Riflessione sulla cultura nazionale che resiste all’agonia del dominio
Ci sono domande che fanno tremare, perché quando le pronunci ti accorgi
che non stai cercando una risposta oggettiva ma una confessione, una resa o
forse un atto d’amore. Una di queste domande è proprio questa: che cos’è, oggi,
la cultura nazionale dei Sardi? E quando me lo chiedo, sento dentro di me un
misto di orgoglio e di dolore, come se stessi rovistando tra le macerie di una
casa crollata per capire se ci sia ancora un tetto sotto cui ripararmi. Perché
sì, io sento che la mia terra ha una cultura nazionale, ma la percepisco
stanca, piegata, a tratti umiliata, trascinata in una agonia che non ha fine.
Un’agonia che non uccide ma non lascia vivere, che spegne senza estinguere, che
lascia tutto sospeso in una sopravvivenza amara.
Quando penso alla cultura dei Sardi, la prima
cosa che mi viene in mente non è un libro o un simbolo, ma il suono di una
lingua. Il sardo. Una lingua che per secoli ci hanno detto di nascondere, come
se fosse sporca, come se fosse sinonimo di ignoranza. Ricordo ancora gli
sguardi di chi, a scuola, rideva di chi usava il sardo nel cortile, e i maestri
che ci correggevano con severità, come se usare la lingua di nostra madre fosse
un difetto da estirpare. È qui che si consuma gran parte della nostra agonia:
una lingua antica, viva, dolce e dura allo stesso tempo, trattata come un
fastidio. Ma nonostante tutto resiste. Ogni volta che torno in paese, la sento
nelle piazze, nelle cucine, nei silenzi pieni di significato degli anziani. È
un sussurro che non muore, ma è come se vivesse in clandestinità. Una lingua
nazionale ridotta a dialetto, un cuore trasformato in ornamento. E mi chiedo:
come possiamo sentirci davvero popolo se la lingua che ci unisce viene ridotta a
folclore o a curiosità etnografica?
Eppure la cultura nazionale non è solo
lingua. È anche memoria, ed è proprio lì che si sente il peso coloniale. I
Sardi hanno memoria di dominazioni, di padroni che hanno estratto, sfruttato,
deciso al posto nostro. Aragonesi, spagnoli, piemontesi, italiani. Tutti hanno
preso, pochi hanno restituito. Le miniere abbandonate nel Sulcis, le basi
militari che occupano ancora oggi vaste porzioni di territorio, i pascoli
trasformati in aridi deserti, i boschi tagliati, le coste vendute al turismo di
massa. E noi? Noi a guardare, a subire, a piegarci. La cultura nazionale dei
Sardi oggi è anche questa: la coscienza amara di essere stati colonia, trattati
come terreno di conquista, e la rabbia silenziosa di non essere mai riusciti a
riprendere in mano fino in fondo il nostro destino.
Però non voglio ridurre tutto alla lamentela.
La cultura nazionale è anche ciò che resiste e ciò che si reinventa. Penso ai
canti a tenore, dichiarati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, eppure ancora
poco conosciuti persino da molti italiani. Quando li ascolto mi sembra di
sentire la voce della terra stessa: la polifonia ruvida, gutturale, sembra
nascere dalle pietre, dal vento, dal silenzio delle campagne. Non è solo
musica: è identità, è appartenenza. Allo stesso modo, la poesia improvvisata, i
mutetus, gli stornelli, che ancora oggi animano le feste paesane, sono
testimonianza di una vitalità che nessun colonialismo è riuscito a spegnere.
Sono forme di resistenza che vivono dentro i corpi, dentro le voci, più forti
di ogni legge che le voleva cancellare.
Ma poi guardo la realtà contemporanea e vedo
quanto sia fragile tutto questo. Vedo giovani che non conoscono più il sardo,
che magari ballano in discoteca con canzoni importate e non sanno nulla dei canti
delle loro nonne. Vedo una cultura che rischia di essere vissuta solo come
souvenir, come cartolina da vendere ai turisti. E mi arrabbio. Mi arrabbio
perché sento che ci stiamo lasciando rubare l’anima senza neppure rendercene
conto. L’agonia prolungata che viviamo sta tutta qui: abbiamo un patrimonio
gigantesco, ma lo trattiamo come un cimelio da museo, non come qualcosa che
pulsa nelle nostre vene.
Che cos’è, allora, oggi, la cultura nazionale
dei Sardi? Forse è proprio questo contrasto tra ciò che resiste e ciò che si
spegne. È il gusto del pane carasau che ancora troviamo sulle nostre tavole, ma
anche la sostituzione del lavoro comunitario con la precarietà importata da
modelli economici esterni. È il senso di ospitalità e solidarietà che ci appartiene,
ma anche la rassegnazione davanti alle decisioni prese altrove. È il canto
delle launeddas che pochi sanno ancora suonare, ma che vibra nelle feste quando
qualcuno lo riporta in vita. È la memoria delle lotte contadine, dei pastori
che hanno resistito all’imposizione dei prezzi bassi, ma anche la fatica
quotidiana di vedere i nostri giovani partire per cercare altrove ciò che qui
non trovano.
Personalmente, io sento che la nostra cultura
nazionale oggi è in bilico. Non è morta, ma non è pienamente viva. Non è
distrutta, ma non è sovrana. È un insieme di frammenti che resistono, che
sopravvivono nei gesti, nei riti, nelle parole di chi ancora crede. È come un
corpo che respira a fatica, ma che non vuole arrendersi. E forse è proprio
questa resistenza ostinata, questo rifiuto di morire, a definire la nostra
identità.
Se guardo alla letteratura contemporanea
sarda, vedo segnali forti: scrittori come Niffoi, Fois, Soriga hanno portato la
Sardegna dentro la modernità senza rinunciare alla sua specificità. Nel cinema,
registi come Mereu hanno raccontato storie che parlano a tutti, ma che nascono
da radici profondamente sarde. Nella musica, artisti come Elena Ledda o i
Tazenda hanno dimostrato che si può parlare al mondo partendo da un piccolo
paese. Tutto questo mi dice che la cultura nazionale dei Sardi non è morta, è
semmai in continua trasformazione. Ma resta il fatto che non c’è un
riconoscimento pieno: ciò che è sardo viene sempre visto come “regionale”, come
“locale”, mai come parte di una nazione con la sua dignità.
Ecco allora il vero nodo: la nostra cultura
nazionale oggi consiste in una lotta per il riconoscimento. Non basta avere
lingua, tradizioni, arte, memoria. Tutto questo rischia di essere ridotto a
folklore se non c’è la coscienza politica e collettiva di essere nazione. Ed è
proprio ciò che manca: una coscienza nazionale diffusa, condivisa, orgogliosa.
Troppi sardi hanno interiorizzato il disprezzo coloniale, al punto da sentirsi
quasi in imbarazzo a rivendicare la propria identità. È come se ci avessero
convinto che siamo troppo piccoli per contare, troppo arretrati per essere
protagonisti, troppo isolati per costruire da soli il nostro futuro.
Io non ci sto. Io penso che la cultura
nazionale dei Sardi oggi sia fragile, certo, ma anche capace di rinascere.
Penso che essa consista proprio nella possibilità di resistere ancora, di
riprendersi uno spazio che non ci è stato mai davvero concesso. Non è un
cammino semplice, e forse è più facile rassegnarsi. Ma io credo che dentro ogni
festa paesana, in ogni anziano che parla sardo con il nipote, in ogni artista
che canta la Sardegna nel mondo, ci sia una scintilla che tiene acceso il
fuoco. È piccolo, ma c’è. E forse il nostro compito oggi è proprio quello di
alimentarlo, di non lasciare che si spenga.
In fondo, la cultura nazionale dei Sardi oggi
è questo: una memoria viva
che sopravvive all’agonia, una identità che resiste ai margini,
un orgoglio che ancora non ha trovato piena voce. Non è una cultura morta: è
una cultura ferita, maltrattata, colonizzata. Ma proprio per questo è
autentica, vera, dolorosamente vera. E chi la sente, la sente nel sangue.
Forse un giorno la Sardegna riuscirà a
trasformare questa agonia in rinascita. Forse un giorno smetteremo di parlare
solo di sopravvivenza e parleremo di piena fioritura. Io non so se sarò lì a
vederlo, ma so che ogni volta che ascolto un canto a tenore, che respiro il
vento di Maestrale, che parlo in sardo con qualcuno che capisce, io sento che
quella cultura è ancora viva. E questo mi basta per continuare a crederci.


0 comments:
Posta un commento