25 luglio 2025

Giuseppe Conte, un’illusione di leadership

Perché non mi ha mai convinto, nemmeno nei momenti più drammatici.

Ci sono figure politiche che lasciano un’impronta profonda, che dividono, che fanno discutere, ma che almeno danno il senso di una direzione, di una visione. Poi ci sono quelle che sembrano attraversare il potere come fantasmi eleganti: parlano bene, appaiono composte, ma alla fine non lasciano nulla. Per me, Giuseppe Conte appartiene a questa seconda categoria.

Quando è diventato Presidente del Consiglio nel 2018, non lo conosceva praticamente nessuno. È arrivato lì senza un passato politico, senza un mandato elettorale, senza una base personale su cui poggiare. È stato presentato come “l’avvocato del popolo”, ma non era chiaro quale popolo rappresentasse. Fin da subito, ho percepito in lui una debolezza strutturale: era un tecnico travestito da politico, o forse il contrario. In ogni caso, non mi ha mai dato l’idea di essere lì per costruire qualcosa. Sembrava piuttosto uno spettatore privilegiato del proprio ruolo.

Il suo trasformismo mi ha lasciato perplesso. In pochi mesi è passato da paladino del governo sovranista con la Lega a conduttore di un esecutivo europeista con il PD. Due governi profondamente diversi, opposti quasi in tutto. Eppure lui era lì, immobile nella forma ma camaleontico nella sostanza. Qualcuno l’ha chiamato equilibrio. Io l’ho visto come opportunismo. Non si può guidare un Paese seguendo il vento del potere, adattandosi ogni volta all’alleato di turno come se nulla fosse. Serve coerenza. O almeno il coraggio di dire da che parte si sta.

La gestione della pandemia ha esposto tutti i limiti di questa ambiguità. Ricordo l’incertezza, i provvedimenti comunicati con ore di ritardo, i decreti notturni, la corsa affannata dietro l’emergenza. La sensazione era di una barca senza timone, dove ognuno faceva come poteva. Le Regioni contro il governo, il governo contro le Regioni, i cittadini confusi e abbandonati. E mentre tutto questo accadeva, Conte si mostrava in video con toni gravi, come un attore di teatro più che come un leader in trincea. Molti lo hanno trovato rassicurante. Io ci ho visto un uomo che gestiva l’emergenza più per immagine che per visione.

Anche sul piano economico, non riesco a ricordare un provvedimento forte, strutturale, duraturo. I famosi “ristori” sono arrivati tardi, male, e spesso inadeguati. La burocrazia non è stata snellita, anzi. I lavoratori autonomi e le piccole imprese sono stati lasciati a se stessi per mesi. E mentre il debito pubblico esplodeva, si continuava a parlare di futuro senza mai davvero costruirlo.

In politica estera, la firma con la Cina del Memorandum sulla Via della Seta è stata un salto nel vuoto. Una mossa che ha sollevato dubbi tra gli alleati europei e atlantici, e che non ha portato benefici tangibili all’Italia. Ancora una volta, ho avuto la sensazione che mancasse una direzione: si andava dove sembrava conveniente, senza un disegno complessivo.

E poi il Recovery Plan. Una delle sfide più importanti per l’Italia del dopoguerra. Quando Conte ha lasciato Palazzo Chigi, quel piano era ancora fumoso, indefinito, privo di struttura. È stato Draghi a doverlo riscrivere, a dargli forma. Questo, forse, è il segnale più chiaro del fallimento di una leadership: quando hai nelle mani l’occasione di cambiare il Paese e non riesci nemmeno a impostarla.

In fondo, Giuseppe Conte non ha mai smesso di essere un mediatore. Ma il mediatore può tenere unito un tavolo di discussione, non può guidare una nazione in crisi. E l’Italia, in quegli anni, aveva bisogno di molto di più.

Quello che mi lascia è una sensazione di occasione persa. Di tempo scivolato tra le dita. Di un governo che ha fatto tanto rumore per poi evaporare in una nuvola di ambiguità. Conte non ha distrutto il Paese, certo. Ma nemmeno lo ha difeso con la forza e la chiarezza che servivano.

E in politica, a volte, è proprio la mancanza di coraggio a fare più danni della cattiva volontà.

0 comments:

Posta un commento