Devo dirlo senza giri
di parole: il cosiddetto “campo largo” della sinistra italiana è per me la
fotografia perfetta della decadenza politica del nostro Paese. Non solo perché
dietro quell’espressione si nasconde il nulla, ma anche perché da quella parte
politica è arrivata negli ultimi anni una maleducazione costante, un linguaggio volgare e offensivo,
soprattutto quando si tratta di colpire gli avversari. In particolare Giorgia
Meloni, che sarà pure la leader della destra, ma che è stata trasformata in un
bersaglio costante di insulti e disprezzo personale.
Se
penso a cosa dovrebbe essere la politica, immagino confronto, anche duro, ma
basato su idee e contenuti. Se guardo invece al modo in cui molti esponenti
della sinistra — e purtroppo anche troppi simpatizzanti — parlano, vedo solo arroganza, maleducazione,
attacchi personali. È il segno di una politica povera, di chi
non ha argomenti e prova a compensare con l’insulto.
Trent’anni di
smarrimento
Non
mi stancherò di ripeterlo: tutto questo nasce da lontano. La sinistra italiana
ha perso la bussola con la fine del PCI e non l’ha più ritrovata. Da allora è
stato un susseguirsi di sigle, fusioni, scissioni, correnti. PDS, DS, PD: ogni
passaggio venduto come “svolta storica”, ma in realtà sempre lo stesso
compromesso fragile.
Questa
fragilità ha prodotto una classe dirigente debole, priva di identità. E quando
non si hanno idee forti, spesso si finisce a urlare, a insultare, a demonizzare
l’avversario. In fondo è più facile dire “Meloni fascista” che proporre un
piano serio per il lavoro, l’energia, la scuola.
Prodi e
l’illusione dell’Ulivo
Ricordo
bene quando Romano Prodi riuscì a tenere insieme l’Ulivo. Fu il primo vero
esperimento di “campo largo”, e funzionò per un po’. Ma anche lì emerse il
difetto genetico: divisioni
interne, veti incrociati, guerre di posizione. E accanto ai
litigi politici, già allora c’era chi usava l’insulto per delegittimare
l’avversario.
Prodi
vinse due volte, ma fu mandato a casa due volte. Non solo per colpa sua: fu
tradito dai suoi stessi alleati, logorato da chi preferiva distruggere
piuttosto che costruire.
Il PD e la
mediocrità come regola
Con
il Partito Democratico, la mediocrità è diventata sistema. Un partito incapace
di dire chiaro da che parte sta: cattolico o socialista? Riformista o
populista? Di governo o di protesta? Nessuno lo sa. E in questa confusione, a
mancare sono state soprattutto le idee.
Così,
mentre il centrodestra costruiva narrazioni semplici ma efficaci, il PD si è
rifugiato in un linguaggio sempre più aggressivo. Non convincere con argomenti, ma colpire con
etichette: “fascisti”, “razzisti”, “sessisti”. Ecco il
vocabolario quotidiano. Parole usate non per spiegare, ma per insultare.
Il “campo
largo”: somma di debolezze
E
arriviamo all’oggi. Il “campo largo” non è un progetto, è una somma di debolezze.
PD, M5S, Verdi, Sinistra Italiana: sigle che non condividono nulla se non
l’odio per la destra. Non c’è una visione comune, non c’è un programma, non c’è
un leader riconosciuto.
E
qui sta il problema: se l’unico collante è l’avversione per l’avversario, è
inevitabile che il linguaggio si riduca a questo. Non si parla di proposte, si
parla di “fermare Meloni”. Non si spiega come affrontare la crisi economica, si
grida “pericolo fascismo”. È un linguaggio di paura e di odio, non di
costruzione.
La maleducazione
come stile politico
Negli
ultimi anni ho visto un degrado impressionante del linguaggio politico a
sinistra. Giorgia Meloni è stata chiamata in tutti i modi: “pesciaiola”,
“borgatara”, “pseudodonna”, “mamma solo di facciata”. L’hanno insultata per
l’accento, per l’aspetto fisico, per la sua vita privata.
Non
mi interessa se uno è di destra o di sinistra: questo è sessismo puro, ed
è vergognoso che arrivi proprio da chi si riempie la bocca con parole come
“parità” e “diritti delle donne”. È un doppio standard intollerabile: se
insulti una donna di sinistra, sei sessista; se insulti Meloni, sei spiritoso.
Ho
sentito leader di partito, non semplici utenti anonimi, usare parole indegne. Da
“mostro” a “burattina”, da “strega” a “nemica delle donne”. Ho visto vignette e
meme che la rappresentavano in modo volgare, spesso con allusioni sessuali.
Tutto questo non è politica: è solo volgarità travestita da ironia.
Il paradosso dei
“buoni”
Il
paradosso più grande è che la sinistra continua a presentarsi come il fronte
“civile”, “educato”, “democratico”. In realtà, negli ultimi anni si è
trasformata in un fronte
arrogante, maleducato e intollerante. Basta non pensarla come
loro per essere insultati: se sei contrario al ddl Zan sei “omofobo”, se
critichi il reddito di cittadinanza sei “nemico dei poveri”, se non sei
allineato sull’immigrazione sei “razzista”.
Io
mi chiedo: è questa la civiltà democratica di cui parlano? Non è confronto, è
demonizzazione. Non è politica, è scontro tribale.
La lezione
dimenticata
Io
sono convinto che una parte della crisi della sinistra sia proprio qui: nel
linguaggio. Se per anni tratti il tuo avversario come un nemico da disprezzare,
non puoi poi stupirti se milioni di italiani scelgono di votarlo. Le persone
non amano sentirsi dire che sono “fascisti” solo perché hanno idee diverse. Non
accettano di essere trattate da ignoranti o retrograde solo perché non
condividono l’agenda progressista.
La
sinistra, con la sua maleducazione dilagante, ha costruito da sola il consenso di Meloni.
Ogni insulto, ogni etichetta, ogni parola offensiva ha reso più forte il
messaggio di Giorgia: “loro vi disprezzano, io vi ascolto”.
Schlein e il
rischio del radicalismo elitario
Con
Elly Schlein alla guida del PD, questo rischio aumenta. La segretaria ha un
profilo diverso, più giovane e più radicale, ma continua a usare un linguaggio
divisivo. Difende battaglie giuste — femminismo, diritti civili, ambiente — ma
lo fa spesso in modo ideologico, parlando come se chi non fosse d’accordo fosse
automaticamente un “nemico”.
Il
risultato? Un partito che si chiude in una nicchia urbana e radical chic,
lontano dal Paese reale. E in questo isolamento, l’unico modo per sentirsi vivi
è continuare ad attaccare l’avversario. Ancora una volta, più insulti che
proposte.
Conclusione:
perché non credo al “campo largo”
Ecco
perché io non credo al “campo largo”. Non è solo una formula vuota: è diventata
una fabbrica di odio verbale e
maleducazione politica. È la dimostrazione di un’area che non
ha idee e che quindi si limita a insultare l’avversario.
Meloni
si può criticare, e anzi si deve criticare, come ogni leader politico. Ma si
deve fare con argomenti, non con insulti sessisti. Si deve fare con proposte
alternative, non con etichette. Finché la sinistra continuerà a usare il
linguaggio dell’odio e della superiorità morale, continuerà a perdere.
La
politica dovrebbe unire, spiegare, convincere. Il “campo largo” invece divide,
offende, urla. Per questo, da cittadino, da osservatore, da persona che ha
sperato in una sinistra migliore, dico con amarezza: non ci credo più.
Non
ci credo perché ho visto la deriva culturale, l’arroganza, la mediocrità. Non
ci credo perché so che dietro la retorica del “campo largo” non c’è un progetto
di Paese, ma solo un esercizio di sopravvivenza. Non ci credo perché so che
finché il linguaggio sarà fatto di insulti e disprezzo, non nascerà mai nulla
di buono.
E
allora sì, continuerò a guardare con delusione e anche con rabbia, perché la
verità è semplice e dura: la sinistra italiana non ha perso solo le elezioni, ha perso la misura,
il rispetto e la dignità del confronto politico.


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