31 luglio 2025

IL SILENZIO CHE FA RUMORE

 


Riflessione personale

Ci sono momenti in cui anche le parole sembrano sbagliate. Non per ciò che dicono, ma per ciò che possono provocare. È così che mi sento ogni volta che cerco di pensare, e forse anche solo sussurrare, qualcosa su Gaza. È come camminare su vetro: ogni parola potrebbe frantumarsi, ogni frase potrebbe essere interpretata, travisata, etichettata. E allora – come molti – mi fermo. Taccio. Ma questo silenzio non mi rende più saggio, né più umano. Solo più confuso, più distante da ciò che provo davvero.

Mi accorgo che la difficoltà non è solo nella complessità della realtà laggiù, ma nella paura che si è instaurata qui, dentro e attorno a me. Paura di sbagliare tono. Paura di offendere qualcuno. Paura di essere frainteso, ridotto a un'opinione che non è mia, o peggio, a uno schieramento ideologico a cui non appartengo.

Eppure non si può ignorare il dolore. Non si può essere spettatori passivi quando la sofferenza – così evidente, così lacerante – si riversa nei nostri occhi. Bambini affamati, famiglie sotto le macerie, ostaggi dimenticati, madri in fuga. E non importa da quale parte arrivino. La sofferenza vera, quella umana, non ha passaporto.

Mi rendo conto che spesso vorrei solo avere uno spazio per dire: "Non capisco tutto. Non so chi abbia ragione. Ma so che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui stiamo vivendo questo dramma collettivo". Non dico "vivendo" nel senso diretto, ma "vivendo interiormente": quel senso di impotenza mista a paura, la frustrazione che nasce dal non sapere come reagire, come parlarne, con chi, e se davvero vogliamo farlo.

A volte, l’unico pensiero chiaro che riesco a formulare è questo: siamo diventati incapaci di distinguere la compassione dalla posizione politica. Se esprimo dolore per Gaza, qualcuno penserà che sto legittimando Hamas. Se parlo dell’attacco del 7 ottobre, qualcun altro penserà che sto ignorando le sofferenze palestinesi. E allora si tace. Ma questo tacere ha un prezzo: quello della solitudine morale. Smettiamo di confrontarci, smettiamo di pensare insieme. Rimaniamo intrappolati nelle nostre bolle etiche, spaventati anche solo dal fatto che un amico possa pensarla in modo radicalmente diverso.

Eppure credo che il vero pericolo sia proprio questo: arrenderci all’idea che non si possa più parlare. Che non esistano più spazi per il dubbio, per l’empatia, per la fragilità del non sapere. Invece ce ne sarebbe un bisogno disperato. Non per risolvere tutto. Ma per tornare a guardarci negli occhi e dirci: "Io sento questo. Tu cosa senti?".

Vorrei che ci fosse più coraggio nell’ammettere la confusione. Più umiltà nel riconoscere che, spesso, la verità non sta da una parte sola. Più umanità nel dire che il dolore di un bambino israeliano non cancella quello di un bambino palestinese. E viceversa.

Non ho risposte. Ma credo che il primo passo sia permettersi di fare domande. Non con l’intento di vincere una discussione, ma per restare umani dentro una tragedia che ci supera.

Magari basterebbe questo: cominciare a parlarne. A bassa voce. Con rispetto. Con pudore. Senza slogan, senza giudizi. Solo con la volontà di restare presenti, e non complici del silenzio.

Ciò che accade a Gaza, come in molte altre parti del mondo, ci sfida a pensare in profondità cosa significhi oggi essere empatici, critici e dialogici allo stesso tempo. Questo testo non pretende di avere l’ultima parola. È, se mai, un tentativo di dare voce a quel disagio che molti sentono ma pochi osano esprimere. Se anche solo una persona, leggendo queste righe, sentirà meno solitudine nel proprio silenzio interiore, allora questo scritto avrà avuto un senso.

 

 

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