20 settembre 2025

Chi sono? Una riflessione a settantadue anni

 Meditazione personale sul senso della vita, dell’identità e del ritorno all’Uno.


Ho settantadue anni.
È un’età in cui le domande diventano più insistenti.
Quando si è giovani si pensa di avere davanti un tempo infinito, ma a un certo punto della vita ci si accorge che quel tempo non è poi così vasto.

Ed è allora che riaffiorano le domande più antiche:
Chi sono?
Da dove vengo?
Dove sto andando?

Non sono domande che appartengono solo ai filosofi.
Le ho sentite anche pronunciare, in silenzio, da persone semplici, da chi sembra preoccuparsi soltanto di riempire la giornata di lavoro e di piccoli piaceri.
Prima o poi arrivano per tutti.

Perché arriva sempre un momento in cui ci si deve fermare.
La malattia di un amico, la perdita di un familiare, un improvviso colpo di fragilità, e la vita ti mette davanti allo specchio.
Ti chiede di guardarti davvero, senza le maschere che hai indossato per decenni.

Io di maschere ne ho indossate parecchie.
Per anni mi sono identificato con ciò che facevo, con il ruolo che occupavo nella società, con la funzione che esercitavo.
Ho creduto che il mio valore fosse legato alle responsabilità che mi venivano affidate e al rispetto che gli altri mi riconoscevano.

Ma, con il passare del tempo, ho capito che tutto questo era fragile.
Bastava un cambiamento, un pensionamento, un capovolgimento delle circostanze per sentirmi improvvisamente nudo.
Come se il mio “io” fosse svanito insieme al ruolo che mi aveva definito per anni.

È allora che ho compreso: non sono quello che faccio.
Non sono una professione, un titolo, una carica.
Sono qualcosa di più profondo, qualcosa che non può essere scritto in un documento d’identità.

Arrivare a questa consapevolezza è stato doloroso.
È come togliersi una pelle che ti ha protetto per decenni.
Ma è stato anche liberatorio.
Perché mi ha permesso di guardare me stesso senza più l’illusione di coincidere con la mia “recita sociale”.

Ho capito che le catene più difficili da spezzare non sono quelle politiche o giuridiche, ma quelle che ci imprigionano dentro.
Catene culturali, familiari, morali, religiose.
Sono quelle che ci fanno credere di essere liberi mentre ci tengono ancorati a schemi che non abbiamo scelto davvero.

Oggi, a settantadue anni, sento il bisogno di svuotare la mente.
Di liberarmi da tutte le sovrastrutture che la società mi ha imposto.
Di guardare le cose come se le vedessi per la prima volta, senza i filtri delle tradizioni, delle abitudini, delle ideologie.

È un esercizio difficile.
Soprattutto perché le abitudini si sono stratificate negli anni.
Ma è l’unico modo per provare ad avvicinarmi alla verità di me stesso.

Ho visto in passato uomini potenti comportarsi come se fossero sacri, come se la loro persona coincidesse con la funzione che ricoprivano.
Alcuni si sentivano inviolabili, intoccabili, come i re dello Statuto Albertino, che li proclamava “sacri e inviolabili”.
Oggi non ci sono più re, ma non è scomparsa la tentazione di sentirsi superiori agli altri.

Io stesso, lo ammetto, a volte ho ceduto a questa tentazione.
Quando avevo un ruolo importante, mi piaceva pensare che fosse ciò che mi definiva.
Ma col tempo ho capito che quella era solo una maschera.
Sotto restava l’uomo, con le sue fragilità, i suoi timori, la sua irriducibile mortalità.

Perché la verità è che siamo tutti mortali.
E questa verità è difficile da accettare.
Per anni ho cercato di dimenticarla, di rimuoverla.
Ma a quest’età non posso più farlo.
La morte non è un pensiero astratto, è una presenza che sento vicina.

E non la vedo più come un nemico, ma come una compagna di viaggio che mi ricorda che il tempo è prezioso.
Che ogni giorno ha un valore, proprio perché non è infinito.

Nietzsche diceva che l’uomo è un ponte, non un fine.
Oggi sento che aveva ragione.
La mia vita è stata un passaggio, un percorso, un ponte verso qualcosa di altro.
Non so se arriverò mai al “superuomo”, ma so che devo continuare a superare me stesso.

Accettare la transitorietà della mia forma è la sfida più grande.
Il corpo che ho oggi non è quello che avevo a vent’anni, né quello che avrò tra dieci, se ci arriverò.
Ogni fase della vita è stata un cambiamento di forma, e ogni volta ho dovuto lasciare andare qualcosa.

Ma questa trasformazione non è una perdita: è parte del gioco.
La natura è trasformazione continua.
Gli atomi che mi compongono sono gli stessi che componevano altri uomini, altri animali, altre piante.
Sono gli stessi che comporranno altre forme quando io non ci sarò più.

Pensare a questo mi dà serenità.
Mi fa capire che non sparirò davvero: mi trasformerò.
Ritornerò al ciclo, come ogni cosa.

Anche l’uguaglianza, a quest’età, la vedo in modo diverso.
Non significa omologazione.
Siamo uguali perché siamo tutti parte dello stesso destino, fatti della stessa materia.
Ma siamo diversi nelle forme, nelle vocazioni, nei talenti.

Questa diversità è la vera ricchezza dell’umanità.
Non siamo chiamati a essere tutti uguali, ma a essere ciascuno se stesso, fino in fondo.
A contribuire con la nostra singolarità al bene comune.

Ho capito anche che l’Io da solo non basta.
Per anni ho detto “Io”, ho pensato “Io”, ho vissuto per l’Io.
Ma l’Io isolato è sterile.
Solo quando ho imparato a dire “Noi” ho trovato un senso più grande.

Perché siamo sempre in relazione.
Con i nostri cari, con la società, con l’universo intero.
Non esistiamo senza gli altri.
Non esistiamo senza l’ambiente che ci sostiene, senza la rete invisibile che ci nutre e ci collega.

Questa consapevolezza mi rende più cauto quando vedo politici, leader o poteri forti che parlano solo di sé stessi.
Quando un uomo dice “Io” e basta, sento odore di tirannia.
Perché dimenticare il Noi significa preparare la strada alla solitudine, all’ingiustizia, alla guerra.

Ho vissuto abbastanza per sapere che il dolore è parte della vita.
Che non si può eliminarlo del tutto, ma si può imparare a dargli un senso.
Il dolore ci ricorda che siamo vivi.
Che facciamo parte di un ciclo che comprende la gioia e la sofferenza, il piacere e la perdita.

Accettare questo mi ha insegnato a vivere meglio.
Mi ha insegnato a non sprecare tempo dietro a rancori inutili, a non accumulare rabbia, a non farmi consumare dall’odio.

Quando arriverà il momento di lasciare questa forma, voglio farlo senza paura.
Con gratitudine per ciò che ho vissuto e per ciò che ancora potrò vivere fino all’ultimo respiro.

Chi sono, allora, a settantadue anni?
Sono un uomo che ha smesso di identificarsi solo con il suo mestiere, con la sua storia, con la sua immagine.
Sono un essere che cerca di stare in relazione con gli altri, con la natura, con il mistero.
Sono un frammento di infinito che ha preso forma per un tempo limitato, e che un giorno tornerà al Tutto.

Da dove vengo?
Vengo dall’infinito.
Dall’energia che ha generato stelle, pianeti, galassie.
Dalla stessa materia che ha dato vita a chi mi ha preceduto.

Dove vado?
Vado nello stesso luogo.
Torno al ciclo, al movimento eterno che genera e rigenera tutte le cose.

E se questa consapevolezza mi rende meno incline a divinizzare qualcuno, è perché capisco che nessuno è davvero speciale, e al tempo stesso tutti lo siamo.
Ognuno è unico, ma nessuno è al di sopra della legge della vita.

A settantadue anni sento che il mio compito è lasciare qualcosa di buono.
Un gesto, un esempio, una parola che aiuti chi verrà dopo di me a vivere meglio, a non ripetere certi errori, a coltivare la speranza.

Non so se ci riuscirò, ma so che vale la pena provarci.
Perché se la vita è relazione, allora ciò che semino oggi continuerà a vivere anche quando io non ci sarò più.

Ed è questo che, alla fine, dà senso al mio tempo sulla Terra.








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