una misura di sostegno ha bisogno di una filiera robusta per trasformarsi in mobilità sociale. Senza servizi per l’impiego, formazione e salari dignitosi, resta un tampone. La povertà non cala per decreto.

3.      L’etica è binaria. Se fai dell’onestà il tuo biglietto da visita, devi essere intransigente prima di tutto con te stesso. “Rimborsopoli” non è stata “solo” un’inchiesta: è stata una crepa nell’architrave morale del Movimento.

Conclusione: l’occasione perduta

Non c’è soddisfazione in questo bilancio. Avrei preferito raccontare un’altra storia: quella di un movimento che, pur tra errori, riesce a fare scuola su come si governa con i cittadini, su come si tagliano sprechi senza demagogia, su come si fa inclusione sociale mentre si accresce la produttività. Invece devo constatare che il M5S ha accompagnato il Paese in transizioni importanti senza guidarle davvero. Ha acceso il dibattito, ha obbligato tutti a parlare di trasparenza e di povertà - e questo resta - ma non ha costruito il modello che aveva promesso.

Per questo, sì, lo considero una “vergogna” politica: non perché peggiore degli altri, ma perché si era presentato come migliore. E quando chi promette un’etica più alta scivola a un’etica ordinaria, la caduta si sente di più. Non so se il M5S saprà rigenerarsi - i partiti, come i sistemi complessi, sorprendono - ma so che la fiducia persa costa anni. E l’Italia non ha più decenni da sprecare.


on domenica, settembre 14, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

11 settembre 2025

"Giuseppi Reloaded – Cronache di un Premier che Non Sbaglia Mai (Se Lo Chiedi a Lui)"

 Dai DPCM scritti alle due di notte ai decreti sicurezza di Salvini, dal Papeete Beach al “campo largo”, Giuseppe Conte si racconta al Corriere della Sera come un santone politico in versione premium: quello che spiega agli altri dove hanno sbagliato, dopo averli accompagnati per mano fino al disastro. Una riflessione personale, caustica e senza anestesia sul leader del M5S che vuole darci lezioni di coerenza, dopo aver governato con chiunque fosse disponibile a firmare un contratto di governo (aperitivi compresi).


Giuseppe Conte ha parlato. E quando Conte parla, il tono è sempre quello: pacato, grave, compassato, come se ogni sillaba fosse destinata ai posteri. In Calabria, Campania, Marche si è lanciato in una crociata contro Giorgia Meloni, accusandola di aver messo l’Italia “dalla parte sbagliata della storia” su Gaza. Frase ad effetto, titoli garantiti, applausi assicurati. Peccato che sia lo stesso Conte che, quando era premier, teneva in vita i decreti sicurezza di Salvini e faceva la faccia severa in conferenza stampa mentre le ONG venivano multate per aver salvato vite in mare. Ma oggi è diverso: oggi è il Gandhi di Volturara Appula, il pacifista indignato, il nuovo Mandela delle dirette su Instagram. Coerenza? Cercasi.


Poi arriva l’intervista al Corriere. Conte parte in quarta: Meloni, dice, ha distrutto Ace, Transizione 4.0 e la competitività delle imprese. Detto da uno che durante i suoi governi cambiava i crediti d’imposta ogni tre mesi è quasi commovente. Si preoccupa per la produzione industriale: la stessa produzione industriale che nel 2020 si fermava per decreto, mentre lui ci spiegava che era “un sacrificio necessario”. E il Superbonus? Conte lo cita come un successo, ma oggi lo stesso Superbonus vale più o meno quanto i bond argentini del 2001: una bomba a orologeria che Giorgetti dovrà disinnescare con le pinze. Conte intanto fa spallucce: se c’è un buco da 150 miliardi nei conti, è chiaramente colpa di chi è venuto dopo.


Capitolo Trump. Conte ci tiene a chiarire che lui con Trump era alleato, ma “con dignità nazionale”. Certo, talmente dignitoso che l’ex presidente americano lo chiamava “Giuseppi” e lui gongolava come uno studente Erasmus che si sente chiamare per nome dal professore. C’è pure la foto con il cappellino MAGA, souvenir di quella grande stagione di politica estera: l’Italia che conta, o almeno che fa da comparsa alla Casa Bianca. Oggi, però, Trump è diventato l’incubo e Meloni la sua segretaria: Conte non perde occasione per dirci che la premier è “suddita di Washington”. Detto da uno che firmava impegni NATO e poi tornava a Roma a recitare il rosario del pacifismo è poesia pura.


Sul centrosinistra, Conte si esibisce in un pezzo di equilibrismo. Dice che serve “unità vera, non solo apparente”, e che il progetto deve essere “autenticamente progressista”. Autentico come il primo governo con Salvini, quello con la flat tax promessa e la TAV rinviata. O come il secondo governo, nato per evitare le elezioni e tenere a bada lo spread, che si è sciolto dopo le prime manovre di Renzi. Conte parla di stabilità, ma i suoi governi sono stati due stagioni di una serie Netflix interrotta a metà, con cliffhanger mai risolti: la riforma della giustizia, la riforma fiscale, l’autonomia differenziata… tutte promesse rimaste nella cartella “bozze”.


E i DPCM? Quelli sono il vero marchio di fabbrica del contismo: atti firmati di notte, annunciati in diretta Facebook alle 23:30, con l’Italia intera davanti allo schermo a chiedersi se l’indomani avrebbe potuto uscire a comprare il pane. Conte era il preside d’Italia: “State a casa, fate i bravi, il Natale ve lo faccio sapere il 24 sera”. Oggi lo stesso Conte si presenta come il paladino della libertà, quello che difende i diritti civili e denuncia la “deriva autoritaria” di Meloni. Sembra quasi una candid camera: l’uomo che ha inventato l’autocertificazione per uscire di casa oggi accusa gli altri di restringere le libertà.


E non mancano le perle di etica politica. Conte parla di “legalità, rinnovamento, giustizia sociale” con l’aria del parroco in missione. Ma sotto i suoi governi abbiamo visto il CSM in pieno scandalo Palamara, Arcuri commissario alle mascherine che comprava a prezzi gonfiati, e i famosi banchi a rotelle, diventati il simbolo del più grande spreco di denaro pubblico mai seduto in aula. Ma Conte non si scompone: per lui il problema è sempre “degli altri”. Anche quando nel Movimento 5 Stelle volavano gli stracci, con Di Battista in fuga, Casaleggio contro, Fico e Di Maio in faida permanente, Conte manteneva la calma zen: “scaramucce dialettiche”. Traduzione: tutto sotto controllo, tranne il controllo.


La frase sulla “vecchia italietta che non mantiene i patti” è un capolavoro. Conte ci avverte che rischiamo di tornare a essere inaffidabili in Europa. Detto dall’uomo che ha tenuto bloccato il MES per mesi per paura di scontentare i suoi senatori è un po’ come sentirsi dare lezioni di puntualità da Trenitalia a Ferragosto. Conte è il re del rinvio: TAP, TAV, Ilva, Autostrade, ogni dossier finiva congelato in attesa di “ulteriori approfondimenti”. Oggi ci dice che serve serietà. Bene, professore: ma forse un ripassino sul proprio libretto universitario non guasterebbe.


Sul ceto medio, poi, Conte si trasforma in un’icona pop. Dice che vuole proteggerlo, difenderlo, rilanciarlo. Lo stesso ceto medio che durante i suoi governi ha visto aumentare le bollette, sparire il lavoro precario che dava ossigeno e subire chiusure infinite. Ma Conte ha sempre pronto il tono da psicologo: “Abbiate fiducia, stiamo lavorando per voi”. Risultato: mezza Italia in fila per il bonus monopattino e l’altra mezza a chiedersi se fosse vero che non poteva uscire a correre dopo le 18.


Conte è il leader perfetto per l’Italia del talk show: elegante, verboso, mai sopra le righe, ma sempre pronto a spiegarti perché la colpa non è sua. Ha governato con Salvini e poi con Zingaretti, ha stretto accordi con Trump e poi con Ursula, ha firmato decreti con Di Maio e poi con Franceschini. E oggi è l’uomo della coerenza, quello che unisce la sinistra, che parla di giustizia sociale, che si batte contro le spese militari. Il fatto che proprio lui abbia firmato quegli impegni? Dettagli tecnici.


Alla fine, la sensazione è sempre la stessa: Conte non è mai dove sbaglia. Se qualcosa va bene, merito suo. Se qualcosa va male, colpa degli altri. È l’ex che ti spiega che la relazione è finita perché tu non eri pronto, mica perché ti ha tradito. E l’Italia, come sempre, rischia di cascarci di nuovo. Perché Conte, bisogna ammetterlo, sa parlare: sa dosare le parole, sa usare il tono giusto, sa lanciare lo slogan che funziona. È il politico che non urla, che non insulta, che sembra sempre al di sopra delle parti. Peccato che le parti le abbia cambiate più volte di un attore in tournée.


Conte oggi dice che spera di dare “uno scossone” a Meloni con le Regionali. Ma lo scossone più grande l’abbiamo già avuto: due anni di governi Conte, una pandemia gestita a colpi di DPCM, bonus distribuiti come coriandoli, rinvii a raffica e un Paese che si svegliava ogni giorno chiedendosi se fosse zona gialla, arancione o rossa. Forse l’Italia, prima di prendersi un altro scossone, dovrebbe chiedersi se ha ancora i nervi per reggerlo.

on giovedì, settembre 11, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

10 settembre 2025

Dalla parte sbagliata

Così la sinistra trasforma occupazioni, abusi e immigrazione clandestina in battaglie politiche.

C’è un dato culturale, prima ancora che politico, che ormai appare evidente: la sinistra italiana ha sviluppato una strana attrazione per tutto ciò che ruota attorno alla violazione della legge. Dove c’è un abuso, un’irregolarità, un reato, invece di respingerlo con fermezza, tende a trasformarlo in una bandiera da sventolare. È accaduto con le occupazioni abusive delle case, con i centri sociali rimasti aperti per decenni a spese dei contribuenti e fuori da qualsiasi regola, e accade puntualmente con le navi delle ONG che ignorano le disposizioni delle autorità competenti. In tutti questi casi, l’atteggiamento della sinistra è stato lo stesso: difendere chi trasgredisce, come se la legge fosse un ostacolo e non un riferimento comune. È una sorta di riflesso automatico, una reazione quasi istintiva. Perché? Forse perché conviene trasformare l’illegalità in campagna elettorale.

Il punto, però, è che dietro a questa dinamica si nasconde un progetto ben più concreto: l’immigrazione. La sensazione diffusa, e ormai difficilmente smentibile, è che la sinistra punti a favorire l’arrivo del maggior numero possibile di immigrati irregolari in Italia. Non è solo una percezione, ma una sequenza di atti concreti: ogni volta che viene proposta una misura di contenimento, scatta subito l’opposizione. La magistratura, spesso in sintonia con quel mondo, si attiva per fermare qualsiasi tentativo di invertire la rotta: dall’accordo con l’Albania, che dovrebbe servire a dare un segnale chiaro prima dell’ingresso in Europa, alla regolamentazione delle navi, fino alla gestione dei centri di accoglienza. Tutto viene ostacolato, tutto viene rimesso in discussione.

Eppure, i numeri e i fatti parlano chiaro. Dopo quindici anni di politiche permissive, il risultato è un disastro: l’immigrazione clandestina è cresciuta senza controllo, si è intrecciata con la criminalità e ha prodotto episodi di cronaca sempre più gravi e aberranti. Sono storie che indignano l’opinione pubblica e che mostrano quanto il fenomeno sia ormai fuori gestione. E come se non bastasse, in alcuni ambienti si arriva persino a negare l’evidenza: ci si spinge a chiedere che la parola “straniero” venga eliminata davanti a termini come “stupratore”. È accaduto persino di fronte all’ennesimo caso drammatico, quello della donna violentata da un immigrato proveniente dal Gambia.

La domanda, allora, è inevitabile: fino a quando si potrà far finta di non vedere? Per quanto tempo ancora la sinistra continuerà a difendere l’indifendibile, a trasformare le emergenze in propaganda e a sacrificare la sicurezza dei cittadini sull’altare del consenso ideologico? La realtà, sotto gli occhi di tutti, è un Paese che ha perso il controllo dei flussi, che si sente più insicuro e che chiede soluzioni concrete. Ma mentre l’Italia vive le conseguenze, una parte della politica sembra preferire la narrazione alla realtà, le battaglie ideologiche alla responsabilità di governare.













 

on mercoledì, settembre 10, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

09 settembre 2025

Il “campo largo” e la maleducazione della sinistra

 

Devo dirlo senza giri di parole: il cosiddetto “campo largo” della sinistra italiana è per me la fotografia perfetta della decadenza politica del nostro Paese. Non solo perché dietro quell’espressione si nasconde il nulla, ma anche perché da quella parte politica è arrivata negli ultimi anni una maleducazione costante, un linguaggio volgare e offensivo, soprattutto quando si tratta di colpire gli avversari. In particolare Giorgia Meloni, che sarà pure la leader della destra, ma che è stata trasformata in un bersaglio costante di insulti e disprezzo personale.

Se penso a cosa dovrebbe essere la politica, immagino confronto, anche duro, ma basato su idee e contenuti. Se guardo invece al modo in cui molti esponenti della sinistra — e purtroppo anche troppi simpatizzanti — parlano, vedo solo arroganza, maleducazione, attacchi personali. È il segno di una politica povera, di chi non ha argomenti e prova a compensare con l’insulto.


Trent’anni di smarrimento

Non mi stancherò di ripeterlo: tutto questo nasce da lontano. La sinistra italiana ha perso la bussola con la fine del PCI e non l’ha più ritrovata. Da allora è stato un susseguirsi di sigle, fusioni, scissioni, correnti. PDS, DS, PD: ogni passaggio venduto come “svolta storica”, ma in realtà sempre lo stesso compromesso fragile.

Questa fragilità ha prodotto una classe dirigente debole, priva di identità. E quando non si hanno idee forti, spesso si finisce a urlare, a insultare, a demonizzare l’avversario. In fondo è più facile dire “Meloni fascista” che proporre un piano serio per il lavoro, l’energia, la scuola.


Prodi e l’illusione dell’Ulivo

Ricordo bene quando Romano Prodi riuscì a tenere insieme l’Ulivo. Fu il primo vero esperimento di “campo largo”, e funzionò per un po’. Ma anche lì emerse il difetto genetico: divisioni interne, veti incrociati, guerre di posizione. E accanto ai litigi politici, già allora c’era chi usava l’insulto per delegittimare l’avversario.

Prodi vinse due volte, ma fu mandato a casa due volte. Non solo per colpa sua: fu tradito dai suoi stessi alleati, logorato da chi preferiva distruggere piuttosto che costruire.


Il PD e la mediocrità come regola

Con il Partito Democratico, la mediocrità è diventata sistema. Un partito incapace di dire chiaro da che parte sta: cattolico o socialista? Riformista o populista? Di governo o di protesta? Nessuno lo sa. E in questa confusione, a mancare sono state soprattutto le idee.

Così, mentre il centrodestra costruiva narrazioni semplici ma efficaci, il PD si è rifugiato in un linguaggio sempre più aggressivo. Non convincere con argomenti, ma colpire con etichette: “fascisti”, “razzisti”, “sessisti”. Ecco il vocabolario quotidiano. Parole usate non per spiegare, ma per insultare.


Il “campo largo”: somma di debolezze

E arriviamo all’oggi. Il “campo largo” non è un progetto, è una somma di debolezze. PD, M5S, Verdi, Sinistra Italiana: sigle che non condividono nulla se non l’odio per la destra. Non c’è una visione comune, non c’è un programma, non c’è un leader riconosciuto.

E qui sta il problema: se l’unico collante è l’avversione per l’avversario, è inevitabile che il linguaggio si riduca a questo. Non si parla di proposte, si parla di “fermare Meloni”. Non si spiega come affrontare la crisi economica, si grida “pericolo fascismo”. È un linguaggio di paura e di odio, non di costruzione.

La maleducazione come stile politico

Negli ultimi anni ho visto un degrado impressionante del linguaggio politico a sinistra. Giorgia Meloni è stata chiamata in tutti i modi: “pesciaiola”, “borgatara”, “pseudodonna”, “mamma solo di facciata”. L’hanno insultata per l’accento, per l’aspetto fisico, per la sua vita privata.

Non mi interessa se uno è di destra o di sinistra: questo è sessismo puro, ed è vergognoso che arrivi proprio da chi si riempie la bocca con parole come “parità” e “diritti delle donne”. È un doppio standard intollerabile: se insulti una donna di sinistra, sei sessista; se insulti Meloni, sei spiritoso.

Ho sentito leader di partito, non semplici utenti anonimi, usare parole indegne. Da “mostro” a “burattina”, da “strega” a “nemica delle donne”. Ho visto vignette e meme che la rappresentavano in modo volgare, spesso con allusioni sessuali. Tutto questo non è politica: è solo volgarità travestita da ironia.


Il paradosso dei “buoni”

Il paradosso più grande è che la sinistra continua a presentarsi come il fronte “civile”, “educato”, “democratico”. In realtà, negli ultimi anni si è trasformata in un fronte arrogante, maleducato e intollerante. Basta non pensarla come loro per essere insultati: se sei contrario al ddl Zan sei “omofobo”, se critichi il reddito di cittadinanza sei “nemico dei poveri”, se non sei allineato sull’immigrazione sei “razzista”.

Io mi chiedo: è questa la civiltà democratica di cui parlano? Non è confronto, è demonizzazione. Non è politica, è scontro tribale.


La lezione dimenticata

Io sono convinto che una parte della crisi della sinistra sia proprio qui: nel linguaggio. Se per anni tratti il tuo avversario come un nemico da disprezzare, non puoi poi stupirti se milioni di italiani scelgono di votarlo. Le persone non amano sentirsi dire che sono “fascisti” solo perché hanno idee diverse. Non accettano di essere trattate da ignoranti o retrograde solo perché non condividono l’agenda progressista.

La sinistra, con la sua maleducazione dilagante, ha costruito da sola il consenso di Meloni. Ogni insulto, ogni etichetta, ogni parola offensiva ha reso più forte il messaggio di Giorgia: “loro vi disprezzano, io vi ascolto”.


Schlein e il rischio del radicalismo elitario

Con Elly Schlein alla guida del PD, questo rischio aumenta. La segretaria ha un profilo diverso, più giovane e più radicale, ma continua a usare un linguaggio divisivo. Difende battaglie giuste — femminismo, diritti civili, ambiente — ma lo fa spesso in modo ideologico, parlando come se chi non fosse d’accordo fosse automaticamente un “nemico”.

Il risultato? Un partito che si chiude in una nicchia urbana e radical chic, lontano dal Paese reale. E in questo isolamento, l’unico modo per sentirsi vivi è continuare ad attaccare l’avversario. Ancora una volta, più insulti che proposte.


Conclusione: perché non credo al “campo largo”

Ecco perché io non credo al “campo largo”. Non è solo una formula vuota: è diventata una fabbrica di odio verbale e maleducazione politica. È la dimostrazione di un’area che non ha idee e che quindi si limita a insultare l’avversario.

Meloni si può criticare, e anzi si deve criticare, come ogni leader politico. Ma si deve fare con argomenti, non con insulti sessisti. Si deve fare con proposte alternative, non con etichette. Finché la sinistra continuerà a usare il linguaggio dell’odio e della superiorità morale, continuerà a perdere.

La politica dovrebbe unire, spiegare, convincere. Il “campo largo” invece divide, offende, urla. Per questo, da cittadino, da osservatore, da persona che ha sperato in una sinistra migliore, dico con amarezza: non ci credo più.

Non ci credo perché ho visto la deriva culturale, l’arroganza, la mediocrità. Non ci credo perché so che dietro la retorica del “campo largo” non c’è un progetto di Paese, ma solo un esercizio di sopravvivenza. Non ci credo perché so che finché il linguaggio sarà fatto di insulti e disprezzo, non nascerà mai nulla di buono.

E allora sì, continuerò a guardare con delusione e anche con rabbia, perché la verità è semplice e dura: la sinistra italiana non ha perso solo le elezioni, ha perso la misura, il rispetto e la dignità del confronto politico.

 


on martedì, settembre 09, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

200mila euro, premi e coincidenze: la Sardegna non merita questa opacità

Dal finanziamento a una società campana al premio al portavoce di Todde: troppe coincidenze in una vicenda che mina la fiducia.

Secondo un’inchiesta di Indip.it, la Regione Sardegna ha destinato 200mila euro a Insulae, società legata al Premio Ischia, che poco dopo ha premiato il consulente della presidente.


La Sardegna si ritrova davanti a un caso che, anche senza sconfinare nell’illegalità, è un perfetto esempio di opacità politica. La presidente Alessandra Todde, che aveva promesso rottura con i vecchi schemi, oggi è protagonista di una vicenda che somiglia in tutto e per tutto a quelle pratiche che il Movimento 5 Stelle, fino a ieri, denunciava con furia.

Secondo quanto riportato da Indip.it (3 settembre 2025), lo scorso aprile la giunta regionale ha stanziato 200mila euro a una società campana pressoché sconosciuta, Insulae. Nessuna selezione pubblica, nessun bando, solo un trasferimento diretto.

Un mese dopo, la stessa galassia – vicina alla Fondazione Premio Ischia – ha premiato come “Comunicatore dell’anno” under 30 Jacopo Gasparetti, portavoce e consulente di comunicazione della presidente Todde. Una coincidenza che da sola basterebbe a sollevare più di un sopracciglio.

E non è finita. A fine settembre, Insulae userà quei fondi per organizzare la prima edizione del “Premio Ichnos” in Sardegna. Tra gli ospiti, annunciato anche Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle e garante politico di Todde.

Il punto non è se tutto ciò sia formalmente legale. Il punto è che appare politicamente indecente. Denaro pubblico che si intreccia con eventi di immagine, riconoscimenti che piovono sullo staff della presidente, ospiti che più che culturali sembrano funzionali alla propaganda. È esattamente quel corto circuito tra potere e comunicazione che i 5 Stelle promettevano di abbattere.

Se la giunta non ha nulla da nascondere, la via è semplice: pubblicare subito gli atti, spiegare criteri e motivazioni, mostrare ai cittadini che non ci sono zone d’ombra. Perché finché resteranno solo le “coincidenze” denunciate da Indip.it, la percezione sarà una sola: la Sardegna non sta vivendo il cambiamento annunciato, ma l’ennesima replica della politica di sempre.

Approfondimenti e fonti

Inchiesta di Indip.it sulla vicenda dei 200mila euro e il Premio Ichnos: link all’articolo

Premio Ischia – vincitori 2025 (ufficiale): Paolo Ruffini e Jacopo Gasparetti “Comunicatori dell’anno”

Repubblica Napoli: conferma del riconoscimento a Gasparetti nella sezione under-30 (articolo)

Cagliaripad.it: Gasparetti, portavoce della Todde, premiato come “Comunicatore dell’anno” (articolo)








on martedì, settembre 09, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment