Quando è diventato Presidente del Consiglio nel 2018,
non lo conosceva praticamente nessuno. È arrivato lì senza un passato politico,
senza un mandato elettorale, senza una base personale su cui poggiare. È stato
presentato come “l’avvocato del popolo”, ma non era chiaro quale popolo
rappresentasse. Fin da subito, ho percepito in lui una debolezza strutturale:
era un tecnico travestito da politico, o forse il contrario. In ogni caso, non
mi ha mai dato l’idea di essere lì per costruire qualcosa. Sembrava piuttosto
uno spettatore privilegiato del proprio ruolo.
Il suo trasformismo mi ha lasciato perplesso. In pochi
mesi è passato da paladino del governo sovranista con la Lega a conduttore di
un esecutivo europeista con il PD. Due governi profondamente diversi, opposti
quasi in tutto. Eppure lui era lì, immobile nella forma ma camaleontico nella
sostanza. Qualcuno l’ha chiamato equilibrio. Io l’ho visto come opportunismo.
Non si può guidare un Paese seguendo il vento del potere, adattandosi ogni
volta all’alleato di turno come se nulla fosse. Serve coerenza. O almeno il
coraggio di dire da che parte si sta.
La gestione della pandemia ha esposto tutti i limiti
di questa ambiguità. Ricordo l’incertezza, i provvedimenti comunicati con ore
di ritardo, i decreti notturni, la corsa affannata dietro l’emergenza. La
sensazione era di una barca senza timone, dove ognuno faceva come poteva. Le
Regioni contro il governo, il governo contro le Regioni, i cittadini confusi e
abbandonati. E mentre tutto questo accadeva, Conte si mostrava in video con
toni gravi, come un attore di teatro più che come un leader in trincea. Molti
lo hanno trovato rassicurante. Io ci ho visto un uomo che gestiva l’emergenza
più per immagine che per visione.
Anche sul piano economico, non riesco a ricordare un
provvedimento forte, strutturale, duraturo. I famosi “ristori” sono arrivati
tardi, male, e spesso inadeguati. La burocrazia non è stata snellita, anzi. I
lavoratori autonomi e le piccole imprese sono stati lasciati a se stessi per
mesi. E mentre il debito pubblico esplodeva, si continuava a parlare di futuro
senza mai davvero costruirlo.
In politica estera, la firma con la Cina del
Memorandum sulla Via della Seta è stata un salto nel vuoto. Una mossa che ha
sollevato dubbi tra gli alleati europei e atlantici, e che non ha portato
benefici tangibili all’Italia. Ancora una volta, ho avuto la sensazione che
mancasse una direzione: si andava dove sembrava conveniente, senza un disegno
complessivo.
E poi il Recovery Plan. Una delle sfide più importanti
per l’Italia del dopoguerra. Quando Conte ha lasciato Palazzo Chigi, quel piano
era ancora fumoso, indefinito, privo di struttura. È stato Draghi a doverlo
riscrivere, a dargli forma. Questo, forse, è il segnale più chiaro del
fallimento di una leadership: quando hai nelle mani l’occasione di cambiare il
Paese e non riesci nemmeno a impostarla.
In fondo, Giuseppe Conte non ha mai smesso di essere
un mediatore. Ma il mediatore può tenere unito un tavolo di discussione, non
può guidare una nazione in crisi. E l’Italia, in quegli anni, aveva bisogno di
molto di più.
Quello che mi lascia è una sensazione di occasione
persa. Di tempo scivolato tra le dita. Di un governo che ha fatto tanto rumore
per poi evaporare in una nuvola di ambiguità. Conte non ha distrutto il Paese,
certo. Ma nemmeno lo ha difeso con la forza e la chiarezza che servivano.
E in politica, a volte, è proprio la mancanza di
coraggio a fare più danni della cattiva volontà.


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