19 agosto 2025

La Sardegna ferita

 Riflessione sulla cultura nazionale che resiste all’agonia del dominio


Ci sono domande che fanno tremare, perché quando le pronunci ti accorgi che non stai cercando una risposta oggettiva ma una confessione, una resa o forse un atto d’amore. Una di queste domande è proprio questa: che cos’è, oggi, la cultura nazionale dei Sardi? E quando me lo chiedo, sento dentro di me un misto di orgoglio e di dolore, come se stessi rovistando tra le macerie di una casa crollata per capire se ci sia ancora un tetto sotto cui ripararmi. Perché sì, io sento che la mia terra ha una cultura nazionale, ma la percepisco stanca, piegata, a tratti umiliata, trascinata in una agonia che non ha fine. Un’agonia che non uccide ma non lascia vivere, che spegne senza estinguere, che lascia tutto sospeso in una sopravvivenza amara.

Quando penso alla cultura dei Sardi, la prima cosa che mi viene in mente non è un libro o un simbolo, ma il suono di una lingua. Il sardo. Una lingua che per secoli ci hanno detto di nascondere, come se fosse sporca, come se fosse sinonimo di ignoranza. Ricordo ancora gli sguardi di chi, a scuola, rideva di chi usava il sardo nel cortile, e i maestri che ci correggevano con severità, come se usare la lingua di nostra madre fosse un difetto da estirpare. È qui che si consuma gran parte della nostra agonia: una lingua antica, viva, dolce e dura allo stesso tempo, trattata come un fastidio. Ma nonostante tutto resiste. Ogni volta che torno in paese, la sento nelle piazze, nelle cucine, nei silenzi pieni di significato degli anziani. È un sussurro che non muore, ma è come se vivesse in clandestinità. Una lingua nazionale ridotta a dialetto, un cuore trasformato in ornamento. E mi chiedo: come possiamo sentirci davvero popolo se la lingua che ci unisce viene ridotta a folclore o a curiosità etnografica?

Eppure la cultura nazionale non è solo lingua. È anche memoria, ed è proprio lì che si sente il peso coloniale. I Sardi hanno memoria di dominazioni, di padroni che hanno estratto, sfruttato, deciso al posto nostro. Aragonesi, spagnoli, piemontesi, italiani. Tutti hanno preso, pochi hanno restituito. Le miniere abbandonate nel Sulcis, le basi militari che occupano ancora oggi vaste porzioni di territorio, i pascoli trasformati in aridi deserti, i boschi tagliati, le coste vendute al turismo di massa. E noi? Noi a guardare, a subire, a piegarci. La cultura nazionale dei Sardi oggi è anche questa: la coscienza amara di essere stati colonia, trattati come terreno di conquista, e la rabbia silenziosa di non essere mai riusciti a riprendere in mano fino in fondo il nostro destino.

Però non voglio ridurre tutto alla lamentela. La cultura nazionale è anche ciò che resiste e ciò che si reinventa. Penso ai canti a tenore, dichiarati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, eppure ancora poco conosciuti persino da molti italiani. Quando li ascolto mi sembra di sentire la voce della terra stessa: la polifonia ruvida, gutturale, sembra nascere dalle pietre, dal vento, dal silenzio delle campagne. Non è solo musica: è identità, è appartenenza. Allo stesso modo, la poesia improvvisata, i mutetus, gli stornelli, che ancora oggi animano le feste paesane, sono testimonianza di una vitalità che nessun colonialismo è riuscito a spegnere. Sono forme di resistenza che vivono dentro i corpi, dentro le voci, più forti di ogni legge che le voleva cancellare.

Ma poi guardo la realtà contemporanea e vedo quanto sia fragile tutto questo. Vedo giovani che non conoscono più il sardo, che magari ballano in discoteca con canzoni importate e non sanno nulla dei canti delle loro nonne. Vedo una cultura che rischia di essere vissuta solo come souvenir, come cartolina da vendere ai turisti. E mi arrabbio. Mi arrabbio perché sento che ci stiamo lasciando rubare l’anima senza neppure rendercene conto. L’agonia prolungata che viviamo sta tutta qui: abbiamo un patrimonio gigantesco, ma lo trattiamo come un cimelio da museo, non come qualcosa che pulsa nelle nostre vene.

Che cos’è, allora, oggi, la cultura nazionale dei Sardi? Forse è proprio questo contrasto tra ciò che resiste e ciò che si spegne. È il gusto del pane carasau che ancora troviamo sulle nostre tavole, ma anche la sostituzione del lavoro comunitario con la precarietà importata da modelli economici esterni. È il senso di ospitalità e solidarietà che ci appartiene, ma anche la rassegnazione davanti alle decisioni prese altrove. È il canto delle launeddas che pochi sanno ancora suonare, ma che vibra nelle feste quando qualcuno lo riporta in vita. È la memoria delle lotte contadine, dei pastori che hanno resistito all’imposizione dei prezzi bassi, ma anche la fatica quotidiana di vedere i nostri giovani partire per cercare altrove ciò che qui non trovano.

Personalmente, io sento che la nostra cultura nazionale oggi è in bilico. Non è morta, ma non è pienamente viva. Non è distrutta, ma non è sovrana. È un insieme di frammenti che resistono, che sopravvivono nei gesti, nei riti, nelle parole di chi ancora crede. È come un corpo che respira a fatica, ma che non vuole arrendersi. E forse è proprio questa resistenza ostinata, questo rifiuto di morire, a definire la nostra identità.

Se guardo alla letteratura contemporanea sarda, vedo segnali forti: scrittori come Niffoi, Fois, Soriga hanno portato la Sardegna dentro la modernità senza rinunciare alla sua specificità. Nel cinema, registi come Mereu hanno raccontato storie che parlano a tutti, ma che nascono da radici profondamente sarde. Nella musica, artisti come Elena Ledda o i Tazenda hanno dimostrato che si può parlare al mondo partendo da un piccolo paese. Tutto questo mi dice che la cultura nazionale dei Sardi non è morta, è semmai in continua trasformazione. Ma resta il fatto che non c’è un riconoscimento pieno: ciò che è sardo viene sempre visto come “regionale”, come “locale”, mai come parte di una nazione con la sua dignità.

Ecco allora il vero nodo: la nostra cultura nazionale oggi consiste in una lotta per il riconoscimento. Non basta avere lingua, tradizioni, arte, memoria. Tutto questo rischia di essere ridotto a folklore se non c’è la coscienza politica e collettiva di essere nazione. Ed è proprio ciò che manca: una coscienza nazionale diffusa, condivisa, orgogliosa. Troppi sardi hanno interiorizzato il disprezzo coloniale, al punto da sentirsi quasi in imbarazzo a rivendicare la propria identità. È come se ci avessero convinto che siamo troppo piccoli per contare, troppo arretrati per essere protagonisti, troppo isolati per costruire da soli il nostro futuro.

Io non ci sto. Io penso che la cultura nazionale dei Sardi oggi sia fragile, certo, ma anche capace di rinascere. Penso che essa consista proprio nella possibilità di resistere ancora, di riprendersi uno spazio che non ci è stato mai davvero concesso. Non è un cammino semplice, e forse è più facile rassegnarsi. Ma io credo che dentro ogni festa paesana, in ogni anziano che parla sardo con il nipote, in ogni artista che canta la Sardegna nel mondo, ci sia una scintilla che tiene acceso il fuoco. È piccolo, ma c’è. E forse il nostro compito oggi è proprio quello di alimentarlo, di non lasciare che si spenga.

In fondo, la cultura nazionale dei Sardi oggi è questo: una memoria viva che sopravvive all’agonia, una identità che resiste ai margini, un orgoglio che ancora non ha trovato piena voce. Non è una cultura morta: è una cultura ferita, maltrattata, colonizzata. Ma proprio per questo è autentica, vera, dolorosamente vera. E chi la sente, la sente nel sangue.

Forse un giorno la Sardegna riuscirà a trasformare questa agonia in rinascita. Forse un giorno smetteremo di parlare solo di sopravvivenza e parleremo di piena fioritura. Io non so se sarò lì a vederlo, ma so che ogni volta che ascolto un canto a tenore, che respiro il vento di Maestrale, che parlo in sardo con qualcuno che capisce, io sento che quella cultura è ancora viva. E questo mi basta per continuare a crederci.























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