27 luglio 2025

Giuseppe Conte: il volto gentile della spesa pubblica senza freni

È difficile parlare di Giuseppe Conte senza inciampare nel paradosso. Un uomo arrivato alla guida del governo italiano senza essere mai stato eletto, privo di una militanza politica alle spalle, ma capace , con una sorprendente abilità mimetica, di attraversare due governi agli antipodi (prima con la Lega, poi con il PD e il M5S), sopravvivere a due legislature e presentarsi infine come leader di un movimento “di lotta e di governo” allo stesso tempo. Ma al di là della sua capacità comunicativa e dell’immagine da “avvocato del popolo”, c’è un’eredità più pesante che va analizzata con freddezza: il conto che ha lasciato allo Stato italiano.

Parlare di bilancio pubblico può sembrare noioso o tecnico. Ma è da lì che si capisce tutto: la visione politica, la credibilità, il rapporto tra la promessa e la realtà. E Giuseppe Conte, in questo, ha incarnato un modo di governare basato più sulla distribuzione del consenso che sulla sostenibilità delle scelte.

Durante i governi Conte I e Conte II, l’Italia ha accumulato centinaia di miliardi di nuovo debito pubblico, gran parte dei quali giustificati in nome dell’emergenza sanitaria e sociale. Ma c’è una differenza tra spendere per salvare vite – cosa doverosa – e utilizzare la pandemia come paravento per misure populiste, assistenziali e spesso clientelari, con impatti strutturali sul bilancio statale.

Il reddito di cittadinanza, per esempio, è una misura che ha avuto senso in un contesto di povertà estrema, ma la sua applicazione, durata e gestione sono state profondamente sbagliate. Introdotto nel 2019 con il governo Conte–Salvini, doveva “abolire la povertà” – slogan che lui stesso usò, col piglio da santone più che da premier – ma ha di fatto creato una nuova fascia di dipendenza assistenziale, senza risolvere il problema della disoccupazione e aggravando le casse pubbliche.

Costo annuo stimato: oltre 8 miliardi di euro, con punte di spesa superiori nei primi anni, senza effetti reali sull’occupazione. Il fallimento dei “navigator”, la mancata attivazione di percorsi di reinserimento lavorativo e le truffe emerse nel tempo ne sono la prova.

Sotto Conte, lo Stato è diventato una sorta di bancomat elettorale. Dalle lotterie degli scontrini al bonus monopattino, dal superbonus 110% (che merita un capitolo a parte) al bonus terme, vacanze, biciclette, occhiali… si è creata una cultura del “premio” scollegata da ogni idea di merito o riforma strutturale.

Il Superbonus 110% in particolare è stato uno dei più costosi, disorganizzati e dannosi interventi mai visti nella storia della finanza pubblica italiana. Nato con buone intenzioni (rilanciare l’edilizia, migliorare l’efficienza energetica), è diventato una valanga incontrollata di spesa, con stime che oggi oscillano oltre i 150 miliardi di euro. Soldi sottratti al futuro, a una fiscalità seria, a una programmazione vera.

Il meccanismo del credito d’imposta cedibile ha creato un sistema opaco e incontrollabile di guadagni facili per imprese furbe, consulenti, banche e intermediari. Chi aveva già una casa e i mezzi per avviare lavori ha beneficiato enormemente, mentre i più poveri, ancora una volta, sono rimasti ai margini. Un Robin Hood al contrario.

Conte ha inoltre consolidato un modello di spesa corrente fuori controllo, senza preoccuparsi degli equilibri di medio-lungo periodo. Le sue manovre finanziarie sono state spesso costruite con entrate fittizie, stime ottimistiche, fondi emergenziali e deroghe continue alle regole di bilancio.

Durante la pandemia, è vero, serviva flessibilità. Ma Conte ha approfittato di quella flessibilità per non affrontare mai il nodo vero: come rendere sostenibili i conti pubblici nel tempo. Le clausole di salvaguardia, le spese obbligatorie, gli impegni futuri assunti dallo Stato sono esplosi, lasciando ai governi successivi il compito di fare i conti con una realtà drammatica.

Secondo diverse analisi indipendenti, tra il 2018 e il 2021 il debito italiano è passato dal 134% al 156% del PIL, in parte per il COVID, ma in parte per una serie di scelte fatte senza alcuna valutazione dell’impatto a lungo termine. Quando si distribuisce consenso a debito, il conto arriva. Sempre.

Il grande paradosso di Conte è che, mentre accumulava deficit, debito e misure insostenibili, riusciva a mantenere una narrazione da “statista responsabile”. Merito della sua calma, della voce pacata, della retorica sempre sobria. Un abile comunicatore, certo. Ma la sostanza dice altro: sotto il suo governo non c’è stata alcuna riforma fiscale, nessun taglio vero agli sprechi, nessuna razionalizzazione della macchina pubblica. Solo incentivi, proroghe, bonus, rinvii.

Conte è stato il re dell’interventismo emergenziale, ma totalmente assente nella costruzione di una visione a medio termine. L’Italia non è uscita più forte dalla sua gestione. È uscita più indebitata, più confusa, più dipendente dallo Stato, senza strumenti reali per affrontare le sfide del futuro: invecchiamento, produttività, transizione ecologica.

C’è un punto che, per me, è decisivo. Conte rappresenta una nuova forma di populismo: non urlato, ma sussurrato. Non quello dei Vaffa e degli slogan brutali, ma quello più elegante, insinuante, apparentemente moderato. Eppure, la logica è la stessa: dare qualcosa a tutti, promettere senza coprire, evitare i conflitti veri, dire ciò che piace sentirsi dire.

Ha governato con Salvini, poi con Zingaretti e Franceschini. Ha detto tutto e il contrario di tutto. Si è definito “socialista liberale” e poi ha stretto alleanze con le ali estreme. Oggi guida un Movimento 5 Stelle trasformato in partito personale, senza congressi, senza dibattito interno, e con un programma economico ancora centrato sulla spesa pubblica massiva e su un’idea di Stato che distribuisce denaro come fosse gratuito.

Giuseppe Conte ha dimostrato che si può diventare popolari non facendo riforme, ma distribuendo illusioni. E questa, in fondo, è la sua vera eredità politica: ha consolidato l’idea che governare significhi semplicemente “dare qualcosa a tutti”, senza affrontare il costo sociale delle scelte, senza avere il coraggio di dire qualche no.

Il risultato? Un’Italia più fragile, un debito fuori controllo, conti da sistemare per decenni. E mentre lui continua a presentarsi come la voce del popolo, a opporsi al governo in carica con la stessa retorica del “noi stiamo con i deboli”, restano le macerie di un bilancio drogato da bonus e promesse.

La politica ha bisogno di passione, ma anche di responsabilità. E Conte, in questo equilibrio, ha scelto sempre la via più facile: quella del consenso immediato, a spese del futuro.


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