Ricordo personale di Francesco Cossiga, un uomo che non si poteva ignorare
Il 17 agosto 2010 moriva Francesco Cossiga. Ricordo bene quel giorno,
non tanto per le cronache ufficiali che si susseguivano in televisione, ma per
la sensazione di vuoto che mi lasciò dentro. Avevo la netta impressione che con
lui se ne andasse non soltanto un uomo politico, ma un pezzo intero della
storia italiana, di quella Repubblica che lui aveva attraversato, servito,
provocato e persino ferito con la sua lingua tagliente. Con la sua morte non si
chiudeva solo un capitolo, ma un’epoca che aveva il sapore, con tutte le sue
contraddizioni, della Prima Repubblica.
Di Cossiga ho sempre pensato che fosse un
uomo impossibile da collocare in uno schema preciso. Troppo complesso per
essere ridotto a un’etichetta, troppo imprevedibile per rimanere ingabbiato in
un ruolo istituzionale definito una volta per tutte. Era un uomo che amava
spiazzare, che cercava volutamente di andare oltre il protocollo, di demolire
con le parole quelle certezze che tutti consideravano intoccabili. Eppure,
nonostante quella sua apparente smania distruttiva, traspariva in lui un amore
profondo per le istituzioni e per il Paese. Un amore tormentato, certo, ma
autentico.
Quando penso a Cossiga, mi vengono in mente
due immagini diverse ma complementari. La prima è quella del giovane politico
democristiano, allievo prediletto di Moro, uomo di governo sobrio, riservato,
quasi timido, che sembrava destinato a seguire il solco dei grandi equilibristi
della Democrazia Cristiana. La seconda è quella del Presidente della Repubblica
che, negli ultimi anni del suo mandato, si trasformò in un “picconatore”: un
capo dello Stato che usava parole come armi, colpi precisi e spesso spietati
contro un sistema politico che sentiva stanco, ipocrita, immobile. Due volti
dello stesso uomo, due stagioni di una vita che fu sempre in bilico tra
istituzione e ribellione.
La notizia della sua morte, in quel caldo
agosto del 2010, mi riportò indietro a tanti momenti in cui la sua voce aveva
scandito le giornate politiche italiane. Cossiga non era mai un commentatore
banale: ogni sua dichiarazione diventava titolo di giornale, ogni suo
intervento generava discussioni. Era un uomo che divideva: c’era chi lo amava e
chi lo detestava, ma nessuno poteva ignorarlo. Ed è forse questa la cifra del
suo essere: la capacità di restare sempre presente, ingombrante, vivo nel
dibattito pubblico.
Mi ha sempre colpito il coraggio che aveva di
dire cose che altri preferivano tacere. Non era paura della verità, la sua. Era
piuttosto il gusto – a volte crudele, a volte liberatorio – di togliere la
maschera al potere, di smascherarne i giochi, di ricordare che dietro la
facciata solenne c’erano debolezze, ipocrisie, interessi. Quella sua stagione
di “picconate” fu criticata, vista da molti come un attentato all’equilibrio
delle istituzioni. Io la interpreto invece come il grido di un uomo che aveva
visto troppo, che conosceva bene i meccanismi interni e che non poteva più
fingere di crederci. Un uomo che, dopo anni di disciplina, aveva deciso che era
il momento della verità, anche se dolorosa.
Non nego che a volte trovassi eccessive le
sue parole. C’era in lui una vena quasi teatrale, un gusto per la provocazione
che spesso rischiava di trasformare la denuncia in spettacolo. Ma era uno
spettacolo che serviva, perché costringeva tutti a prendere posizione. In un
Paese in cui spesso la politica scivola nell’ambiguità e nel non detto, Cossiga
fu un detonatore di chiarezza, un pugno sul tavolo che poteva piacere o no, ma
che non lasciava spazio all’indifferenza.
Ricordo che, da Presidente della Repubblica,
aveva un rapporto tormentato con il suo ruolo. All’inizio appariva come un
custode rigoroso, rispettoso del protocollo, quasi dimesso. Poi, come se
qualcosa si fosse incrinato dentro di lui, cominciò a usare la sua posizione
per mettere a nudo i limiti della politica italiana. Alcuni lo accusarono di non
essere all’altezza, altri lo esaltarono come un visionario. Io penso che in lui
convivessero entrambe le cose: la lucidità e l’eccesso, la saggezza e la
ferita.
La sua morte mi colpì anche perché arrivava
in un momento in cui l’Italia stava già cambiando pelle. La politica era
entrata in una nuova stagione, segnata da altri linguaggi, da altre figure, da
un altro modo di intendere il consenso. Con lui se ne andava un testimone di
quella generazione che aveva vissuto il dopoguerra, la ricostruzione, gli anni
di piombo, la stagione delle grandi contrapposizioni ideologiche. Una
generazione che, nel bene e nel male, aveva scritto la storia della Repubblica.
Francesco Cossiga apparteneva a quel gruppo
di uomini che non si limitavano a occupare ruoli, ma li incarnavano con tutto
il peso della loro personalità. Non era un burocrate della politica, non era un
semplice funzionario di partito. Era un uomo che viveva i ruoli istituzionali
come estensione del suo essere, con tutte le contraddizioni del caso. Per questo
fu amato e odiato, ma mai ignorato.
Personalmente, ciò che più mi affascina di
lui non è tanto la stagione delle “picconate”, ma il suo essere stato, per
tutta la vita, in bilico tra disciplina e ribellione. Era figlio della
tradizione democristiana, educato al senso delle istituzioni, alla pazienza
della mediazione. Ma dentro di lui ardeva un fuoco che non accettava
compromessi, che voleva verità, che non sopportava le ipocrisie. Questo
conflitto interiore lo rese un uomo politico diverso dagli altri, difficile da
governare persino per se stesso.
Mi rendo conto che parlare di Cossiga
significa anche parlare di me, del mio rapporto con la politica, del mio modo
di guardare al potere e alle sue ombre. In lui ho sempre visto il coraggio di
dire ciò che pensava, ma anche la solitudine che questo comporta. Essere
“picconatore” non significa solo abbattere muri, significa anche accettare di
restare fuori da essi, di non avere più un posto sicuro all’interno del
palazzo. Cossiga accettò questa solitudine, e forse fu proprio questo il segno
della sua autenticità.
Quando penso alla sua morte, non provo solo
la nostalgia per un uomo, ma per un’epoca in cui la politica, pur con i suoi
limiti, aveva ancora spessore umano, contraddizione, passione. Oggi mi sembra
tutto più patinato, più calcolato, più povero di verità. Cossiga, con tutti i
suoi eccessi, ci ricordava che dietro le istituzioni ci sono uomini veri, con
ferite, con visioni, con coraggio e con paure. Ci ricordava che la politica non
è solo gestione, ma anche conflitto, anche dramma, anche passione.
Il 17 agosto 2010 se ne andò un uomo che non
aveva paura di essere scomodo. E io credo che, oggi più che mai, abbiamo
bisogno di figure scomode, di voci che non abbiano paura di dire ciò che non è
conveniente, di rompere i rituali vuoti. Forse non sempre avremmo bisogno di
parole taglienti come le sue, ma certo avremmo bisogno della sua capacità di
guardare oltre le apparenze.
Francesco Cossiga è stato tante cose:
studente brillante, allievo di Moro, ministro dell’Interno nei giorni più bui
del terrorismo, Presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica, senatore
a vita. Ma soprattutto è stato un uomo che non ha mai smesso di essere se
stesso, anche quando questo significava mettersi contro tutti. Un uomo che, con
le sue luci e le sue ombre, ha lasciato un segno profondo nella storia
italiana.
Quando ripenso a lui, mi accorgo che non
riesco a considerarlo solo come un politico. Lo vedo come un personaggio da
romanzo: complesso, contraddittorio, passionale, tragico a tratti. Forse è per
questo che la sua figura continua a colpirmi. Perché ci ricorda che la
politica, quando è vissuta fino in fondo, è vita vera, con tutte le sue
contraddizioni.
Ecco perché quel 17 agosto 2010 non segnò per
me solo la morte di un ex Presidente della Repubblica. Segnò la fine di
un’epoca, il congedo di una voce che, pur tra eccessi e contraddizioni, aveva
avuto il coraggio di dire la verità. Oggi, ogni volta che sento discorsi
politici vuoti e preconfezionati, mi torna in mente la sua voce ruvida,
scomoda, spiazzante. E dentro di me penso che, nonostante tutto, mi manca.
Francesco Cossiga non si può incasellare. Non
si può giudicare solo con le categorie della politica tradizionale. È stato un
uomo, con tutta la grandezza e la fragilità che questa parola porta con sé. Ed
è per questo che, ancora oggi, a distanza di anni, parlarne significa parlare
di noi, della nostra Repubblica, del nostro bisogno di verità. Perché l’eco
delle sue “picconate” continua a vibrare, ricordandoci che senza scomodità non
c’è cambiamento, e senza verità non c’è futuro.


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