22 agosto 2025

Il gas che torna sempre indietro

 Articolo sull’America, la Russia e l’ipocrisia energetica


Ci sono notizie che non ti sorprendono, eppure ti lasciano addosso una sensazione di amaro in bocca. Non ti sorprendono perché sai già, in fondo, come funziona il mondo: i valori proclamati sono quasi sempre maschere, le grandi dichiarazioni morali spesso servono a coprire semplicemente interessi materiali. Ti lasciano l’amaro in bocca perché rivelano una verità che non vorresti vedere confermata così presto e in modo così sfacciato. È quello che ho provato leggendo i lanci di agenzie come Reuters (leggi qui), articoli del Financial Times (leggi qui), analisi del Washington Post (leggi qui) e persino approfondimenti del Guardian (leggi qui): gli Stati Uniti, gli stessi che hanno guidato la crociata contro il gas russo, oggi si propongono come intermediari proprio di quel gas, pronti a farlo tornare in Europa attraverso nuove etichette, nuovi canali, nuovi artifici.

Ricordo bene le parole ascoltate solo un paio di anni fa: “Mai più dipendenza energetica da Mosca, mai più ricatti di Putin, mai più sottomissione al gas russo”. Ricordo la retorica dei sacrifici, le bollette schizzate in alto, la narrazione secondo cui ogni grado in meno nei nostri termosifoni era un gesto di resistenza democratica, un colpo dato alla macchina bellica russa. E oggi? Oggi si ragiona su come comprare lo stesso gas, solo che questa volta con la mediazione americana. La sostanza non cambia, cambia solo la cornice. È come se bastasse uno strato di vernice a ridipingere di bianco ciò che ieri era nero.

Secondo Reuters, durante colloqui informali nei negoziati di pace tra Washington e Mosca, si è discusso della possibilità che aziende statunitensi acquistino direttamente gas da Gazprom e lo rivendano al mercato europeo. Un giro lungo, ma non troppo, che permette a Bruxelles di dire: “Non stiamo comprando dalla Russia, ma dagli Stati Uniti”. Il gas resta russo, il fornitore ufficiale diventa americano. Una partita di prestigio, una magia diplomatica che cancella l’imbarazzo morale e soddisfa allo stesso tempo la fame energetica dell’Europa. È difficile non pensare a un gioco delle tre carte, di quelli che si fanno per strada e che ti lasciano sempre con la sensazione di essere stato preso in giro.

Il Financial Times, da parte sua, ha scritto di un progetto molto concreto: rilanciare il Nord Stream 2, il gasdotto che doveva essere sepolto per sempre dopo l’invasione dell’Ucraina, grazie a un consorzio di investitori statunitensi. Quel tubo che era stato dipinto come il simbolo del ricatto energetico russo, come un legame tossico da recidere, ora torna improvvisamente appetibile se garantisce agli americani un nuovo controllo strategico. Non conta più il principio, conta la leva geopolitica. Non conta più l’embargo morale, conta la possibilità di tenere l’Europa al guinzaglio attraverso l’energia.

Il Washington Post ha raccontato un’altra faccia della stessa medaglia: lo scenario artico. Si parla di LNG, il gas naturale liquefatto che viene estratto e trasportato dalle regioni gelide. Qui, gli Stati Uniti valutano di entrare nei progetti russi, di ritagliarsi una fetta delle esportazioni, magari per poi rivendere quel gas ad altri paesi sotto un’etichetta diversa. È il paradosso più grande: l’America che denuncia la dipendenza da Mosca e nello stesso tempo valuta di diventare socia negli affari energetici russi. Non più contro, ma attraverso.

E io, che queste notizie le leggo non da analista ma da semplice cittadino, da persona che paga le bollette e ricorda gli appelli a stringere la cinghia, non riesco a togliermi dalla mente una domanda che brucia: ma quanto valgono davvero le parole della politica? Quanto valgono le dichiarazioni solenni, i discorsi vibranti, se alla fine tutto può essere capovolto, riscritto, riadattato? Abbiamo sacrificato redditi, abitudini, risparmi in nome di una coerenza che si è sciolta al primo tavolo di trattativa.

L’Europa, come al solito, sembra comparsa muta in questo film. Abbiamo fatto la voce grossa contro Putin, abbiamo invocato la transizione energetica, abbiamo parlato di sovranità strategica, e oggi ci ritroviamo a guardare, ancora una volta, decisioni prese sopra le nostre teste. Prima dipendenti da Mosca, ora dipendenti da Washington. Sempre spettatori di una partita che altri giocano e vincono.

C’è qualcosa di profondamente umiliante in tutto questo. Non perché io pensi che l’Europa possa davvero fare a meno di tutto e di tutti — sarebbe ingenuo — ma perché mi aspettavo almeno un briciolo di coerenza. Invece no. Abbiamo barattato la narrativa della fermezza con quella della convenienza, e lo abbiamo fatto nel giro di pochi mesi.

Forse non dovrei stupirmi. Forse dovrei accettare che la politica internazionale funziona così, che le sanzioni servono più a segnare un confine simbolico che a cambiare la sostanza, che il denaro e l’energia vincono sempre. Ma non riesco a non sentirmi preso in giro. Non riesco a non pensare a quelle famiglie che hanno dovuto scegliere se pagare la luce o la spesa, a quegli imprenditori che hanno chiuso perché i costi erano diventati insostenibili, a quella retorica dei sacrifici che ora appare ridicola, vuota, insultante.

Mi viene da sorridere amaramente quando leggo che persino Di Battista, con il suo tono spesso provocatorio, aveva anticipato questa ipotesi nei suoi post. Allora sembrava la solita esagerazione, la solita denuncia populista. Oggi Reuters, FT e Washington Post dicono le stesse cose, solo con un linguaggio più elegante. È come se la verità fosse un serpente che si muove sotto terra: lo vedi spuntare qua e là, non gli credi, poi alla fine ti rendi conto che era lì da sempre, e che eri tu a non volerlo vedere.

E così il gas russo, quello che doveva sparire, torna dalla finestra. Torna con un nuovo passaporto, con un timbro americano, con un’etichetta diversa. Ma resta lo stesso gas, estratto dalle stesse terre, pompato dalle stesse aziende. Torna perché non si può rinunciare alla realtà, e la realtà è che l’Europa ha bisogno di energia, e chi la controlla può riscrivere le regole del gioco.

Io non ho soluzioni. Non mi illudo di avere la risposta giusta. Ma so che non posso più ascoltare senza rabbia chi parla di principi, di valori, di scelte irreversibili. Perché so che dietro ogni parola si nasconde un interesse pronto a cambiarla. E so che, alla fine, il gas torna sempre indietro, anche quando avevano giurato che sarebbe sparito per sempre.

 

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