Oggi ho letto che il Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge sul femminicidio. Centosessantuno voti favorevoli. Un applauso in aula. Le parole del Presidente del Senato: “Sono estremamente lieto di questo risultato”. Eppure, mentre leggevo, dentro di me non riuscivo ad applaudire. Non per mancanza di gratitudine, ma perché questo risultato ha il sapore amaro di qualcosa che arriva troppo tardi, su una terra dove il sangue ha già impregnato il suolo.
Femminicidio. Una parola dura. Una parola che non è
solo linguaggio, ma memoria. Ogni volta che la pronuncio, mi tornano in mente
volti. Alcuni li conosco. Altri no. Ma sono tutti lì, come fotografie spezzate:
donne ammazzate per amore malato, per possesso, per rifiuto, per quella
maledetta idea che la vita di una donna possa essere proprietà privata.
Non sto scrivendo per fare cronaca. Sto scrivendo
perché questa legge parla anche a me. A mia madre, a mia sorella, alle mie
amiche. A tutte le volte in cui ho sentito il terrore nascosto dietro la voce
di una donna che dice: “Va tutto bene”. A tutte le volte in cui non è andato
bene per niente.
Il fatto che oggi venga introdotto nel codice penale
l’articolo 577-bis, che riconosce il femminicidio come reato autonomo, con
l’ergastolo per chi uccide una donna per odio, per rifiuto, per dominio… è una
svolta. È un modo per dire: “Ti vediamo. Sappiamo cosa succede. E non lo
accettiamo più.”
Non è solo una questione di giustizia. È un gesto di
civiltà. Il disegno di legge – 14 articoli – non si limita a punire. Cerca di
proteggere, di prevenire. Rafforza le aggravanti per la violenza domestica e
sessuale, introduce tutele per le vittime, obbliga all’ascolto rapido,
garantisce l’accesso ai centri antiviolenza anche ai minori. Soprattutto,
riconosce che dietro ogni storia di violenza c’è una struttura sociale da
decostruire, un’educazione da rifondare.
Leggo che saranno formati i magistrati, gli operatori
sanitari, gli assistenti sociali. Finalmente. Perché la violenza non è sempre
un pugno. A volte è un silenzio imposto, una parola velenosa, una paura che ti
paralizza. Serve qualcuno che sappia leggere quei segnali.
E mi colpisce anche un altro passaggio: l’obbligo di
confisca dei beni dell’autore del reato, le misure economiche a tutela degli
orfani. Perché la violenza, oltre che colpire, lascia dietro di sé un deserto.
Bambini senza madri. Famiglie distrutte. E finora lo Stato ha spesso lasciato
queste macerie a chi resta. Finalmente, si fa carico anche del dopo.
Non mi illudo. Nessuna legge da sola potrà fermare la
mano di chi uccide. Ma questa legge, almeno, dice ad alta voce quello che molti
non vogliono sentire: che l’omicidio di una donna in quanto donna non è
un delitto come un altro. È un gesto che affonda le radici nella cultura, nella
storia, nel modo in cui continuiamo a parlare – o a non parlare – delle
relazioni tra uomini e donne.
C’è chi ha detto: “È un testo necessario”. Concordo.
Ma io aggiungo: era urgente da anni. Non sono qui per celebrare la
politica, ma per riconoscere un passo. Uno solo. Ma nella giusta direzione.
E dentro di me, oggi, porto un sentimento doppio. Da
un lato, il sollievo di vedere finalmente riconosciuta una realtà troppo a
lungo taciuta. Dall’altro, il dolore di sapere che questa legge nasce da troppe
tombe, da troppi nomi letti nei telegiornali come numeri, come statistiche.
Io non dimentico. Perché non sono solo un cittadino.
Sono una persona che ascolta, che conosce, che ha amato donne che hanno avuto
paura. E questa legge non la leggo solo con gli occhi. La sento nella pelle.
È un inizio. Ma adesso tocca a noi, ogni giorno, far
sì che non sia solo carta. Ma vita.


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