21 settembre 2025

Conte, vittima per professione

 "Ci attaccano tutti, quindi abbiamo ragione noi": il mantra che non convince più nessuno!


Ho settantadue anni. Non sono un giornalista, non sono un politico, non sono un esperto da talk show. Sono un semplice cittadino che ha passato la vita a pagare le tasse, a guardare i telegiornali, a votare sperando che le cose migliorassero. Ho visto di tutto: Moro rapito, Craxi in fuga, Berlusconi che giura di “scendere in campo”, Prodi che cade per un voto, Monti che arriva dall’Europa, Renzi che “rottama” e poi si rottama da solo. Ho visto gente promettere miracoli e finire a fare figure da barzelletta.

E dopo aver visto tutto questo, mi arriva davanti agli occhi la lettera aperta di Giuseppe Conte, quella dell’ ottobre 2023, intitolata “a chi infama me e il Movimento 5Stelle”. La leggo tutta, fino all’ultima parola. E sapete cosa penso? Che sembra scritta più per farsi applaudire dai suoi che per parlare a chiunque abbia un dubbio.

Sempre la stessa storia

Conte ci dice che lui e il Movimento sono stati infamati, che l’accusa di antisemitismo è ingiusta, che qualcuno ha passato il segno. Tutto legittimo. Ma il tono… il tono è quello del predicatore che arringa la folla in piazza, non di un ex premier che vuole chiarire una posizione.

La storia è sempre la stessa: noi buoni, loro cattivi. Noi difensori della verità, loro fabbricatori di menzogne. Noi dalla parte giusta della storia, loro complici del marcio. Ho settantadue anni, e questo film l’ho già visto troppe volte. Lo proiettavano anche negli anni ’70, quando ogni partito si dichiarava “l’unico baluardo contro il complotto”.

Conte non lascia nemmeno uno spiraglio di dubbio. Non dice: “forse ci siamo espressi male, forse c’è stato un fraintendimento, forse potevamo chiarire meglio”. No. Per lui la colpa è sempre e solo degli altri. La stampa, le comunità ebraiche, gli avversari politici, persino l’opinione pubblica “male informata”.

Il curriculum come scudo

E poi la parte più divertente: il curriculum. Perché questa lettera sembra un’autobiografia. Conte elenca le sue grandi opere da premier, ricorda di aver adottato la definizione di antisemitismo dell’IHRA, di aver nominato un coordinatore, di aver parlato in sinagoga.

Bravo, Giuseppe. Nessuno te lo toglie. Ma qui non stiamo facendo un concorso pubblico per assumerti di nuovo a Palazzo Chigi. Qui si parla di una critica attuale, e tu rispondi con un elenco di medaglie appuntate al petto.

È un po’ come se uno venisse beccato a passare col rosso e dicesse: “Sì, ma io vent’anni fa ho salvato un gattino dall’albero”. Bravo per il gattino, ma il semaforo era rosso.

Colpo basso a Meghnagi

Il passaggio su Walker Meghnagi è quello che mi ha fatto davvero arrabbiare. Conte non si limita a dire che l’accusa è sbagliata: lo accusa di ingannare i cittadini, di “dire falsità”, di fare politica dietro il paravento del ruolo istituzionale.

E ciliegina sulla torta, annuncia che agirà in giudizio.

Ora, sarò un vecchio sentimentale, ma a me questa sembra più una minaccia che una replica. Come a dire: “state attenti a quello che dite, perché poi vi porto in tribunale”.

Ecco, questo non mi piace. Non mi piace perché in una democrazia ci deve essere spazio per la parola dura, anche per l’esagerazione. Ci devono essere scontri, polemiche, anche accuse sbagliate – e risposte forti. Ma la risposta forte non deve essere: “ci vediamo in tribunale”.

Conte avrebbe potuto dire: “Le sue parole sono gravi, sbagliate, offensive. Io le respingo e sono disponibile a un confronto pubblico per chiarire le posizioni”. Invece no: ha preferito alzare il muro, cercare lo scontro, quasi voler trasformare Meghnagi in un nemico pubblico.

Sempre la stampa nel mirino

Naturalmente non poteva mancare il capitolo dedicato alla stampa. “Macchina del fango”, “attacchi preordinati”, giornali che ci attaccano “a prescindere”.

Giuseppe, per carità. Questo disco è graffiato. Ogni politico che conosco, quando è in difficoltà, tira fuori la storia della stampa cattiva. Lo faceva Berlusconi (“i comunisti hanno i giornali!”), lo faceva Renzi (“i giornali remano contro!”), lo fa Salvini un giorno sì e l’altro pure.

La verità è che i giornali fanno il loro mestiere: criticano. A volte sbagliano, a volte esagerano, ma se ogni critica diventa un “attacco orchestrato”, il risultato è che i cittadini finiscono per non credere più a nessuno.

E quando i cittadini non credono più a nessuno, vince solo il caos.

La pace, ma in versione comizio

Arriviamo al capitolo sulla pace. Conte scrive che oggi invocare la pace è diventato uno scandalo, che chi parla di cessate il fuoco viene etichettato come filo-russo, filo-palestinese, filo-qualcosa.

Verissimo. Ma il tono è quello del profeta incompreso: “noi siamo gli unici che parlano di pace, tutti gli altri vogliono la guerra”.

Giuseppe, la pace non è un hashtag. Non è una bandierina da sventolare in piazza per prendersi l’applauso. La pace è una fatica bestiale, è diplomazia, è compromesso, è sedersi al tavolo con gente che ti sta antipatica e trovare un accordo.

E lo dico io che ho vissuto la guerra fredda, che ho visto Reagan e Gorbaciov stringersi la mano, che ricordo i negoziati di Oslo e il Nobel a Rabin e Arafat. Non c’era Twitter, non c’erano dirette Facebook: c’era gente che lavorava giorno e notte in silenzio per trovare un punto di incontro.

Vittimismo permanente

Quello che davvero mi lascia l’amaro in bocca è la sensazione che questa lettera sia stata scritta non per spiegare, ma per mobilitare. Non per chiarire, ma per compattare la truppa. È il classico “noi contro il mondo”, il modo migliore per ottenere applausi a scena aperta.

Ma così si chiudono i ponti. Si alzano i muri. Si spacca ancora di più un Paese che è già diviso su tutto: sulla guerra, sulla pandemia, sulle tasse, persino sul calcio.

E io, da vecchio cittadino che ne ha viste troppe, sono stanco. Sono stanco di politici che fanno i martiri per ogni critica, che trasformano ogni polemica in un atto di persecuzione, che gridano al complotto appena le cose si mettono male.

Conclusione: basta teatrini, serve serietà

Conte dice che continuerà a parlare di pace. Bene. Ma la pace comincia dalle parole. E le sue, questa volta, sono parole che dividono, non che uniscono.

Io non voglio più vedere leader che si arrampicano sul palco del vittimismo per prendersi l’applauso. Voglio politici che si sporcano le mani con la realtà, che rispondono con i fatti, che spiegano con calma e con chiarezza.

Giuseppe Conte ha perso un’occasione. Poteva dimostrare statura. Poteva dire: “abbiamo posizioni diverse, parliamone, chiariremo”. Poteva aprire un tavolo, invece di aprire un contenzioso.

Ha scelto la strada del tribuno. Ha scelto la piazza virtuale, le frasi a effetto, il muro contro muro.

E allora, da cittadino, lo dico senza giri di parole: io non ci casco più. Non mi interessa chi grida più forte, mi interessa chi trova soluzioni. E le soluzioni, caro Giuseppe, non si trovano accusando mezzo Paese di voler infamare te e il Movimento.

Perché, come diceva mia nonna, quando tutti ce l’hanno con te, forse non sono sempre gli altri ad avere torto.












on domenica, settembre 21, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

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