20 settembre 2025

Oltre l’uomo: Il peso del pensiero e del tempo

 Riflessioni di un uomo che ha attraversato stagioni e tempeste.


Ho passato la vita a osservare l’uomo.
Non solo me stesso, ma l’uomo in generale, l’umanità intera.
L’ho visto crescere, cambiare, esaltarsi per i propri traguardi e disperarsi per le proprie cadute.
L’ho visto capace di slanci di generosità e di abissi di crudeltà.
E oggi, dopo molti decenni trascorsi tra libri, discussioni e viaggi, posso dire che la domanda sul senso dell’essere umano resta aperta, esattamente come quando, giovane e affamato di verità, leggevo Parmenide e mi illudevo che la filosofia potesse spiegare tutto.

Parafrasando quel vecchio pensatore, direi che l’essere umano è, e non può non essere.
E l’essere non umano non può essere umano.
Potrebbe sembrare un sofisma, un gioco di parole, ma in realtà è una chiave per leggere il mondo.
L’essere, in quanto tale, è ciò che è.
Non può essere altro.
Non può essere diverso.

Noi ci muoviamo dentro questo essere.
Lo attraversiamo, come pesci nell’acqua.
Ci trasformiamo lungo il percorso.
Lo facciamo dall’origine fino alla fine.
Nasciamo, cresciamo, ci sviluppiamo, ci riproduciamo, invecchiamo.
E poi torniamo al silenzio.

Non accade solo a noi come individui, ma anche alle città, alle civiltà, ai popoli.
Lo sapevano bene i Greci, che avevano colto i cicli naturali dell’esistenza.
Lo riprese Giambattista Vico nei suoi corsi e ricorsi storici: la storia come un eterno ritorno, dove l’uomo avanza ma anche regredisce, si esalta e poi si dissolve.
Persino ciò che non è umano segue il proprio ciclo.
La natura non conosce pause né eccezioni.
Non esiste un “non essere” se non nella nostra mente, come distinzione, come concetto utile a orientarci.

Eppure questo pensiero non implica alcun giudizio di valore.
Non c’è primato dell’uomo sull’universo.
Non c’è centralità metafisica.
Nell’ordine del cosmo, l’Uno e il molteplice coincidono, si confondono.
Noi siamo solo una parte di un disegno che non conosciamo.
Piccola, limitata, fragile.

E tuttavia, da millenni, l’uomo sente il bisogno di andare oltre la pura natura.
Ha costruito sovrastrutture per regolare la propria vita.
Ha inventato il diritto, la morale, l’etica.
Ha scritto poemi, eretto templi, creato istituzioni, scolpito leggi nella pietra.
Ha tentato di dare un ordine alla convivenza, di trasformare l’istinto in regola.

Eppure la natura, di tanto in tanto, ritorna.
Ritorna nella forma della violenza, della guerra, della catastrofe.
Lo abbiamo visto di recente con il conflitto tra Russia e Ucraina.
Lo abbiamo visto con le guerre mondiali, con le pulizie etniche, con gli stermini.
Quando scoppia un conflitto, la barbarie riemerge da sotto la crosta della civiltà.
La ragione si piega e diventa strumento, giustificazione.
E in quei momenti ci accorgiamo che la ragione è, in fondo, una convenzione.

L’uomo è razionalità, ma anche follia.
È coscienza, ma anche inconscio.
Le nostre arti, le nostre scoperte, il nostro sapere servono a decifrarci, ma mai del tutto.
Alla fine resta sempre il dubbio: chi siamo davvero?

Protagora diceva che l’uomo è misura di tutte le cose.
Ma dopo aver visto generazioni intere ripetere gli stessi errori, ne sono meno certo.
L’uomo mi appare come un essere relativo che si illude di conoscere l’assoluto.
Un essere finito non può conoscere l’infinito.
Un essere relativo non può contenere l’assoluto.
Possiamo solo sfiorarlo, immaginarlo, intuirlo nelle notti di silenzio, davanti al cielo stellato.

La nostra molteplicità è insieme ricchezza e condanna.
Siamo ciò che siamo e non possiamo essere altro.
Eppure continuiamo a giocare con le parole.
Parliamo di uomo, di uomini, di esseri umani come se fossero sinonimi.
Le leggi li usano in modo intercambiabile: nella Dichiarazione del 1789 si parla di “uomini”, in quella del 1948 di “esseri umani”.
Ma non sono davvero la stessa cosa.

Dire “uomo” è guardare alla creatura politica di Aristotele, lo zoon politikon che vive nella polis.
Dire “essere umano” è evocare un legame con l’Essere, con ciò che ci trascende.
Nel primo caso ci accontentiamo dell’uomo che produce e agisce.
Nel secondo caso ci chiediamo cosa lo abiti, quale sia la sua connessione con l’assoluto.
E da questa domanda nascono i conflitti, le religioni, le ideologie che si contendono il monopolio del sacro.

Io stesso ho passato anni a interrogarmi su queste distinzioni.
Oggi preferisco lasciare da parte le dispute religiose.
Non per mancanza di fede, ma perché credo che la questione centrale sia un’altra: la libertà di pensiero.

È questa, a mio avviso, la vera e unica caratteristica che distingue l’essere umano dal semplice umano.
Il pensiero libero fa paura.
I governi lo temono.
Le istituzioni lo regolano, lo imbrigliano, lo limitano.
La storia lo dimostra: Galileo fu costretto all’abiura, Giordano Bruno finì al rogo, Voltaire passò anni in esilio.
Ogni volta che l’umanità attraversa una crisi – una pandemia, una guerra, un collasso economico – il rischio è di vederlo di nuovo soffocato.

La scienza, però, resiste.
Ci ha portato ai confini dell’universo, ci ha mostrato l’evoluzione, ci ha permesso di guardare dentro l’atomo.
Ha formulato la relatività, la meccanica quantistica, il Big Bang.
Ma anche la scienza ha bisogno di libertà.
Senza spirito critico, si spegne.
Se le ideologie la ingabbiano, muore.

Credo che l’uomo farà altri salti evolutivi.
Forse colonizzerà altri pianeti, forse comprenderà l’origine della coscienza, forse fonderà un’etica più universale.
Ma la condizione è una: che il potere non diventi intollerante.
Che il pensiero sia lasciato libero di camminare, di sbagliare, di mettere in discussione.

È il pensiero libero che ci eleva.
È il pensiero libero che ci permette di vedere quanto siano miseri, a volte, i nostri governanti.
È il pensiero libero che ha permesso a Mandela di resistere ventisette anni in carcere senza perdere la dignità.
È il pensiero libero che ha fatto nascere la Dichiarazione universale dei diritti umani.
Ed è proprio per questo che il potere tenta di soffocarlo.
Tutti i governi, in ogni epoca, temono le idee.
Preferiscono l’ordine alla critica, il silenzio alla poesia, il conformismo all’immaginazione.

Eppure, più una società premia il pensiero libero, più esce dalla caverna di Platone.
Lo vedo nei giovani che non si accontentano, che protestano, che rifiutano i pregiudizi.
Sono loro la prova che il pensiero critico è ancora vivo.
Quando li sento discutere di clima, di diritti, di ingiustizie, mi ricordo che il futuro non è ancora scritto.

Purtroppo, gli uomini amano le gerarchie.
Amano delegare.
Rinunciano volentieri a pensare da soli pur di sentirsi parte di un gruppo, di una fazione.
Ma questo è un male.
Perché senza pensiero libero, l’uomo è solo un animale tra gli animali.
Con il pensiero libero diventa essere umano.

Demolire stereotipi, abbattere muri, superare confini: questa è la sfida.
Guardare il cielo resta il modo migliore per ricordarsi che siamo poca cosa.
E che l’unica guida deve essere la verità.
La verità, diceva Hegel, è l’intero.
E l’assoluto è la risultante di tutte le mediazioni nel divenire.

Per questo penso che l’uomo sia solo un mediatore.
Partecipa alla trasformazione dell’assoluto, ma non lo abbraccia mai del tutto.
Le sue idee saranno sempre conflittuali, sempre in lotta.
Perché l’uomo è dentro il mondo, non fuori.
Non è spettatore, è attore.
E nel suo recitare porta il peso e la grazia del divenire.

Ecco allora il mio invito: coltiviamo il pensiero libero.
Non lasciamolo spegnere.
Solo così possiamo trascendere il relativo, sfiorare l’assoluto, contenere i nostri opposti.
Solo così possiamo restare uomini, e forse – se ci riusciremo – diventare davvero esseri umani.

Vuoi che aggiunga qualche episodio autobiografico (ad esempio ricordi di eventi storici vissuti in prima persona – il ’68, la caduta del Muro di Berlino, l’11 settembre) per dare ancora più calore e un punto di vista “da testimone del tempo”? Potrebbe arricchire il testo e avvicinarlo ancora di più alle 2500 parole.

 







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