Competere senza distruggere: perché l’umanità deve trasformare il conflitto in cooperazione per salvare sé stessa, la specie e la Terra.
C’è
un pensiero che mi accompagna da tempo: la guerra sembra ineliminabile dal
sistema. Ovunque guardi, trovo conflitto. Nella politica, nei rapporti sociali,
nelle famiglie, perfino dentro ciascuno di noi.
Chi, come me, agogna la
pace, e non solo quella tra gli Stati ma soprattutto quella sociale, viene
facilmente etichettato come “utopista”. Nel migliore dei casi. Altre volte, più
fanaticamente, si viene bollati come “filo-qualcosa”: filo-russo,
filo-americano, filo-dittatore, a seconda delle convenienze.
Sembra che la mente
umana, individuale e collettiva, abbia bisogno di avere sempre un nemico. Non
solo per difendersi, ma per esistere. Il nemico diventa un elemento
identitario: è la cornice dentro cui definiamo chi siamo.
Non è un pensiero
nuovo. Eraclito lo aveva intuito più di duemila anni fa, quando scriveva che Polemos,
il conflitto, è “padre di tutte le cose”. È il motore che disvela gli uni come
dei e gli altri come uomini, che rende alcuni schiavi e altri liberi.
Eppure lo stesso
Eraclito esaltava il logos, la ragione. Se il conflitto è padre di
tutto, la ragione dovrebbe essere la madre. Dovrebbe guidarci, aiutarci a
distinguere il bene dal male, il positivo dal negativo, permetterci di evitare
ciò che ci ferisce e di perseguire ciò che ci fa crescere.
La storia, purtroppo,
ci ha mostrato il contrario.
La psicoanalisi ha
fatto il resto. Freud, Jung, Lacan ci hanno ricordato che l’uomo è anche – e
forse soprattutto – un essere irrazionale. Le sue scelte non sono mai del tutto
consapevoli: sono condizionate da pulsioni che abitano l’inconscio, spesso in
conflitto tra loro. Dentro di noi convivono eros e thanatos, amore e morte,
costruzione e distruzione.
Questa tensione
interiore è la stessa che si proietta fuori di noi. È la radice delle guerre,
delle violenze, delle competizioni distruttive. Persino delle rivalità
familiari: Freud lo aveva descritto come “complesso di Edipo”.
Devo allora
rassegnarmi? È davvero inevitabile accettare che la guerra sia il destino
ultimo dell’uomo?
I realisti, quelli che
si vantano di “vedere il mondo com’è”, dicono di sì. È la natura umana,
ripetono. È sempre stato così, e sempre così sarà.
Io, invece, continuo a
dire di no. Non credo che la guerra sia una condanna scritta nella pietra.
Credo che esista un modo per incanalare l’energia del conflitto senza
distruggere.
La mia proposta è
semplice, anche se ambiziosa: competizione nella cooperazione.
Non si tratta di
eliminare il conflitto, ma di trasformarlo. È ciò che avviene nello sport: si
gareggia, ma non per sterminare l’avversario. Si compete per migliorarsi, per
spingersi oltre i propri limiti.
Immagino una società
che faccia lo stesso. Dove le nazioni competano non per conquistare territori
ma per salvare vite. Dove si misurino non per chi produce più armi ma per chi
riduce di più le emissioni di CO₂. Dove la rivalità si
giochi su chi ricostruisce più foreste, chi innova di più per proteggere la
biodiversità, chi salva più rifugiati dalle catastrofi climatiche.
Non è fantascienza. Lo
abbiamo già visto.
Quando un terremoto
devasta una regione, quando un’alluvione sommerge città intere, i popoli si
mobilitano. Persino i governi più ostili tra loro inviano aiuti, aprono
corridoi umanitari, mandano soccorsi. Per qualche settimana, la logica del
nemico lascia il posto alla logica della vita.
Perché non farlo
sempre?
Certo, questo richiede
un salto culturale. Occorre superare l’idea che la sicurezza consista
nell’avere un nemico. Franco Fornari, in un testo profetico come Psicoanalisi
della guerra atomica, lo aveva spiegato bene: la guerra,
paradossalmente, non serve tanto a difenderci da nemici reali, ma a inventarli.
È un meccanismo di difesa contro le nostre paure interiori, contro il
“Terrificante” che abita l’inconscio.
Il problema è che oggi
questo meccanismo è diventato letale. La guerra atomica non ha più una funzione
“curativa”: porterebbe solo all’autodistruzione totale. Non ci sarebbe un
vincitore e un vinto. Ci sarebbe il nulla.
Eppure assistiamo a
un’escalation militare che sembra cieca. La NATO, l’Unione Europea, gli Stati
Uniti e la Russia continuano ad alzare i toni. In Ucraina la guerra è già
realtà, e ogni giorno si parla di “linee rosse” che non devono essere superate,
come se bastasse un passo falso per innescare l’irreparabile.
Nel frattempo,
dall’altra parte del mondo, vediamo le stragi di civili nella Striscia di Gaza.
Donne, anziani, bambini che diventano danni collaterali. E una parte
dell’opinione pubblica che sembra quasi provare un piacere sadico nel vedere
l’annientamento del “nemico”.
Se c’è un effetto
positivo, è che questa crisi globale ci costringe a guardare in faccia il
problema. Ci obbliga a chiederci: chi sono i leader che ci guidano? In che
stato psicologico si trovano? Hanno l’equilibrio emotivo per reggere il peso
delle loro decisioni?
Non basta più valutarli
per le loro competenze politiche o gestionali. Dobbiamo chiederci quali traumi
portino dentro, quali ferite li muovano, quali ossessioni possano spingerli a
trascinarci nel baratro.
Umberto Galimberti ci
ricorda che la modernità è finita. Che siamo entrati in una fase nuova,
post-moderna, in cui non possiamo più affidarci a verità universali. Ma proprio
per questo abbiamo bisogno di un nuovo paradigma.
Non basta difendere i
confini delle nostre patrie. Dobbiamo difendere la Terra, che è l’unica patria
che abbiamo.
Serve una nuova etica
planetaria, capace di superare l’idea dello Stato come monopolio della
violenza. Un’etica che metta al centro la fratellanza – laica, universale – e
che riconosca che i beni del pianeta appartengono a tutta l’umanità.
La “competizione nella
cooperazione” potrebbe essere la norma etica di questa nuova era. Non più la
folle corsa agli armamenti, ma una corsa a chi salva più vite, a chi crea più
ponti di pace, a chi riduce di più le disuguaglianze.
È una sfida difficile,
certo. Ma non impossibile.
Epicuro diceva che la
felicità nasce dalla riduzione del dolore, dalla negazione di ciò che ci fa
soffrire. Freud, al contrario, sosteneva che al di là del principio di piacere
si trovano le pulsioni distruttive, che ci portano a cercare il dolore.
Forse è tempo di una
terapia nuova.
Non possiamo più curare
le nostre angosce con la guerra. Dobbiamo trovare un altro modo di dare sfogo
alle nostre paure, di trasformarle in energia creativa.
Dobbiamo riscrivere le
regole del gioco, sostituire la logica del nemico con quella della fratellanza.
Non per buonismo, ma per sopravvivenza.
Perché se la specie
umana scompare, non ci saranno più vincitori né vinti. Solo silenzio.


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