È difficile parlare di Giuseppe Conte senza inciampare nel paradosso. Un uomo arrivato alla guida del governo italiano senza essere mai stato eletto, privo di una militanza politica alle spalle, ma capace , con una sorprendente abilità mimetica, di attraversare due governi agli antipodi (prima con la Lega, poi con il PD e il M5S), sopravvivere a due legislature e presentarsi infine come leader di un movimento “di lotta e di governo” allo stesso tempo. Ma al di là della sua capacità comunicativa e dell’immagine da “avvocato del popolo”, c’è un’eredità più pesante che va analizzata con freddezza: il conto che ha lasciato allo Stato italiano.
Parlare di bilancio pubblico può
sembrare noioso o tecnico. Ma è da lì che si capisce tutto: la visione
politica, la credibilità, il rapporto tra la promessa e la realtà. E Giuseppe
Conte, in questo, ha incarnato un modo di governare basato più sulla distribuzione del consenso che sulla sostenibilità delle
scelte.
Durante i governi Conte I e Conte II,
l’Italia ha accumulato centinaia di miliardi di nuovo
debito pubblico, gran parte dei quali giustificati in nome
dell’emergenza sanitaria e sociale. Ma c’è una differenza tra spendere per
salvare vite – cosa doverosa – e utilizzare la pandemia come paravento per
misure populiste, assistenziali e spesso clientelari, con impatti strutturali
sul bilancio statale.
Il reddito di
cittadinanza, per esempio, è una misura che ha avuto senso in
un contesto di povertà estrema, ma la sua applicazione, durata e gestione sono
state profondamente sbagliate. Introdotto nel 2019 con il governo
Conte–Salvini, doveva “abolire la povertà” – slogan che lui stesso usò, col
piglio da santone più che da premier – ma ha di fatto creato una nuova fascia di dipendenza assistenziale, senza risolvere
il problema della disoccupazione e aggravando le casse pubbliche.
Costo annuo stimato:
oltre 8 miliardi di euro, con punte di
spesa superiori nei primi anni, senza effetti reali
sull’occupazione. Il fallimento dei “navigator”, la mancata
attivazione di percorsi di reinserimento lavorativo e le truffe emerse nel
tempo ne sono la prova.
Sotto Conte, lo Stato è diventato una
sorta di bancomat elettorale. Dalle lotterie degli scontrini al bonus monopattino, dal superbonus
110% (che merita un capitolo a parte) al bonus terme, vacanze,
biciclette, occhiali… si è creata una cultura del “premio” scollegata da ogni
idea di merito o riforma strutturale.
Il Superbonus 110% in particolare è
stato uno dei più costosi, disorganizzati e dannosi
interventi mai visti nella storia della finanza pubblica
italiana. Nato con buone intenzioni (rilanciare l’edilizia, migliorare
l’efficienza energetica), è diventato una valanga incontrollata di
spesa, con stime che oggi oscillano oltre i 150 miliardi di euro. Soldi sottratti al futuro,
a una fiscalità seria, a una programmazione vera.
Il meccanismo del credito d’imposta
cedibile ha creato un sistema opaco e incontrollabile
di guadagni facili per imprese furbe, consulenti, banche e intermediari. Chi
aveva già una casa e i mezzi per avviare lavori ha beneficiato enormemente,
mentre i più poveri, ancora una volta, sono rimasti ai margini. Un Robin Hood al contrario.
Conte ha inoltre consolidato un modello di spesa corrente fuori controllo, senza
preoccuparsi degli equilibri di medio-lungo periodo. Le sue manovre finanziarie
sono state spesso costruite con entrate fittizie,
stime ottimistiche, fondi emergenziali e deroghe continue alle regole di
bilancio.
Durante la pandemia, è vero, serviva
flessibilità. Ma Conte ha approfittato di quella flessibilità per non affrontare mai il nodo vero: come rendere sostenibili
i conti pubblici nel tempo. Le clausole di salvaguardia, le spese obbligatorie,
gli impegni futuri assunti dallo Stato sono esplosi, lasciando ai governi
successivi il compito di fare i conti con una realtà drammatica.
Secondo diverse analisi indipendenti,
tra il 2018 e il 2021 il debito italiano è passato dal 134% al 156% del PIL, in parte per il COVID, ma in
parte per una serie di scelte fatte senza alcuna valutazione
dell’impatto a lungo termine. Quando si distribuisce consenso a
debito, il conto arriva. Sempre.
Il grande paradosso di Conte è che,
mentre accumulava deficit, debito e misure insostenibili, riusciva a mantenere una narrazione da “statista responsabile”.
Merito della sua calma, della voce pacata, della retorica sempre sobria. Un
abile comunicatore, certo. Ma la sostanza dice altro:
sotto il suo governo non c’è stata alcuna riforma fiscale, nessun taglio vero
agli sprechi, nessuna razionalizzazione della macchina pubblica. Solo
incentivi, proroghe, bonus, rinvii.
Conte è stato il re dell’interventismo emergenziale, ma totalmente
assente nella costruzione di una visione a medio termine. L’Italia non è uscita
più forte dalla sua gestione. È uscita più indebitata, più confusa, più
dipendente dallo Stato, senza strumenti reali per affrontare le
sfide del futuro: invecchiamento, produttività, transizione ecologica.
C’è un punto che, per me, è decisivo.
Conte rappresenta una nuova forma di populismo: non urlato, ma
sussurrato. Non quello dei Vaffa e degli slogan brutali, ma
quello più elegante, insinuante, apparentemente moderato. Eppure, la logica è
la stessa: dare qualcosa a tutti, promettere senza
coprire, evitare i conflitti veri, dire ciò che piace sentirsi dire.
Ha governato con Salvini, poi con
Zingaretti e Franceschini. Ha detto tutto e il contrario di tutto. Si è
definito “socialista liberale” e poi ha stretto alleanze con le ali estreme.
Oggi guida un Movimento 5 Stelle trasformato in partito personale, senza
congressi, senza dibattito interno, e con un programma economico ancora
centrato sulla spesa pubblica massiva e su un’idea di Stato che distribuisce
denaro come fosse gratuito.
Giuseppe Conte ha dimostrato che si può
diventare popolari non facendo riforme, ma
distribuendo illusioni. E questa, in fondo, è la sua vera
eredità politica: ha consolidato l’idea che governare significhi semplicemente
“dare qualcosa a tutti”, senza affrontare il costo sociale delle scelte, senza
avere il coraggio di dire qualche no.
Il risultato? Un’Italia più fragile, un
debito fuori controllo, conti da sistemare per decenni. E mentre lui continua a
presentarsi come la voce del popolo, a opporsi al governo in carica con la
stessa retorica del “noi stiamo con i deboli”, restano le
macerie di un bilancio drogato da bonus e promesse.
La politica ha bisogno di passione, ma
anche di responsabilità. E Conte, in questo equilibrio, ha scelto sempre la via
più facile: quella del consenso immediato, a spese del
futuro.


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