Riflessione personale
Ci sono momenti in cui anche le parole sembrano
sbagliate. Non per ciò che dicono, ma per ciò che possono provocare. È così che
mi sento ogni volta che cerco di pensare, e forse anche solo sussurrare,
qualcosa su Gaza. È come camminare su vetro: ogni parola potrebbe frantumarsi,
ogni frase potrebbe essere interpretata, travisata, etichettata. E allora –
come molti – mi fermo. Taccio. Ma questo silenzio non mi rende più saggio, né
più umano. Solo più confuso, più distante da ciò che provo davvero.
Mi accorgo che la difficoltà non è solo nella
complessità della realtà laggiù, ma nella paura che si è instaurata qui, dentro
e attorno a me. Paura di sbagliare tono. Paura di offendere qualcuno. Paura di
essere frainteso, ridotto a un'opinione che non è mia, o peggio, a uno
schieramento ideologico a cui non appartengo.
Eppure non si può ignorare il dolore. Non si può
essere spettatori passivi quando la sofferenza – così evidente, così lacerante
– si riversa nei nostri occhi. Bambini affamati, famiglie sotto le macerie,
ostaggi dimenticati, madri in fuga. E non importa da quale parte arrivino. La
sofferenza vera, quella umana, non ha passaporto.
Mi rendo conto che spesso vorrei solo avere uno spazio
per dire: "Non capisco tutto. Non so chi abbia ragione. Ma so che c’è
qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui stiamo vivendo questo
dramma collettivo". Non dico "vivendo" nel senso diretto, ma
"vivendo interiormente": quel senso di impotenza mista a paura, la
frustrazione che nasce dal non sapere come reagire, come parlarne, con chi, e
se davvero vogliamo farlo.
A volte, l’unico pensiero chiaro che riesco a
formulare è questo: siamo diventati incapaci di distinguere la compassione
dalla posizione politica. Se esprimo dolore per Gaza, qualcuno penserà che sto
legittimando Hamas. Se parlo dell’attacco del 7 ottobre, qualcun altro penserà
che sto ignorando le sofferenze palestinesi. E allora si tace. Ma questo tacere
ha un prezzo: quello della solitudine morale. Smettiamo di confrontarci,
smettiamo di pensare insieme. Rimaniamo intrappolati nelle nostre bolle etiche,
spaventati anche solo dal fatto che un amico possa pensarla in modo
radicalmente diverso.
Eppure credo che il vero pericolo sia proprio questo:
arrenderci all’idea che non si possa più parlare. Che non esistano più spazi
per il dubbio, per l’empatia, per la fragilità del non sapere. Invece ce ne
sarebbe un bisogno disperato. Non per risolvere tutto. Ma per tornare a
guardarci negli occhi e dirci: "Io sento questo. Tu cosa senti?".
Vorrei che ci fosse più coraggio nell’ammettere la
confusione. Più umiltà nel riconoscere che, spesso, la verità non sta da una
parte sola. Più umanità nel dire che il dolore di un bambino israeliano non
cancella quello di un bambino palestinese. E viceversa.
Non ho risposte. Ma credo che il primo passo sia
permettersi di fare domande. Non con l’intento di vincere una discussione, ma
per restare umani dentro una tragedia che ci supera.
Magari basterebbe questo: cominciare a parlarne. A
bassa voce. Con rispetto. Con pudore. Senza slogan, senza giudizi. Solo con la
volontà di restare presenti, e non complici del silenzio.
Ciò che accade a Gaza, come in molte altre parti del
mondo, ci sfida a pensare in profondità cosa significhi oggi essere empatici,
critici e dialogici allo stesso tempo. Questo testo non pretende di avere
l’ultima parola. È, se mai, un tentativo di dare voce a quel disagio che molti
sentono ma pochi osano esprimere. Se anche solo una persona, leggendo queste
righe, sentirà meno solitudine nel proprio silenzio interiore, allora questo
scritto avrà avuto un senso.


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