Dalle occupazioni abusive al carcere, dai decreti sicurezza alle periferie: una politica che non costruisce nulla, ma si limita a demolire con slogan ideologici.
Ho
visto passare tanti volti nella politica italiana. Ho ascoltato comizi
infuocati, dichiarazioni roboanti, promesse che sembravano rivoluzioni e che
poi si sono sciolte come neve al sole. Con l’età impari a riconoscere i
copioni, a distinguere chi parla per proporre e chi parla solo per demolire. E
guardando Ilaria Salis, oggi, non posso che vederla nel secondo gruppo.
Questa giovane donna,
assurta in pochi mesi al rango di simbolo di battaglie civili e diritti negati,
è in realtà l’espressione più cristallina di un’antipolitica che si traveste da
militanza. Un’antipolitica che non costruisce, che non cerca soluzioni, che non
si sporca le mani con la fatica dei compromessi. Una voce che conosce una sola
parola: “no”.
Quando
sento parlare Salis, riconosco lo schema che ho già visto mille volte negli
anni Settanta, negli Ottanta, e perfino negli anni di piombo. È il linguaggio
dell’antagonismo: lo Stato è sempre il nemico, le istituzioni sono sempre
corrotte o oppressive, le leggi sono sempre strumenti di repressione.
Non c’è spazio per
sfumature. Non c’è spazio per la complessità. Non c’è spazio per la
responsabilità individuale.
Prendiamo
il Decreto
Sicurezza 2025, uno dei temi su cui Salis si è scagliata con
più veemenza. Un provvedimento che, piaccia o non piaccia, nasce da richieste
concrete: pene più severe per chi aggredisce forze dell’ordine, maggiori tutele
per gli anziani truffati, norme più chiare contro le occupazioni abusive. Io
stesso, che ho l’età per ricordare quando il quartiere era un luogo di comunità
e non di paura, so bene che questi problemi non sono invenzioni della
propaganda. Sono ferite vere, che segnano la vita quotidiana delle persone comuni.
Eppure Salis liquida
tutto con una frase: “coacervo di norme liberticide”. Eccolo, il solito slogan.
Non una parola sul pensionato che perde i risparmi di una vita perché raggirato
da criminali. Non un pensiero per la giovane agente di polizia che rischia la
pelle in strada. Non un cenno ai cittadini che si trovano la casa occupata da
estranei. Tutto ridotto a una formula ideologica: repressione.
Mi
chiedo: possibile che una parlamentare europea non riesca a distinguere tra un
diritto e un abuso? Tra la tutela di chi subisce e la punizione di chi infrange
la legge? È davvero questo il livello del dibattito?
Per Salis,
evidentemente sì. Perché la sua bussola non è la realtà, ma il pregiudizio. E
il pregiudizio dice che se una legge la propone Meloni, allora è fascista,
repressiva, violenta.
Il
discorso diventa ancora più rivelatore quando si parla di occupazioni
abusive. Qui Salis mostra tutta la sua coerenza ideologica, nel
senso peggiore del termine. Non è un segreto che lei abbia militato nei
movimenti per la casa e che rivendichi con orgoglio quell’esperienza.
Ora, io ho vissuto gli
anni in cui le case popolari erano davvero poche, e so che il diritto
all’abitare è un tema serio, serissimo. Ma so anche che c’è una differenza
enorme tra chiedere più alloggi sociali e difendere chi forza la porta di un
appartamento. La prima è una battaglia politica legittima, la seconda è un atto
illegale.
Salis, invece, mescola
tutto. Parla di “criminalizzazione del disagio”, di “vergogna che ci siano case
vuote e persone senza casa”. Certo, lo dice con passione, ma dimentica chi
quella casa vuota magari l’ha ereditata, chi ci ha risparmiato per anni, chi si
trova improvvisamente privato della sua proprietà. Nella sua narrazione non
esistono. Spariscono. Le vittime non contano.
È
un ribaltamento che ho già visto tante volte: il colpevole trasformato in eroe,
la legge trasformata in oppressione, la vittima ridotta al silenzio. È lo
stesso schema degli anni in cui si giustificava ogni illegalità con la scusa
della “lotta al sistema”.
Ma il risultato, allora
come oggi, è solo caos.
Poi
c’è il capitolo carceri e Decreto Caivano. Qui la retorica
di Salis raggiunge livelli quasi caricaturali. Quando il governo decide di
intervenire sui minori recidivi, dopo episodi gravissimi di violenza nelle
periferie, lei parla di “modello repressivo e violento”.
Io le periferie le ho
viste crescere e degradarsi, ho visto interi quartieri cadere nelle mani della
microcriminalità. Ho visto ragazzini di tredici anni girare armati. Dire che lo
Stato non deve intervenire con strumenti più forti significa condannare chi in
quei quartieri ci vive e non ha alternative.
Ma Salis non parla di
loro. Parla dei ragazzi arrestati, mai delle famiglie che subiscono. Parla di
repressione, mai di protezione. Parla di carcere come gabbia, mai come
deterrente.
La
verità è che la sua visione è sempre e solo una: il detenuto è una vittima del
sistema, il criminale è frutto dell’ingiustizia sociale, lo Stato è un
carnefice. Una semplificazione che può scaldare i cuori di qualche
manifestante, ma che non risolve nulla.
E
così torniamo al punto: la politica di Ilaria Salis non è fatta di proposte, ma
di demolizioni. Ogni volta che il governo mette mano a un provvedimento, lei è
pronta con l’aggettivo: “repressivo”, “fascista”, “liberticida”. È un
repertorio di slogan che conosciamo a memoria.
Eppure, quando arriva
il momento di dire cosa fare al posto di quelle leggi, il silenzio è
assordante. Perché proporre è difficile, richiede studio, compromessi, capacità
di ascolto. Urlare, invece, è facile.
La
differenza la vedo chiaramente perché ho vissuto i decenni in cui l’Italia
cercava di ricostruirsi, di trovare un equilibrio tra diritti e doveri. Ricordo
le lotte sindacali che chiedevano case popolari, ma lo facevano rispettando la
legge. Ricordo politici che sapevano dire “no” ma sapevano anche presentare
alternative credibili.
Oggi, invece, vedo una
politica che si riduce a megafono di un antagonismo sterile. E Ilaria Salis ne
è la rappresentazione perfetta.
Non
fraintendetemi: criticare il governo è legittimo, sacrosanto. Anch’io, che non
ho mai avuto tessere di partito, ho criticato governi di ogni colore. Ma la
critica deve essere accompagnata da una proposta, da un’alternativa. Altrimenti
resta solo rabbia sterile.
Salis, invece, sembra
vivere solo di quella rabbia. Ogni sua uscita è un atto d’accusa, mai un
contributo. Ogni parola è un dito puntato, mai una mano tesa.
Forse
è anche una questione generazionale. Io appartengo a una generazione che ha
conosciuto la fame, che ha visto la guerra e la ricostruzione. Per noi la legge
era fatica, sacrificio, ordine. Per molti giovani politici di oggi, la legge è
solo un ostacolo, una gabbia, qualcosa da abbattere.
Ma senza regole non c’è
società. Senza responsabilità non c’è libertà. E senza la capacità di
distinguere tra chi subisce e chi aggredisce, tra chi rispetta e chi viola, non
c’è giustizia.
Ilaria
Salis ha scelto di incarnare la pasionaria del “no” perpetuo. Non importa quale
sia il tema: sicurezza, carceri, occupazioni. Lei dirà sempre che è
repressione. È un ruolo comodo, perché non richiede di sporcarsi le mani con la
realtà. È un ruolo che attira applausi facili e titoli di giornale.
Ma è anche un ruolo
inutile, se non dannoso. Perché il Paese ha bisogno di chi costruisce, non di
chi smonta. Ha bisogno di soluzioni, non di slogan. Ha bisogno di politici che
parlino ai cittadini, non di tribuni che parlino contro lo Stato.
Guardando
Salis, io non vedo il futuro. Vedo un passato che ritorna, con gli stessi
errori e le stesse illusioni. Vedo una politica che si nutre di conflitto senza
offrire speranza. Vedo un volto giovane che recita un copione vecchio.
E a chi, come me, ha
vissuto abbastanza per conoscere il valore della stabilità, tutto questo appare
non come una rivoluzione, ma come una stanca ripetizione.


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