23 luglio 2025

Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge sul femminicidio.

Oggi ho letto che il Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge sul femminicidio. Centosessantuno voti favorevoli. Un applauso in aula. Le parole del Presidente del Senato: “Sono estremamente lieto di questo risultato”. Eppure, mentre leggevo, dentro di me non riuscivo ad applaudire. Non per mancanza di gratitudine, ma perché questo risultato ha il sapore amaro di qualcosa che arriva troppo tardi, su una terra dove il sangue ha già impregnato il suolo.

Femminicidio. Una parola dura. Una parola che non è solo linguaggio, ma memoria. Ogni volta che la pronuncio, mi tornano in mente volti. Alcuni li conosco. Altri no. Ma sono tutti lì, come fotografie spezzate: donne ammazzate per amore malato, per possesso, per rifiuto, per quella maledetta idea che la vita di una donna possa essere proprietà privata.

Non sto scrivendo per fare cronaca. Sto scrivendo perché questa legge parla anche a me. A mia madre, a mia sorella, alle mie amiche. A tutte le volte in cui ho sentito il terrore nascosto dietro la voce di una donna che dice: “Va tutto bene”. A tutte le volte in cui non è andato bene per niente.

Il fatto che oggi venga introdotto nel codice penale l’articolo 577-bis, che riconosce il femminicidio come reato autonomo, con l’ergastolo per chi uccide una donna per odio, per rifiuto, per dominio… è una svolta. È un modo per dire: “Ti vediamo. Sappiamo cosa succede. E non lo accettiamo più.”

Non è solo una questione di giustizia. È un gesto di civiltà. Il disegno di legge – 14 articoli – non si limita a punire. Cerca di proteggere, di prevenire. Rafforza le aggravanti per la violenza domestica e sessuale, introduce tutele per le vittime, obbliga all’ascolto rapido, garantisce l’accesso ai centri antiviolenza anche ai minori. Soprattutto, riconosce che dietro ogni storia di violenza c’è una struttura sociale da decostruire, un’educazione da rifondare.

Leggo che saranno formati i magistrati, gli operatori sanitari, gli assistenti sociali. Finalmente. Perché la violenza non è sempre un pugno. A volte è un silenzio imposto, una parola velenosa, una paura che ti paralizza. Serve qualcuno che sappia leggere quei segnali.

E mi colpisce anche un altro passaggio: l’obbligo di confisca dei beni dell’autore del reato, le misure economiche a tutela degli orfani. Perché la violenza, oltre che colpire, lascia dietro di sé un deserto. Bambini senza madri. Famiglie distrutte. E finora lo Stato ha spesso lasciato queste macerie a chi resta. Finalmente, si fa carico anche del dopo.

Non mi illudo. Nessuna legge da sola potrà fermare la mano di chi uccide. Ma questa legge, almeno, dice ad alta voce quello che molti non vogliono sentire: che l’omicidio di una donna in quanto donna non è un delitto come un altro. È un gesto che affonda le radici nella cultura, nella storia, nel modo in cui continuiamo a parlare – o a non parlare – delle relazioni tra uomini e donne.

C’è chi ha detto: “È un testo necessario”. Concordo. Ma io aggiungo: era urgente da anni. Non sono qui per celebrare la politica, ma per riconoscere un passo. Uno solo. Ma nella giusta direzione.

E dentro di me, oggi, porto un sentimento doppio. Da un lato, il sollievo di vedere finalmente riconosciuta una realtà troppo a lungo taciuta. Dall’altro, il dolore di sapere che questa legge nasce da troppe tombe, da troppi nomi letti nei telegiornali come numeri, come statistiche.

Io non dimentico. Perché non sono solo un cittadino. Sono una persona che ascolta, che conosce, che ha amato donne che hanno avuto paura. E questa legge non la leggo solo con gli occhi. La sento nella pelle.

È un inizio. Ma adesso tocca a noi, ogni giorno, far sì che non sia solo carta. Ma vita.

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