Quando sento ripetere che «non si può toccare il Quirinale», a me scatta un riflesso di diffidenza. Non perché non rispetti la Presidenza della Repubblica – al contrario: proprio perché la rispetto, non mi piace vederla trasformata in un totem intoccabile, attorno al quale partiti e commentatori si muovono come chierichetti improvvisati.
In questi giorni la scena è
surreale: la stessa area politica che negli anni Settanta e Ottanta organizzava
campagne durissime contro Giovanni Leone, fino a spingerlo alle dimissioni in
pieno clima Lockheed, e che nei confronti di Cossiga arrivò a chiedere
l’impeachment, ora si presenta come corpo di guardia del Colle, con elmo da
corazziere e mano sul cuore.
Il copione è noto: La Verità
pubblica ricostruzioni scomode sul consigliere Garofani, Bignami chiede
spiegazioni, il Quirinale risponde parlando di «attacco ridicolo» e subito
parte il coro della sinistra unita. Prima la difesa d’ufficio di Mattarella,
poi la richiesta rituale: Giorgia Meloni venga in aula a “rendere conto al
Parlamento e al Paese” e prenda le distanze da dichiarazioni che metterebbero a
rischio le relazioni con il Colle. Le formule, riportate dagli stessi giornali
che amplificano la polemica, sembrano davvero frasi standard, buone per ogni
indignazione: basta cambiare il nome del bersaglio, il resto è in fotocopia.
Quello che mi colpisce è
l’ipocrisia di fondo. Per decenni la sinistra ha rivendicato il valore “civile”
dell’informazione: la stampa come cane da guardia della democrazia, la libertà
di inchiesta come pilastro della Repubblica. Oggi, appena un quotidiano non
allineato mette il naso nelle retrovie del Quirinale, quelle stesse forze
politiche scoprono improvvisamente che la libertà di stampa ha un limite: il
perimetro del Colle.
La reazione è sempre la
stessa: si squalifica la domanda, mai il contenuto. Il giornale diventa
“fazioso”, lo scoop una “bufala”, il direttore uno che si nasconde dietro la
libertà di stampa. Nel frattempo, un dettaglio rimane lì, sospeso: il diretto
interessato, il consigliere tirato in ballo, non smentisce in modo chiaro e
pubblico le frasi che gli vengono attribuite. E questo, in un Paese normale,
basterebbe a giustificare la curiosità – e la testardaggine – di chi fa il
nostro mestiere di lettori e cittadini.
Personalmente, trovo molto più
pericoloso il clima che si sta costruendo, rispetto all’eventuale eccesso
polemico di un quotidiano. Perché se passa il principio che chiedere conto
delle parole di un consigliere equivale ad “attaccare il Presidente”, abbiamo
già accettato l’idea che l’istituzione e il suo entourage siano una cosa sola,
indistinguibile e soprattutto insindacabile.
Il paradosso è che proprio chi
si indigna ogni giorno – per Gaza, per i condoni, per qualunque tema consenta
una conferenza stampa e qualche hashtag – oggi si mobilita non per difendere la
libertà di stampa, ma per mettere il silenziatore a un giornale che non
sopporta. E lo fa appellandosi alla sacralità del Colle, dopo aver passato
mezzo Novecento a demolire predecessori del Capo dello Stato di turno a colpi
di editoriali e manifestazioni di piazza. Io non voglio un Quirinale insultato
ogni settimana, ma voglio un Quirinale che può essere raccontato, criticato, messo
in discussione quando emergono notizie sui suoi consiglieri. E voglio partiti
che, se credono davvero nei media come presidio democratico, difendano anche il
diritto del giornale più antipatico del mondo di pubblicare domande scomode.
In fondo la scelta è semplice:
preferisco un Colle rispettato ma discutibile a un santuario circondato da
fedeli improvvisati. La democrazia non ha bisogno di corazzieri in più; ha
bisogno, semmai, di qualche bavaglio in meno.
