20 settembre 2025

Dalla logica del nemico alla logica della fratellanza

Competere senza distruggere: perché l’umanità deve trasformare il conflitto in cooperazione per salvare sé stessa, la specie e la Terra.


C’è un pensiero che mi accompagna da tempo: la guerra sembra ineliminabile dal sistema. Ovunque guardi, trovo conflitto. Nella politica, nei rapporti sociali, nelle famiglie, perfino dentro ciascuno di noi.

Chi, come me, agogna la pace, e non solo quella tra gli Stati ma soprattutto quella sociale, viene facilmente etichettato come “utopista”. Nel migliore dei casi. Altre volte, più fanaticamente, si viene bollati come “filo-qualcosa”: filo-russo, filo-americano, filo-dittatore, a seconda delle convenienze.

Sembra che la mente umana, individuale e collettiva, abbia bisogno di avere sempre un nemico. Non solo per difendersi, ma per esistere. Il nemico diventa un elemento identitario: è la cornice dentro cui definiamo chi siamo.

Non è un pensiero nuovo. Eraclito lo aveva intuito più di duemila anni fa, quando scriveva che Polemos, il conflitto, è “padre di tutte le cose”. È il motore che disvela gli uni come dei e gli altri come uomini, che rende alcuni schiavi e altri liberi.

Eppure lo stesso Eraclito esaltava il logos, la ragione. Se il conflitto è padre di tutto, la ragione dovrebbe essere la madre. Dovrebbe guidarci, aiutarci a distinguere il bene dal male, il positivo dal negativo, permetterci di evitare ciò che ci ferisce e di perseguire ciò che ci fa crescere.

La storia, purtroppo, ci ha mostrato il contrario.

La psicoanalisi ha fatto il resto. Freud, Jung, Lacan ci hanno ricordato che l’uomo è anche – e forse soprattutto – un essere irrazionale. Le sue scelte non sono mai del tutto consapevoli: sono condizionate da pulsioni che abitano l’inconscio, spesso in conflitto tra loro. Dentro di noi convivono eros e thanatos, amore e morte, costruzione e distruzione.

Questa tensione interiore è la stessa che si proietta fuori di noi. È la radice delle guerre, delle violenze, delle competizioni distruttive. Persino delle rivalità familiari: Freud lo aveva descritto come “complesso di Edipo”.

Devo allora rassegnarmi? È davvero inevitabile accettare che la guerra sia il destino ultimo dell’uomo?

I realisti, quelli che si vantano di “vedere il mondo com’è”, dicono di sì. È la natura umana, ripetono. È sempre stato così, e sempre così sarà.

Io, invece, continuo a dire di no. Non credo che la guerra sia una condanna scritta nella pietra. Credo che esista un modo per incanalare l’energia del conflitto senza distruggere.

La mia proposta è semplice, anche se ambiziosa: competizione nella cooperazione.

Non si tratta di eliminare il conflitto, ma di trasformarlo. È ciò che avviene nello sport: si gareggia, ma non per sterminare l’avversario. Si compete per migliorarsi, per spingersi oltre i propri limiti.

Immagino una società che faccia lo stesso. Dove le nazioni competano non per conquistare territori ma per salvare vite. Dove si misurino non per chi produce più armi ma per chi riduce di più le emissioni di CO. Dove la rivalità si giochi su chi ricostruisce più foreste, chi innova di più per proteggere la biodiversità, chi salva più rifugiati dalle catastrofi climatiche.

Non è fantascienza. Lo abbiamo già visto.

Quando un terremoto devasta una regione, quando un’alluvione sommerge città intere, i popoli si mobilitano. Persino i governi più ostili tra loro inviano aiuti, aprono corridoi umanitari, mandano soccorsi. Per qualche settimana, la logica del nemico lascia il posto alla logica della vita.

Perché non farlo sempre?

Certo, questo richiede un salto culturale. Occorre superare l’idea che la sicurezza consista nell’avere un nemico. Franco Fornari, in un testo profetico come Psicoanalisi della guerra atomica, lo aveva spiegato bene: la guerra, paradossalmente, non serve tanto a difenderci da nemici reali, ma a inventarli. È un meccanismo di difesa contro le nostre paure interiori, contro il “Terrificante” che abita l’inconscio.

Il problema è che oggi questo meccanismo è diventato letale. La guerra atomica non ha più una funzione “curativa”: porterebbe solo all’autodistruzione totale. Non ci sarebbe un vincitore e un vinto. Ci sarebbe il nulla.

Eppure assistiamo a un’escalation militare che sembra cieca. La NATO, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Russia continuano ad alzare i toni. In Ucraina la guerra è già realtà, e ogni giorno si parla di “linee rosse” che non devono essere superate, come se bastasse un passo falso per innescare l’irreparabile.

Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, vediamo le stragi di civili nella Striscia di Gaza. Donne, anziani, bambini che diventano danni collaterali. E una parte dell’opinione pubblica che sembra quasi provare un piacere sadico nel vedere l’annientamento del “nemico”.

Se c’è un effetto positivo, è che questa crisi globale ci costringe a guardare in faccia il problema. Ci obbliga a chiederci: chi sono i leader che ci guidano? In che stato psicologico si trovano? Hanno l’equilibrio emotivo per reggere il peso delle loro decisioni?

Non basta più valutarli per le loro competenze politiche o gestionali. Dobbiamo chiederci quali traumi portino dentro, quali ferite li muovano, quali ossessioni possano spingerli a trascinarci nel baratro.

Umberto Galimberti ci ricorda che la modernità è finita. Che siamo entrati in una fase nuova, post-moderna, in cui non possiamo più affidarci a verità universali. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di un nuovo paradigma.

Non basta difendere i confini delle nostre patrie. Dobbiamo difendere la Terra, che è l’unica patria che abbiamo.

Serve una nuova etica planetaria, capace di superare l’idea dello Stato come monopolio della violenza. Un’etica che metta al centro la fratellanza – laica, universale – e che riconosca che i beni del pianeta appartengono a tutta l’umanità.

La “competizione nella cooperazione” potrebbe essere la norma etica di questa nuova era. Non più la folle corsa agli armamenti, ma una corsa a chi salva più vite, a chi crea più ponti di pace, a chi riduce di più le disuguaglianze.

È una sfida difficile, certo. Ma non impossibile.

Epicuro diceva che la felicità nasce dalla riduzione del dolore, dalla negazione di ciò che ci fa soffrire. Freud, al contrario, sosteneva che al di là del principio di piacere si trovano le pulsioni distruttive, che ci portano a cercare il dolore.

Forse è tempo di una terapia nuova.

Non possiamo più curare le nostre angosce con la guerra. Dobbiamo trovare un altro modo di dare sfogo alle nostre paure, di trasformarle in energia creativa.

Dobbiamo riscrivere le regole del gioco, sostituire la logica del nemico con quella della fratellanza. Non per buonismo, ma per sopravvivenza.

Perché se la specie umana scompare, non ci saranno più vincitori né vinti. Solo silenzio.

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