Non è solo una dichiarazione d’intenti. Nelle parole pronunciate
da Giorgia Meloni durante l’intervento alla Federazione dei magistrati onorari
di tribunale, si coglie il segnale di una svolta politica e morale che riguarda
il cuore stesso dello Stato di diritto: la giustizia. E quando un capo di
governo pronuncia parole come “fine alle storture” in materia giudiziaria, non
si può fare a meno di accogliere con favore – e con attenzione – la portata di
un tale impegno.
Da troppo tempo il sistema giudiziario italiano soffre di una
cronica inadeguatezza: processi infiniti, sentenze che arrivano a distanza di
decenni, un garantismo a fasi alterne, incertezza normativa, confusione tra
poteri e, sul piano umano, intere categorie dimenticate o sacrificate per
inerzia. Tra queste, proprio i magistrati onorari: professionisti che reggono
sulle proprie spalle migliaia di procedimenti ogni anno, ma che per anni hanno
vissuto in un limbo, trattati come temporanei, marginali, quando invece sono
strutturalmente indispensabili.
La riforma dell’ordinamento che li riguarda – finalmente
approvata – rappresenta non solo un atto tecnico, ma un gesto politico e civile
di rilevante portata. È la correzione di una stortura. È riconoscere che la
giustizia non si fa solo nei tribunali di Roma o Milano, ma anche nei piccoli
uffici di provincia, grazie a donne e uomini che spesso lavorano con compensi
ridicoli e tutele inesistenti. In un Paese che troppo spesso ha dato prova di
dimenticare i suoi servitori silenziosi, questo passo avanti non può che essere
salutato con favore.
Ma Meloni non si è fermata qui. Ha rilanciato su un obiettivo
ancora più ambizioso: una riforma complessiva della giustizia. Parole pesanti,
che richiedono visione, determinazione e la capacità di resistere a pressioni
interne ed esterne. Eppure, è proprio questo il nodo cruciale. La giustizia
italiana ha bisogno di essere ripensata, alleggerita da una burocrazia
paralizzante, semplificata, resa più umana. Ha bisogno di essere restituita ai
cittadini, che troppo spesso la percepiscono come distante, ostile, lenta.
In un clima mediatico e culturale dove la giustizia è sempre più
terreno di scontro ideologico – tra garantismo e giustizialismo, tra
politicizzazione della magistratura e delegittimazione del potere giudiziario –
parlare di "giustizia più giusta" è rischioso, ma necessario.
Significa rivendicare una visione che rimetta al centro non solo la macchina
della legge, ma la persona. E in questo, la coerenza è fondamentale.
Meloni ha detto: "Siamo di
parola e lo faremo." Ed è proprio questa la cifra su cui si giocherà
la credibilità dell’intero progetto. Perché la giustizia, più ancora che
l’economia o la sicurezza, è ciò che segna il grado di civiltà di un Paese. È
la misura della fiducia dei cittadini nelle istituzioni. È la prima forma di
rispetto che uno Stato può – o non può – garantire ai suoi cittadini.
Da giornalista e da cittadino, non posso che riconoscere l’urgenza e la correttezza di queste parole. E non si tratta di condividere ogni posizione del governo attuale, ma di dare atto che su questo fronte l’Italia aveva bisogno di un cambio di passo netto, concreto, non più rimandabile. Se davvero si riuscirà ad avviare una stagione nuova per la giustizia italiana, sarà una conquista di tutti. Perché una giustizia giusta non è né di destra né di sinistra: è semplicemente la condizione minima per vivere in una società libera, responsabile e umana.


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