Con lui se ne va un pezzo della nostra memoria collettiva
Ci sono notizie che ti
raggiungono in un modo silenzioso, ma che dentro di te fanno rumore. La morte
di Pippo Baudo è una di queste. Non è soltanto la scomparsa di un uomo, per quanto
importante. È come se fosse crollata una colonna che reggeva un pezzo della
nostra memoria collettiva, della nostra quotidianità di italiani cresciuti con
la televisione accesa sullo sfondo delle case, tra cene in famiglia, voci di
conduttori e applausi registrati. Quando ho letto che Pippo Baudo se n’è
andato, a 89 anni, mi è venuto spontaneo chiudere gli occhi e rivedere immagini
che non guardavo da anni: lui, con il suo sorriso serio e rassicurante,
elegante ma mai distante; la sua voce che sapeva modulare dal tono solenne a
quello complice, con quella cadenza che non aveva bisogno di forzature per
imporsi; e soprattutto quella sua capacità unica di tenere insieme, di far
sentire ogni spettatore parte di un rito collettivo.
Baudo non era un
conduttore nel senso moderno del termine. Oggi i conduttori devono spesso
sovrastare la scena, attirare l’attenzione, inventare battute, sgomitare per
emergere in un mare di voci. Lui no. Lui era il punto fermo: non aveva bisogno
di esibizionismi perché era la televisione stessa ad adattarsi al suo ritmo.
C’era un’eleganza naturale nel suo modo di occupare lo spazio scenico: bastava
che comparisse sul palco perché l’attenzione fosse catalizzata, senza clamori,
senza effetti speciali. E penso che proprio per questo il suo nome sia
diventato quasi sinonimo di televisione: dire “c’è Baudo” significava che stava
accadendo qualcosa di importante. Che quella sera si poteva stare tranquilli,
perché lo spettacolo sarebbe stato condotto con professionalità, senza cadute
di stile, con il giusto equilibrio tra intrattenimento e cultura.
Ci sono figure
pubbliche che non si limitano a fare il loro mestiere, ma diventano specchio di
un Paese. Baudo appartiene a questa categoria. Lo ricordo nelle case dei miei
genitori, quando il televisore non era ancora uno schermo personale ma un
altare domestico attorno al quale ci si riuniva. Ricordo serate di Sanremo,
quando ancora non c’era l’opzione di cambiare canale o di scorrere su un
telefono per distrarsi: si guardava tutti la stessa cosa, e se c’era Baudo si
sentiva di essere dentro un momento collettivo. Per la mia generazione, e forse
ancora di più per quella precedente, Pippo Baudo era una certezza. Non tanto
perché fosse infallibile — come tutti, aveva i suoi difetti, le sue rigidità, i
suoi inevitabili errori — ma perché rappresentava la continuità, la solidità,
il rispetto per chi stava a casa. Era il volto che ti diceva: “ci penso io,
stai tranquillo”. Una frase che non pronunciava mai, ma che si percepiva.
La televisione di oggi è
frenetica, segmentata, frammentata. Quella di ieri, con i suoi tempi lunghi e i
suoi programmi-monumento, aveva in Baudo uno dei suoi interpreti migliori. Non
era un’epoca più semplice, ma era un’epoca più lenta, e lui sapeva abitarla con
eleganza. Una delle frasi che più spesso gli veniva attribuita — e che in parte
amava ripetere lui stesso — era: “L’ho inventato io”. Lo diceva parlando dei
tanti artisti che aveva scoperto, lanciato, accompagnato: da Al Bano a Heather
Parisi, da Beppe Grillo a Lorella Cuccarini, fino a decine di volti che senza
di lui forse sarebbero rimasti nell’ombra. Quella frase, a volte ironica e a
volte orgogliosa, racchiudeva un tratto del suo carattere: l’orgoglio di essere
stato un talent scout, ma anche la consapevolezza che senza qualcuno che ti dà
fiducia, il talento spesso non trova strada.
E questo è un altro
aspetto che oggi manca: la televisione come palestra, come spazio in cui
qualcuno più grande, con esperienza, si prende la responsabilità di lanciare i
giovani. Pippo Baudo non era geloso della scena: al contrario, sembrava dire
“fate voi, io vi accompagno”. Eppure, pur restando dietro le quinte in certi
momenti, restava sempre lui al centro, perché il pubblico riconosceva in quella
sua discrezione un atto di autorevolezza. C’è qualcosa di profondamente
simbolico nel fatto che i suoi funerali si terranno nel Santuario della Madonna
della Stella, a Militello in Val di Catania, il suo paese natale. Dopo decenni
di riflettori, di applausi, di prime serate, la scena finale si consuma in una
chiesa barocca, lontano dai set televisivi, tra le mura di pietra e fede che
raccontano di una Sicilia antica, resistente, legata alla terra e alle radici.
È un’immagine potente: l’uomo che ha animato tredici Festival di Sanremo, che
ha dato voce a Canzonissima e a Domenica In, che ha intrattenuto milioni di
italiani davanti allo schermo, viene salutato in un luogo raccolto, intimo, nel
cuore della sua terra. È come se la sua storia tornasse al punto di partenza,
chiudendo un cerchio tra la gloria pubblica e la semplicità delle origini.
E a me questo fa
pensare a quanto sia importante, per tutti noi, ritornare lì dove tutto è
iniziato. Non importa quanto lontano si sia arrivati, quanta fama si sia
conquistata: le radici restano il luogo a cui apparteniamo. Forse la vera
eredità di Baudo non è soltanto quella televisiva, ma quella umana: ricordarci
che la grandezza non cancella mai la necessità di tornare a casa. Guardando
indietro, credo che la sua figura rappresenti un’idea di televisione che oggi
sembra scomparsa: una televisione che univa, che aveva la pretesa — o forse la
speranza — di parlare a tutti. Sanremo con Baudo era un rito popolare, certo,
ma anche un’occasione per scoprire nuove voci, per ascoltare testi che
diventavano parte del nostro immaginario. Domenica In con Baudo era la domenica
di milioni di famiglie, fatta di risate, interviste, ospiti di mondi diversi.
Oggi la televisione è
frantumata in mille nicchie, riflesso di una società sempre più individualista.
Baudo invece era il collante: riusciva a mettere nello stesso salotto
televisivo la casalinga e l’intellettuale, il ragazzo che sognava la musica e
il nonno che ricordava le melodie di un tempo. In un certo senso, rappresentava
un’Italia che, pur tra mille divisioni, sapeva ancora ritrovarsi in un momento
comune. La sua morte, lo confesso, mi fa sentire più vecchio. Non tanto perché
abbia segnato la fine di una carriera che era già da anni lontana dai
riflettori, ma perché con lui se ne va un pezzo della mia infanzia e della mia
giovinezza. È come se qualcuno avesse spento una luce che illuminava i miei
ricordi di quelle serate in cui la famiglia si riuniva davanti al televisore,
con la certezza che Baudo avrebbe guidato la nave senza scossoni.
Mi rendo conto che il
sentimento che provo non è soltanto dolore per la sua scomparsa, ma malinconia
per un tempo che non tornerà più. Baudo era legato a un’Italia che non esiste
più: più ingenua forse, ma anche più capace di condividere. Cosa resta oggi,
allora, di Pippo Baudo? Restano le immagini, certo, i filmati d’archivio, le
canzoni lanciate nei suoi programmi, le battute diventate famose. Ma
soprattutto resta un esempio di professionalità e di rispetto. In un’epoca in
cui tutto è veloce, aggressivo, rumoroso, la sua figura ci ricorda che si può
fare televisione — e, per estensione, si può vivere — con misura, con serietà,
con rispetto per chi ascolta. Forse non era perfetto, forse a volte appariva
troppo severo, forse non era sempre al passo con le mode. Ma era autentico. E
questa autenticità è ciò che manca di più oggi.
Addio a Pippo Baudo,
dunque. Non solo al re della televisione, ma a un uomo che ha incarnato un’idea
di Paese, un modo di stare insieme, una stagione che oggi sembra lontanissima.
La sua morte ci ricorda che non perdiamo soltanto le persone, ma anche i mondi
che quelle persone portavano con sé. E allora penso che il modo migliore per
ricordarlo non sia soltanto guardare indietro, ma provare a portare avanti un
po’ di quello spirito: l’idea che ogni parola detta davanti a un microfono,
ogni spettacolo condiviso, ogni momento di intrattenimento, debba avere
rispetto di chi ascolta. Baudo ha vissuto circondato dall’affetto del pubblico,
ed è morto circondato dagli affetti più intimi, nella sua Sicilia. Forse è
giusto così: come se la vita gli avesse concesso di essere re sul palcoscenico,
e uomo tra la sua gente. E noi, che l’abbiamo seguito e amato, non possiamo che
dirgli grazie.


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