Dai DPCM scritti alle due di notte ai decreti sicurezza di Salvini, dal Papeete Beach al “campo largo”, Giuseppe Conte si racconta al Corriere della Sera come un santone politico in versione premium: quello che spiega agli altri dove hanno sbagliato, dopo averli accompagnati per mano fino al disastro. Una riflessione personale, caustica e senza anestesia sul leader del M5S che vuole darci lezioni di coerenza, dopo aver governato con chiunque fosse disponibile a firmare un contratto di governo (aperitivi compresi).
Giuseppe Conte ha parlato. E quando Conte parla, il
tono è sempre quello: pacato, grave, compassato, come se ogni sillaba fosse
destinata ai posteri. In Calabria, Campania, Marche si è lanciato in una
crociata contro Giorgia Meloni, accusandola di aver messo l’Italia “dalla parte
sbagliata della storia” su Gaza. Frase ad effetto, titoli garantiti, applausi
assicurati. Peccato che sia lo stesso Conte che, quando era premier, teneva in
vita i decreti sicurezza di Salvini e faceva la faccia severa in conferenza
stampa mentre le ONG venivano multate per aver salvato vite in mare. Ma oggi è
diverso: oggi è il Gandhi di Volturara Appula, il pacifista indignato, il nuovo
Mandela delle dirette su Instagram. Coerenza? Cercasi.
Poi arriva l’intervista al Corriere. Conte parte in
quarta: Meloni, dice, ha distrutto Ace, Transizione 4.0 e la competitività
delle imprese. Detto da uno che durante i suoi governi cambiava i crediti
d’imposta ogni tre mesi è quasi commovente. Si preoccupa per la produzione
industriale: la stessa produzione industriale che nel 2020 si fermava per
decreto, mentre lui ci spiegava che era “un sacrificio necessario”. E il
Superbonus? Conte lo cita come un successo, ma oggi lo stesso Superbonus vale
più o meno quanto i bond argentini del 2001: una bomba a orologeria che
Giorgetti dovrà disinnescare con le pinze. Conte intanto fa spallucce: se c’è
un buco da 150 miliardi nei conti, è chiaramente colpa di chi è venuto dopo.
Capitolo Trump. Conte ci tiene a chiarire che lui con
Trump era alleato, ma “con dignità nazionale”. Certo, talmente dignitoso che
l’ex presidente americano lo chiamava “Giuseppi” e lui gongolava come uno
studente Erasmus che si sente chiamare per nome dal professore. C’è pure la
foto con il cappellino MAGA, souvenir di quella grande stagione di politica
estera: l’Italia che conta, o almeno che fa da comparsa alla Casa Bianca. Oggi,
però, Trump è diventato l’incubo e Meloni la sua segretaria: Conte non perde
occasione per dirci che la premier è “suddita di Washington”. Detto da uno che
firmava impegni NATO e poi tornava a Roma a recitare il rosario del pacifismo è
poesia pura.
Sul centrosinistra, Conte si esibisce in un pezzo di
equilibrismo. Dice che serve “unità vera, non solo apparente”, e che il
progetto deve essere “autenticamente progressista”. Autentico come il primo
governo con Salvini, quello con la flat tax promessa e la TAV rinviata. O come
il secondo governo, nato per evitare le elezioni e tenere a bada lo spread, che
si è sciolto dopo le prime manovre di Renzi. Conte parla di stabilità, ma i
suoi governi sono stati due stagioni di una serie Netflix interrotta a metà,
con cliffhanger mai risolti: la riforma della giustizia, la riforma fiscale,
l’autonomia differenziata… tutte promesse rimaste nella cartella “bozze”.
E i DPCM? Quelli sono il vero marchio di fabbrica del
contismo: atti firmati di notte, annunciati in diretta Facebook alle 23:30, con
l’Italia intera davanti allo schermo a chiedersi se l’indomani avrebbe potuto
uscire a comprare il pane. Conte era il preside d’Italia: “State a casa, fate i
bravi, il Natale ve lo faccio sapere il 24 sera”. Oggi lo stesso Conte si
presenta come il paladino della libertà, quello che difende i diritti civili e
denuncia la “deriva autoritaria” di Meloni. Sembra quasi una candid camera:
l’uomo che ha inventato l’autocertificazione per uscire di casa oggi accusa gli
altri di restringere le libertà.
E non mancano le perle di etica politica. Conte parla
di “legalità, rinnovamento, giustizia sociale” con l’aria del parroco in
missione. Ma sotto i suoi governi abbiamo visto il CSM in pieno scandalo
Palamara, Arcuri commissario alle mascherine che comprava a prezzi gonfiati, e
i famosi banchi a rotelle, diventati il simbolo del più grande spreco di denaro
pubblico mai seduto in aula. Ma Conte non si scompone: per lui il problema è
sempre “degli altri”. Anche quando nel Movimento 5 Stelle volavano gli stracci,
con Di Battista in fuga, Casaleggio contro, Fico e Di Maio in faida permanente,
Conte manteneva la calma zen: “scaramucce dialettiche”. Traduzione: tutto sotto
controllo, tranne il controllo.
La frase sulla “vecchia italietta che non mantiene i
patti” è un capolavoro. Conte ci avverte che rischiamo di tornare a essere
inaffidabili in Europa. Detto dall’uomo che ha tenuto bloccato il MES per mesi
per paura di scontentare i suoi senatori è un po’ come sentirsi dare lezioni di
puntualità da Trenitalia a Ferragosto. Conte è il re del rinvio: TAP, TAV,
Ilva, Autostrade, ogni dossier finiva congelato in attesa di “ulteriori
approfondimenti”. Oggi ci dice che serve serietà. Bene, professore: ma forse un
ripassino sul proprio libretto universitario non guasterebbe.
Sul ceto medio, poi, Conte si trasforma in un’icona
pop. Dice che vuole proteggerlo, difenderlo, rilanciarlo. Lo stesso ceto medio
che durante i suoi governi ha visto aumentare le bollette, sparire il lavoro
precario che dava ossigeno e subire chiusure infinite. Ma Conte ha sempre
pronto il tono da psicologo: “Abbiate fiducia, stiamo lavorando per voi”.
Risultato: mezza Italia in fila per il bonus monopattino e l’altra mezza a
chiedersi se fosse vero che non poteva uscire a correre dopo le 18.
Conte è il leader perfetto per l’Italia del talk show:
elegante, verboso, mai sopra le righe, ma sempre pronto a spiegarti perché la
colpa non è sua. Ha governato con Salvini e poi con Zingaretti, ha stretto
accordi con Trump e poi con Ursula, ha firmato decreti con Di Maio e poi con
Franceschini. E oggi è l’uomo della coerenza, quello che unisce la sinistra, che
parla di giustizia sociale, che si batte contro le spese militari. Il fatto che
proprio lui abbia firmato quegli impegni? Dettagli tecnici.
Alla fine, la sensazione è sempre la stessa: Conte non
è mai dove sbaglia. Se qualcosa va bene, merito suo. Se qualcosa va male, colpa
degli altri. È l’ex che ti spiega che la relazione è finita perché tu non eri
pronto, mica perché ti ha tradito. E l’Italia, come sempre, rischia di cascarci
di nuovo. Perché Conte, bisogna ammetterlo, sa parlare: sa dosare le parole, sa
usare il tono giusto, sa lanciare lo slogan che funziona. È il politico che non
urla, che non insulta, che sembra sempre al di sopra delle parti. Peccato che
le parti le abbia cambiate più volte di un attore in tournée.
Conte oggi dice che spera di dare “uno scossone” a
Meloni con le Regionali. Ma lo scossone più grande l’abbiamo già avuto: due
anni di governi Conte, una pandemia gestita a colpi di DPCM, bonus distribuiti
come coriandoli, rinvii a raffica e un Paese che si svegliava ogni giorno
chiedendosi se fosse zona gialla, arancione o rossa. Forse l’Italia, prima di
prendersi un altro scossone, dovrebbe chiedersi se ha ancora i nervi per
reggerlo.


0 comments:
Posta un commento