24 settembre 2025

Ilaria Salis, la pasionaria del “no” perpetuo

Dalle occupazioni abusive al carcere, dai decreti sicurezza alle periferie: una politica che non costruisce nulla, ma si limita a demolire con slogan ideologici.


Ho visto passare tanti volti nella politica italiana. Ho ascoltato comizi infuocati, dichiarazioni roboanti, promesse che sembravano rivoluzioni e che poi si sono sciolte come neve al sole. Con l’età impari a riconoscere i copioni, a distinguere chi parla per proporre e chi parla solo per demolire. E guardando Ilaria Salis, oggi, non posso che vederla nel secondo gruppo.

Questa giovane donna, assurta in pochi mesi al rango di simbolo di battaglie civili e diritti negati, è in realtà l’espressione più cristallina di un’antipolitica che si traveste da militanza. Un’antipolitica che non costruisce, che non cerca soluzioni, che non si sporca le mani con la fatica dei compromessi. Una voce che conosce una sola parola: “no”.

Quando sento parlare Salis, riconosco lo schema che ho già visto mille volte negli anni Settanta, negli Ottanta, e perfino negli anni di piombo. È il linguaggio dell’antagonismo: lo Stato è sempre il nemico, le istituzioni sono sempre corrotte o oppressive, le leggi sono sempre strumenti di repressione.

Non c’è spazio per sfumature. Non c’è spazio per la complessità. Non c’è spazio per la responsabilità individuale.

Prendiamo il Decreto Sicurezza 2025, uno dei temi su cui Salis si è scagliata con più veemenza. Un provvedimento che, piaccia o non piaccia, nasce da richieste concrete: pene più severe per chi aggredisce forze dell’ordine, maggiori tutele per gli anziani truffati, norme più chiare contro le occupazioni abusive. Io stesso, che ho l’età per ricordare quando il quartiere era un luogo di comunità e non di paura, so bene che questi problemi non sono invenzioni della propaganda. Sono ferite vere, che segnano la vita quotidiana delle persone comuni.

Eppure Salis liquida tutto con una frase: “coacervo di norme liberticide”. Eccolo, il solito slogan. Non una parola sul pensionato che perde i risparmi di una vita perché raggirato da criminali. Non un pensiero per la giovane agente di polizia che rischia la pelle in strada. Non un cenno ai cittadini che si trovano la casa occupata da estranei. Tutto ridotto a una formula ideologica: repressione.

Mi chiedo: possibile che una parlamentare europea non riesca a distinguere tra un diritto e un abuso? Tra la tutela di chi subisce e la punizione di chi infrange la legge? È davvero questo il livello del dibattito?

Per Salis, evidentemente sì. Perché la sua bussola non è la realtà, ma il pregiudizio. E il pregiudizio dice che se una legge la propone Meloni, allora è fascista, repressiva, violenta.

Il discorso diventa ancora più rivelatore quando si parla di occupazioni abusive. Qui Salis mostra tutta la sua coerenza ideologica, nel senso peggiore del termine. Non è un segreto che lei abbia militato nei movimenti per la casa e che rivendichi con orgoglio quell’esperienza.

Ora, io ho vissuto gli anni in cui le case popolari erano davvero poche, e so che il diritto all’abitare è un tema serio, serissimo. Ma so anche che c’è una differenza enorme tra chiedere più alloggi sociali e difendere chi forza la porta di un appartamento. La prima è una battaglia politica legittima, la seconda è un atto illegale.

Salis, invece, mescola tutto. Parla di “criminalizzazione del disagio”, di “vergogna che ci siano case vuote e persone senza casa”. Certo, lo dice con passione, ma dimentica chi quella casa vuota magari l’ha ereditata, chi ci ha risparmiato per anni, chi si trova improvvisamente privato della sua proprietà. Nella sua narrazione non esistono. Spariscono. Le vittime non contano.

È un ribaltamento che ho già visto tante volte: il colpevole trasformato in eroe, la legge trasformata in oppressione, la vittima ridotta al silenzio. È lo stesso schema degli anni in cui si giustificava ogni illegalità con la scusa della “lotta al sistema”.

Ma il risultato, allora come oggi, è solo caos.

Poi c’è il capitolo carceri e Decreto Caivano. Qui la retorica di Salis raggiunge livelli quasi caricaturali. Quando il governo decide di intervenire sui minori recidivi, dopo episodi gravissimi di violenza nelle periferie, lei parla di “modello repressivo e violento”.

Io le periferie le ho viste crescere e degradarsi, ho visto interi quartieri cadere nelle mani della microcriminalità. Ho visto ragazzini di tredici anni girare armati. Dire che lo Stato non deve intervenire con strumenti più forti significa condannare chi in quei quartieri ci vive e non ha alternative.

Ma Salis non parla di loro. Parla dei ragazzi arrestati, mai delle famiglie che subiscono. Parla di repressione, mai di protezione. Parla di carcere come gabbia, mai come deterrente.

La verità è che la sua visione è sempre e solo una: il detenuto è una vittima del sistema, il criminale è frutto dell’ingiustizia sociale, lo Stato è un carnefice. Una semplificazione che può scaldare i cuori di qualche manifestante, ma che non risolve nulla.

E così torniamo al punto: la politica di Ilaria Salis non è fatta di proposte, ma di demolizioni. Ogni volta che il governo mette mano a un provvedimento, lei è pronta con l’aggettivo: “repressivo”, “fascista”, “liberticida”. È un repertorio di slogan che conosciamo a memoria.

Eppure, quando arriva il momento di dire cosa fare al posto di quelle leggi, il silenzio è assordante. Perché proporre è difficile, richiede studio, compromessi, capacità di ascolto. Urlare, invece, è facile.

La differenza la vedo chiaramente perché ho vissuto i decenni in cui l’Italia cercava di ricostruirsi, di trovare un equilibrio tra diritti e doveri. Ricordo le lotte sindacali che chiedevano case popolari, ma lo facevano rispettando la legge. Ricordo politici che sapevano dire “no” ma sapevano anche presentare alternative credibili.

Oggi, invece, vedo una politica che si riduce a megafono di un antagonismo sterile. E Ilaria Salis ne è la rappresentazione perfetta.

Non fraintendetemi: criticare il governo è legittimo, sacrosanto. Anch’io, che non ho mai avuto tessere di partito, ho criticato governi di ogni colore. Ma la critica deve essere accompagnata da una proposta, da un’alternativa. Altrimenti resta solo rabbia sterile.

Salis, invece, sembra vivere solo di quella rabbia. Ogni sua uscita è un atto d’accusa, mai un contributo. Ogni parola è un dito puntato, mai una mano tesa.

Forse è anche una questione generazionale. Io appartengo a una generazione che ha conosciuto la fame, che ha visto la guerra e la ricostruzione. Per noi la legge era fatica, sacrificio, ordine. Per molti giovani politici di oggi, la legge è solo un ostacolo, una gabbia, qualcosa da abbattere.

Ma senza regole non c’è società. Senza responsabilità non c’è libertà. E senza la capacità di distinguere tra chi subisce e chi aggredisce, tra chi rispetta e chi viola, non c’è giustizia.

Ilaria Salis ha scelto di incarnare la pasionaria del “no” perpetuo. Non importa quale sia il tema: sicurezza, carceri, occupazioni. Lei dirà sempre che è repressione. È un ruolo comodo, perché non richiede di sporcarsi le mani con la realtà. È un ruolo che attira applausi facili e titoli di giornale.

Ma è anche un ruolo inutile, se non dannoso. Perché il Paese ha bisogno di chi costruisce, non di chi smonta. Ha bisogno di soluzioni, non di slogan. Ha bisogno di politici che parlino ai cittadini, non di tribuni che parlino contro lo Stato.

Guardando Salis, io non vedo il futuro. Vedo un passato che ritorna, con gli stessi errori e le stesse illusioni. Vedo una politica che si nutre di conflitto senza offrire speranza. Vedo un volto giovane che recita un copione vecchio.

E a chi, come me, ha vissuto abbastanza per conoscere il valore della stabilità, tutto questo appare non come una rivoluzione, ma come una stanca ripetizione.








on mercoledì, settembre 24, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

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