27 luglio 2025

Elly Schlein: la distanza tra simbolo e sostanza

 

Non è facile per me parlare di Elly Schlein senza cedere alla tentazione del giudizio affrettato. Da mesi osservo la sua figura pubblica con attenzione, provando a mettere da parte le emozioni , lo spaesamento, la disillusione, a volte persino la rabbia, che ogni giorno la politica italiana riesce a suscitare in chi ancora spera che essa possa servire a qualcosa. Forse è proprio questo il punto: Elly Schlein rappresentava, per molti, una promessa. Per alcuni una speranza di rinnovamento radicale, per altri l’ennesima illusione camuffata da progresso. Per me, all’inizio, una curiosità intellettuale. Oggi, più che mai, uno dei sintomi di una politica che ha smarrito il proprio centro: quello della credibilità.

Quando fu eletta segretaria del Partito Democratico, Schlein arrivò come un volto nuovo, giovane, fresco, alternativo al solito apparato di uomini grigi e autoreferenziali. Era donna, era dichiaratamente queer, era femminista, europeista, figlia del mondo globalizzato e della sinistra radical chic. Parlava benino, si muoveva tra le lingue e le identità come chi ha frequentato più università che piazze. E questo, per molti suoi sostenitori, era un pregio. Per me, era un campanello d’allarme.

Il problema non è mai la cultura, sia chiaro. Il problema è l’uso che si fa della cultura. Elly Schlein non ha mai provato a nascondere le sue origini borghesi, ma ha anche cercato, fin dall’inizio, di costruire una narrazione “alternativa” di sé: quella di una ragazza ribelle ai salotti buoni, più vicina agli attivisti di strada che ai circoli del potere. È una strategia vecchia quanto la politica, eppure oggi funziona ancora: camminare tra i migranti a Lampedusa, indossare abiti sobri, citare le lotte LGBTQ+ e i Fridays for Future, mentre si guida, di fatto, un partito che ha amministrato gran parte del potere negli ultimi trent’anni.

La sinistra italiana è diventata negli anni un laboratorio permanente di contraddizioni. Elly Schlein non le ha risolte. Le ha semmai incarnate con una coerenza sorprendente: progressista nei discorsi, moderata nelle azioni. Inclusiva nei toni, ma sempre più elitaria nei contenuti. Una sinistra che parla a una minoranza molto istruita, urbana, internazionalizzata, ma che ha rotto ogni rapporto con le classi popolari, i piccoli imprenditori, gli operai, i disoccupati, gli italiani di provincia.

In questo senso, la sua elezione è stata un atto simbolico perfetto: rappresenta alla perfezione il vuoto identitario di un partito che ha smesso di rappresentare chi lavora. Ha ereditato un PD già in crisi, e anziché ricostruirne le fondamenta, ha scelto di cambiarne la vernice. Con toni gentili, ma con lo stesso distacco.

Parlare di comunicazione politica oggi significa parlare di linguaggio. E il linguaggio di Elly Schlein, per quanto spesso sofisticato e ben costruito, è anche profondamente ambiguo. Non per incapacità, ma per strategia. Come molti leader contemporanei, anche lei gioca sulla sfumatura, sull’indistinto, sul detto e non detto. Vuole apparire radicale, ma non troppo. Inclusiva, ma senza dividere. Di sinistra, ma dialogante. In un’epoca in cui la chiarezza premia (vedi Giorgia Meloni), Elly Schlein sembra voler vincere con la diplomazia.

Ma la realtà è che la gente vuole sapere da che parte stai, non con chi ti confronti. Se sei contro il jobs act o no. Se pensi che la famiglia sia solo quella “tradizionale” oppure se vuoi davvero una riforma seria dei diritti. Se vuoi abolire il reddito di cittadinanza oppure ampliarlo. La politica è fatta anche di scelte nette, e Schlein sembra più a suo agio nel raccontare il cambiamento che nel praticarlo.

In molti suoi interventi pubblici, ho avuto la sensazione di ascoltare una brava studentessa che conosce bene il programma ma non ha mai messo piede in una fabbrica. E non per mancanza di volontà, ma perché il suo orizzonte simbolico è un altro: quello delle ONG, delle università, delle reti europee, dei think tank progressisti. Tutto questo è utile, persino necessario, ma non può bastare. Non puoi fare opposizione a Giorgia Meloni senza mettere i piedi nella polvere della vita reale.

La sconfitta alle elezioni europee del 2024 ha rappresentato per Elly Schlein una doccia fredda. Ma era prevedibile. In un’Italia dove la destra vince parlando alle paure e ai bisogni della gente, la sinistra non può più permettersi di parlare solo a se stessa. Non può rifugiarsi nel linguaggio dei diritti senza affrontare il problema della giustizia sociale. Non può invocare l’Europa mentre metà del Paese affoga nella precarietà. E soprattutto, non può restare zitta sui grandi temi, o limitarsi a reazioni timide.

Sulla guerra in Ucraina, sull’immigrazione, sulla crisi energetica, sul lavoro povero… il PD di Schlein ha spesso oscillato tra silenzi imbarazzanti e posizioni annacquate. Nessun affondo netto, nessuna proposta davvero di rottura. Solo dichiarazioni di principio, conferenze stampa, tweet ben scritti. L’impressione è che la battaglia non sia nel cuore, ma solo nella forma. E che l’ideologia – se esiste – sia più un’estetica che una missione.

Un altro punto dolente riguarda la questione femminile. Elly Schlein è spesso presentata come simbolo del femminismo contemporaneo. Ma quale femminismo? Quello delle quote rosa? Delle foto in prima pagina con i tailleur sobri? Della narrazione tutta centrata sull’identità personale? Essere donna, in sé, non basta. E non basta nemmeno essere queer. Il vero femminismo politico dovrebbe tradursi in atti concreti: tutela della maternità, lotta al gender gap, accesso gratuito alla sanità, contrasto alla violenza, riforma del lavoro part-time e precario. E qui, il vuoto si sente.

Schlein ha parlato, certo. Ma ha agito poco. E soprattutto, ha rappresentato un femminismo che – ancora una volta – parla più alle élite urbane e colte che alle donne delle periferie, alle mamme sole, alle impiegate in nero. Un femminismo simbolico, ma non popolare. E quindi, come spesso accade, inefficace.

Elly Schlein è, forse, il simbolo perfetto di una sinistra che ha smarrito il legame con la propria base. Non perché non sia intelligente, colta, sensibile. Ma perché parla un linguaggio che pochi riconoscono come proprio. Non sa entusiasmare. Non sa emozionare. Non riesce a generare quel senso di “noi” che è l’anima profonda di ogni progetto collettivo.

E così, mentre la destra continua a occupare spazi e territori, mentre le diseguaglianze aumentano, mentre la rabbia cresce e si trasforma in rassegnazione o populismo, la sinistra di Elly Schlein resta impigliata nella sua retorica e nella sua correttezza. Forse per paura di sbagliare. Forse per un eccesso di cautela. Forse per mancanza di coraggio.

Scrivere questo articolo non è stato facile. Non per mancanza di idee, ma per delusione. Avevo sperato, come molti, che Elly Schlein potesse essere qualcosa di diverso. Che la sua elezione segnasse un cambio di passo, un ritorno al pensiero forte, al coraggio delle scelte. Invece, mi ritrovo a guardare una figura competente ma distante, elegante ma impalpabile, appassionata ma fredda.

Forse è ancora presto per giudicare. Forse la sua visione ha bisogno di tempo per radicarsi. Ma la politica non aspetta, e le speranze tradite lasciano cicatrici profonde.

Oggi, guardando la sua traiettoria, mi chiedo se Elly Schlein sia davvero la leader che serve alla sinistra italiana. O se sia solo l’ennesimo esperimento di un partito che continua a cercare fuori ciò che ha perso dentro.

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