"Ci attaccano tutti, quindi abbiamo ragione noi": il mantra che non convince più nessuno!
Ho settantadue
anni. Non sono un giornalista, non sono un politico, non sono un esperto da
talk show. Sono un semplice cittadino che ha passato la vita a pagare le tasse,
a guardare i telegiornali, a votare sperando che le cose migliorassero. Ho
visto di tutto: Moro rapito, Craxi in fuga, Berlusconi che giura di “scendere
in campo”, Prodi che cade per un voto, Monti che arriva dall’Europa, Renzi che
“rottama” e poi si rottama da solo. Ho visto gente promettere miracoli e finire
a fare figure da barzelletta.
E dopo aver
visto tutto questo, mi arriva davanti agli occhi la lettera aperta di Giuseppe
Conte, quella dell’ ottobre 2023, intitolata “a chi infama me e il Movimento 5Stelle”. La leggo tutta, fino all’ultima parola. E sapete cosa penso? Che
sembra scritta più per farsi applaudire dai suoi che per parlare a chiunque
abbia un dubbio.
Sempre la stessa storia
Conte ci dice
che lui e il Movimento sono stati infamati, che l’accusa di antisemitismo è
ingiusta, che qualcuno ha passato il segno. Tutto legittimo. Ma il tono… il
tono è quello del predicatore che arringa la folla in piazza, non di un ex
premier che vuole chiarire una posizione.
La storia è
sempre la stessa: noi buoni, loro cattivi. Noi difensori della verità, loro fabbricatori
di menzogne. Noi dalla parte giusta della storia, loro complici del marcio. Ho
settantadue anni, e questo film l’ho già visto troppe volte. Lo proiettavano
anche negli anni ’70, quando ogni partito si dichiarava “l’unico baluardo
contro il complotto”.
Conte non
lascia nemmeno uno spiraglio di dubbio. Non dice: “forse ci siamo espressi
male, forse c’è stato un fraintendimento, forse potevamo chiarire meglio”. No.
Per lui la colpa è sempre e solo degli altri. La stampa, le comunità ebraiche,
gli avversari politici, persino l’opinione pubblica “male informata”.
Il curriculum come scudo
E poi la parte
più divertente: il curriculum. Perché questa lettera sembra un’autobiografia.
Conte elenca le sue grandi opere da premier, ricorda di aver adottato la
definizione di antisemitismo dell’IHRA, di aver nominato un coordinatore, di
aver parlato in sinagoga.
Bravo,
Giuseppe. Nessuno te lo toglie. Ma qui non stiamo facendo un concorso pubblico
per assumerti di nuovo a Palazzo Chigi. Qui si parla di una critica attuale, e
tu rispondi con un elenco di medaglie appuntate al petto.
È un po’ come
se uno venisse beccato a passare col rosso e dicesse: “Sì, ma io vent’anni fa
ho salvato un gattino dall’albero”. Bravo per il gattino, ma il semaforo era
rosso.
Colpo basso a Meghnagi
Il passaggio su
Walker Meghnagi è quello che mi ha fatto davvero arrabbiare. Conte non si
limita a dire che l’accusa è sbagliata: lo accusa di ingannare i cittadini, di “dire falsità”, di fare politica dietro il paravento del ruolo istituzionale.
E ciliegina
sulla torta, annuncia che agirà in giudizio.
Ora, sarò un
vecchio sentimentale, ma a me questa sembra più una minaccia che una replica.
Come a dire: “state attenti a quello che dite, perché poi vi porto in
tribunale”.
Ecco, questo
non mi piace. Non mi piace perché in una democrazia ci deve essere spazio per
la parola dura, anche per l’esagerazione. Ci devono essere scontri, polemiche,
anche accuse sbagliate – e risposte forti. Ma la risposta forte non deve
essere: “ci vediamo in tribunale”.
Conte avrebbe
potuto dire: “Le sue parole sono gravi, sbagliate, offensive. Io le respingo e
sono disponibile a un confronto pubblico per chiarire le posizioni”. Invece no:
ha preferito alzare il muro, cercare lo scontro, quasi voler trasformare
Meghnagi in un nemico pubblico.
Sempre la stampa nel mirino
Naturalmente
non poteva mancare il capitolo dedicato alla stampa. “Macchina del fango”, “attacchi
preordinati”, giornali che ci attaccano “a prescindere”.
Giuseppe, per
carità. Questo disco è graffiato. Ogni politico che conosco, quando è in
difficoltà, tira fuori la storia della stampa cattiva. Lo faceva Berlusconi (“i
comunisti hanno i giornali!”), lo faceva Renzi (“i giornali remano contro!”),
lo fa Salvini un giorno sì e l’altro pure.
La verità è che
i giornali fanno il loro mestiere: criticano. A volte sbagliano, a volte
esagerano, ma se ogni critica diventa un “attacco orchestrato”, il risultato è
che i cittadini finiscono per non credere più a nessuno.
E quando i
cittadini non credono più a nessuno, vince solo il caos.
La pace, ma in versione comizio
Arriviamo al
capitolo sulla pace. Conte scrive che oggi invocare la pace è diventato uno
scandalo, che chi parla di cessate il fuoco viene etichettato come filo-russo,
filo-palestinese, filo-qualcosa.
Verissimo. Ma
il tono è quello del profeta incompreso: “noi siamo gli unici che parlano di
pace, tutti gli altri vogliono la guerra”.
Giuseppe, la
pace non è un hashtag. Non è una bandierina da sventolare in piazza per
prendersi l’applauso. La pace è una fatica bestiale, è diplomazia, è
compromesso, è sedersi al tavolo con gente che ti sta antipatica e trovare un
accordo.
E lo dico io
che ho vissuto la guerra fredda, che ho visto Reagan e Gorbaciov stringersi la
mano, che ricordo i negoziati di Oslo e il Nobel a Rabin e Arafat. Non c’era
Twitter, non c’erano dirette Facebook: c’era gente che lavorava giorno e notte
in silenzio per trovare un punto di incontro.
Vittimismo permanente
Quello che
davvero mi lascia l’amaro in bocca è la sensazione che questa lettera sia stata
scritta non per spiegare, ma per mobilitare. Non per chiarire, ma per
compattare la truppa. È il classico “noi contro il mondo”, il modo migliore per
ottenere applausi a scena aperta.
Ma così si
chiudono i ponti. Si alzano i muri. Si spacca ancora di più un Paese che è già
diviso su tutto: sulla guerra, sulla pandemia, sulle tasse, persino sul calcio.
E io, da
vecchio cittadino che ne ha viste troppe, sono stanco. Sono stanco di politici
che fanno i martiri per ogni critica, che trasformano ogni polemica in un atto
di persecuzione, che gridano al complotto appena le cose si mettono male.
Conclusione: basta teatrini, serve serietà
Conte dice che
continuerà a parlare di pace. Bene. Ma la pace comincia dalle parole. E le sue,
questa volta, sono parole che dividono, non che uniscono.
Io non voglio
più vedere leader che si arrampicano sul palco del vittimismo per prendersi
l’applauso. Voglio politici che si sporcano le mani con la realtà, che
rispondono con i fatti, che spiegano con calma e con chiarezza.
Giuseppe Conte
ha perso un’occasione. Poteva dimostrare statura. Poteva dire: “abbiamo
posizioni diverse, parliamone, chiariremo”. Poteva aprire un tavolo, invece di
aprire un contenzioso.
Ha scelto la
strada del tribuno. Ha scelto la piazza virtuale, le frasi a effetto, il muro
contro muro.
E allora, da
cittadino, lo dico senza giri di parole: io non ci casco più. Non mi interessa
chi grida più forte, mi interessa chi trova soluzioni. E le soluzioni, caro
Giuseppe, non si trovano accusando mezzo Paese di voler infamare te e il
Movimento.
Perché, come
diceva mia nonna, quando tutti ce l’hanno con te, forse non sono sempre gli
altri ad avere torto.


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