15 ottobre 2025

Landini, il sindacalista che sogna il Parlamento.

Gli scioperi “per la pace” servono più a lui che ai lavoratori. E il sospetto cresce: Landini usa la CGIL come trampolino politico.

Maurizio Landini parla di “pace”, ma intanto prepara lo sciopero del 25 ottobre contro il riarmo. Un gesto simbolico che sembra più un test di popolarità che una battaglia sindacale. Il dubbio cresce: sta ancora difendendo i lavoratori o già pensa a una poltrona in Parlamento?


“È facile fare il pacifista con lo stipendio garantito. Meno facile spiegare agli operai che scioperano contro il proprio lavoro perché lo chiede il loro segretario generale.”


Maurizio Landini si presenta come la voce dei lavoratori. Ma a sentirlo parlare, viene da pensare che stia usando quella voce per parlare di sé stesso.

Da tempo, il leader della CGIL sembra più interessato alla scena politica che alla contrattazione sindacale. Ora arriva lo sciopero “contro il riarmo”, una scelta che più che difendere la classe operaia la mette in difficoltà.

Le fabbriche della difesa — Leonardo, Fincantieri, e tutto l’indotto — guardano con preoccupazione. Perché quando un sindacato scende in piazza contro le armi, a rischiare il posto non è il segretario, ma l’operaio.

 

Un piede in fabbrica, l’altro in Parlamento

 

È la domanda che molti, anche dentro la CGIL, si stanno ponendo: Landini si prepara a entrare in politica?


Le sue parole, i toni, perfino le piazze sembrano quelle di un candidato in campagna elettorale.
Parla di “pace nel mondo”, ma non dice nulla sulla pace nelle buste paga. E così, mentre le sigle sorelle — Cisl e Uil — lavorano a tavoli concreti, Landini preferisce i microfoni e le dirette TV.

Il risultato? Un sindacato che fa più rumore che risultati.

Un leader che usa la causa pacifista per alimentare la propria immagine pubblica.

 

La pace a spese di chi lavora

 

Dietro la retorica del “no al riarmo” si nasconde un paradosso gigantesco: Landini chiede sacrifici proprio a chi non può permetterseli.

Scioperi, giornate perse, stipendi più leggeri — tutto in nome di una “pace” che resta solo uno slogan.

Cisl e Uil hanno ragione a ironizzare: “Siamo su Scherzi a parte?”

Perché la vera pace, per chi lavora, si chiama contratto rinnovato. Si chiama stipendio dignitoso. Tutto il resto è teatro.

 

Il teatro del protagonismo

 

Landini non rappresenta più i lavoratori: li interpreta.

Ogni sciopero, ogni comizio, ogni slogan sembra pensato per i titoli dei giornali, non per i tavoli di trattativa.

Il sindacato è diventato il suo palco personale. E la CGIL, una macchina elettorale in attesa di una nuova destinazione politica.

 

E i lavoratori? Sempre gli ultimi

 

E qui sta la domanda che nessuno, in via ufficiale, osa fargli:

Cosa ne pensano davvero i lavoratori di Landini?

Davvero credono che scioperare per la “pace” aiuti la loro causa? O hanno capito che il loro leader ha smesso di difenderli, e ora difende solo la propria carriera?

Landini non vuole la pace. Vuole il potere.

E come sempre, il prezzo lo pagheranno loro: gli operai, gli impiegati, i precari — gli unici che non possono permettersi di giocare alla politica.

 


on mercoledì, ottobre 15, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

28 settembre 2025

La Barbiera di Arbus: la mia esperienza tra memoria, bellezza e identità

Storia, incontri e riflessioni personali in un viaggio che unisce cultura, artigianato ed emancipazione femminile nel cuore della Costa Verde.


Ho sempre creduto che i luoghi abbiano un’anima. Non parlo solo delle città, dei paesaggi o dei monumenti che raccontano una storia con la loro imponenza o con la loro fragilità, ma anche di spazi più piccoli, apparentemente quotidiani, che custodiscono memorie invisibili. Una bottega, ad esempio, può diventare una lente attraverso cui osservare un mondo intero.

È quello che ho provato ad Arbus, piccolo centro della Costa Verde, dove la natura si esprime in tutta la sua forza selvaggia e la memoria delle miniere continua a permeare il presente. Qui ho scoperto un luogo che, almeno per me, ha cambiato il modo di guardare al concetto stesso di bellezza: La Bottega dell’Artista, il salone guidato da Daniela Sardu, conosciuta da molti come La Barbiera.

L’incontro con la storia di Daniela

Non ho conosciuto Daniela entrando nel suo salone, come potrebbe accadere a un cliente, ma durante una conferenza al Museo Antonio Corda. Era un evento dedicato alla storia dei barbieri di Arbus, figure che per generazioni hanno rappresentato molto più di un mestiere: erano custodi di storie, confidenti, mediatori, veri e propri punti di riferimento sociali.

Ricordo bene l’atmosfera di quella sala conferenze. Seduto tra il pubblico, ascoltavo racconti che mi riportavano indietro nel tempo, a un’epoca in cui la barberia non era solo il luogo dove ci si prendeva cura di barba e capelli, ma uno spazio vivo, pulsante, attraversato dalle chiacchiere quotidiane, dalle confidenze, a volte persino dalle decisioni collettive. Era, in fondo, un luogo di comunità.

In quell’occasione, i partecipanti condividevano aneddoti, ricordi personali e curiosità legate a un mestiere che oggi sembra quasi marginale, ma che un tempo aveva un ruolo centrale nella vita dei paesi.

Una figura che rompe gli schemi

Ho potuto conoscere davvero chi è La Barbiera grazie a un intreccio di voci e di testimonianze. I racconti dei partecipanti, uniti ai dettagli preziosi che mi sono stati riferiti, e soprattutto le parole dello stesso Antonio Corda, hanno contribuito a restituirmi il ritratto di una donna che ha saputo affermarsi con competenza e coraggio in un mestiere tradizionalmente maschile.

Non una ribellione urlata, ma una scelta di professionalità e passione. Il suo percorso mi è sembrato subito emblematico: la dimostrazione che anche i luoghi più umili, come una barberia di paese, possono custodire storie di emancipazione e di cambiamento sociale.

Una bottega immaginata attraverso i racconti

Io non sono mai entrato fisicamente nella Bottega dell’Artista. Eppure, ascoltando le parole di chi la conosce e i dettagli emersi durante la conferenza, è stato come se ci fossi stato. Quelle descrizioni mi hanno proiettato dentro il salone di Daniela, quasi potessi vederlo con i miei occhi.

Ho immaginato un luogo che non si presenta come uno spazio anonimo, standardizzato, privo di identità, ma come un ambiente capace di trasmettere calore e carattere. Un posto dove la bellezza non è solo un servizio estetico, ma un’esperienza più ampia, costruita attorno alla persona.

Dai racconti ho colto la naturalezza con cui Daniela accoglie i suoi clienti e la passione che trasmette nel suo lavoro. Ho immaginato il modo in cui ogni taglio, ogni acconciatura o rasatura non siano mai gesti automatici, ma frutto di ascolto, di dialogo, di interpretazione.

La bellezza come linguaggio

Quello che più mi ha colpito, attraverso le testimonianze, è l’idea della bellezza trattata come linguaggio. Non artificio, non vanità, ma strumento di espressione personale. Ogni look nasce da un equilibrio tra desiderio, tendenze e professionalità.

Questo approccio mi ha fatto pensare alle barberie di un tempo: allora il barbiere era confidente, oggi la barbiera diventa interprete di personalità. Al centro, ieri come oggi, resta la persona.

Un atelier più che un salone

Il nome stesso, La Bottega dell’Artista, racconta molto. Dalle parole dei testimoni ho immaginato un luogo che somiglia più a un atelier che a un salone tradizionale. Un posto in cui l’ambiente stesso trasmette creatività, quasi fosse un invito a vivere la bellezza come un atto artistico.

Ecco perché chi lo frequenta non parla soltanto della qualità dei servizi, ma dell’esperienza complessiva. Non si tratta solo di estetica, ma di sentirsi accolti e valorizzati.

L’importanza delle tendenze

Nei racconti emergeva spesso un concetto: l’attenzione costante alle nuove tendenze. Daniela non si limita a seguirle, ma le interpreta, le filtra, le adatta. Così anche i look più contemporanei non risultano mai impersonali, ma coerenti con chi li porta.

È un approccio che mi ha colpito: il rispetto per la persona viene sempre prima della moda.

L’eredità della tradizione

Allo stesso tempo, ho percepito chiaramente il legame con la tradizione. Quelle storie ascoltate al museo continuano a risuonare in ogni descrizione della sua bottega. È come se Daniela avesse raccolto un testimone invisibile, mantenendo vivo un mestiere che ad Arbus non è mai stato soltanto un lavoro, ma una parte della vita sociale.

La sua figura, per come mi è stata raccontata, appare come quella di una custode di memoria, capace di tenere insieme passato e presente, radici e innovazione.

Oltre il servizio: un’esperienza

Da ciò che ho raccolto, mi sono convinto che La Bottega dell’Artista non sia semplicemente un salone. È un luogo che restituisce alla cura della persona la sua dimensione più autentica: un’esperienza fatta di relazione, identità e attenzione.

Non si esce solo con un taglio o una rasatura. Si porta con sé un senso di benessere più profondo, una consapevolezza nuova di sé stessi.

Un simbolo per Arbus e la Costa Verde

In un territorio come la Costa Verde, raccontato spesso solo per le sue bellezze naturali o per il passato minerario, la presenza di La Bottega dell’Artista aggiunge un tassello prezioso. È il simbolo di un’Arbus diversa: creativa, aperta, capace di rinnovarsi senza dimenticare le proprie radici.

Daniela Sardu, con la sua storia, rappresenta tutto questo. Una donna che ha saputo intrecciare la memoria dei barbieri di paese con la modernità del settore beauty, trasformando la sua professione in un racconto di emancipazione e passione.

In sintesi

Se dovessi riassumere la mia esperienza, direi che conoscere La Barbiera di Arbus attraverso i racconti della conferenza è stato come viaggiare due volte: nel passato, tra le barberie di comunità, e nel presente, dentro un salone che non ho visitato fisicamente, ma che ho potuto immaginare con vividezza grazie alle parole degli altri.

Il museo mi ha offerto le chiavi per leggere questa storia. I partecipanti hanno contribuito con le loro memorie. Antonio Corda ha fornito la cornice storica. E tutti insieme mi hanno permesso di comprendere cosa significhi oggi essere La Barbiera di Arbus.

La bellezza, ho capito, non è mai solo estetica. È relazione, identità, memoria viva. Ed è questa consapevolezza che rende la storia di Daniela Sardu così speciale, anche per chi, come me, l’ha conosciuta attraverso i racconti.


on domenica, settembre 28, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

24 settembre 2025

Ilaria Salis, la pasionaria del “no” perpetuo

Dalle occupazioni abusive al carcere, dai decreti sicurezza alle periferie: una politica che non costruisce nulla, ma si limita a demolire con slogan ideologici.


Ho visto passare tanti volti nella politica italiana. Ho ascoltato comizi infuocati, dichiarazioni roboanti, promesse che sembravano rivoluzioni e che poi si sono sciolte come neve al sole. Con l’età impari a riconoscere i copioni, a distinguere chi parla per proporre e chi parla solo per demolire. E guardando Ilaria Salis, oggi, non posso che vederla nel secondo gruppo.

Questa giovane donna, assurta in pochi mesi al rango di simbolo di battaglie civili e diritti negati, è in realtà l’espressione più cristallina di un’antipolitica che si traveste da militanza. Un’antipolitica che non costruisce, che non cerca soluzioni, che non si sporca le mani con la fatica dei compromessi. Una voce che conosce una sola parola: “no”.

Quando sento parlare Salis, riconosco lo schema che ho già visto mille volte negli anni Settanta, negli Ottanta, e perfino negli anni di piombo. È il linguaggio dell’antagonismo: lo Stato è sempre il nemico, le istituzioni sono sempre corrotte o oppressive, le leggi sono sempre strumenti di repressione.

Non c’è spazio per sfumature. Non c’è spazio per la complessità. Non c’è spazio per la responsabilità individuale.

Prendiamo il Decreto Sicurezza 2025, uno dei temi su cui Salis si è scagliata con più veemenza. Un provvedimento che, piaccia o non piaccia, nasce da richieste concrete: pene più severe per chi aggredisce forze dell’ordine, maggiori tutele per gli anziani truffati, norme più chiare contro le occupazioni abusive. Io stesso, che ho l’età per ricordare quando il quartiere era un luogo di comunità e non di paura, so bene che questi problemi non sono invenzioni della propaganda. Sono ferite vere, che segnano la vita quotidiana delle persone comuni.

Eppure Salis liquida tutto con una frase: “coacervo di norme liberticide”. Eccolo, il solito slogan. Non una parola sul pensionato che perde i risparmi di una vita perché raggirato da criminali. Non un pensiero per la giovane agente di polizia che rischia la pelle in strada. Non un cenno ai cittadini che si trovano la casa occupata da estranei. Tutto ridotto a una formula ideologica: repressione.

Mi chiedo: possibile che una parlamentare europea non riesca a distinguere tra un diritto e un abuso? Tra la tutela di chi subisce e la punizione di chi infrange la legge? È davvero questo il livello del dibattito?

Per Salis, evidentemente sì. Perché la sua bussola non è la realtà, ma il pregiudizio. E il pregiudizio dice che se una legge la propone Meloni, allora è fascista, repressiva, violenta.

Il discorso diventa ancora più rivelatore quando si parla di occupazioni abusive. Qui Salis mostra tutta la sua coerenza ideologica, nel senso peggiore del termine. Non è un segreto che lei abbia militato nei movimenti per la casa e che rivendichi con orgoglio quell’esperienza.

Ora, io ho vissuto gli anni in cui le case popolari erano davvero poche, e so che il diritto all’abitare è un tema serio, serissimo. Ma so anche che c’è una differenza enorme tra chiedere più alloggi sociali e difendere chi forza la porta di un appartamento. La prima è una battaglia politica legittima, la seconda è un atto illegale.

Salis, invece, mescola tutto. Parla di “criminalizzazione del disagio”, di “vergogna che ci siano case vuote e persone senza casa”. Certo, lo dice con passione, ma dimentica chi quella casa vuota magari l’ha ereditata, chi ci ha risparmiato per anni, chi si trova improvvisamente privato della sua proprietà. Nella sua narrazione non esistono. Spariscono. Le vittime non contano.

È un ribaltamento che ho già visto tante volte: il colpevole trasformato in eroe, la legge trasformata in oppressione, la vittima ridotta al silenzio. È lo stesso schema degli anni in cui si giustificava ogni illegalità con la scusa della “lotta al sistema”.

Ma il risultato, allora come oggi, è solo caos.

Poi c’è il capitolo carceri e Decreto Caivano. Qui la retorica di Salis raggiunge livelli quasi caricaturali. Quando il governo decide di intervenire sui minori recidivi, dopo episodi gravissimi di violenza nelle periferie, lei parla di “modello repressivo e violento”.

Io le periferie le ho viste crescere e degradarsi, ho visto interi quartieri cadere nelle mani della microcriminalità. Ho visto ragazzini di tredici anni girare armati. Dire che lo Stato non deve intervenire con strumenti più forti significa condannare chi in quei quartieri ci vive e non ha alternative.

Ma Salis non parla di loro. Parla dei ragazzi arrestati, mai delle famiglie che subiscono. Parla di repressione, mai di protezione. Parla di carcere come gabbia, mai come deterrente.

La verità è che la sua visione è sempre e solo una: il detenuto è una vittima del sistema, il criminale è frutto dell’ingiustizia sociale, lo Stato è un carnefice. Una semplificazione che può scaldare i cuori di qualche manifestante, ma che non risolve nulla.

E così torniamo al punto: la politica di Ilaria Salis non è fatta di proposte, ma di demolizioni. Ogni volta che il governo mette mano a un provvedimento, lei è pronta con l’aggettivo: “repressivo”, “fascista”, “liberticida”. È un repertorio di slogan che conosciamo a memoria.

Eppure, quando arriva il momento di dire cosa fare al posto di quelle leggi, il silenzio è assordante. Perché proporre è difficile, richiede studio, compromessi, capacità di ascolto. Urlare, invece, è facile.

La differenza la vedo chiaramente perché ho vissuto i decenni in cui l’Italia cercava di ricostruirsi, di trovare un equilibrio tra diritti e doveri. Ricordo le lotte sindacali che chiedevano case popolari, ma lo facevano rispettando la legge. Ricordo politici che sapevano dire “no” ma sapevano anche presentare alternative credibili.

Oggi, invece, vedo una politica che si riduce a megafono di un antagonismo sterile. E Ilaria Salis ne è la rappresentazione perfetta.

Non fraintendetemi: criticare il governo è legittimo, sacrosanto. Anch’io, che non ho mai avuto tessere di partito, ho criticato governi di ogni colore. Ma la critica deve essere accompagnata da una proposta, da un’alternativa. Altrimenti resta solo rabbia sterile.

Salis, invece, sembra vivere solo di quella rabbia. Ogni sua uscita è un atto d’accusa, mai un contributo. Ogni parola è un dito puntato, mai una mano tesa.

Forse è anche una questione generazionale. Io appartengo a una generazione che ha conosciuto la fame, che ha visto la guerra e la ricostruzione. Per noi la legge era fatica, sacrificio, ordine. Per molti giovani politici di oggi, la legge è solo un ostacolo, una gabbia, qualcosa da abbattere.

Ma senza regole non c’è società. Senza responsabilità non c’è libertà. E senza la capacità di distinguere tra chi subisce e chi aggredisce, tra chi rispetta e chi viola, non c’è giustizia.

Ilaria Salis ha scelto di incarnare la pasionaria del “no” perpetuo. Non importa quale sia il tema: sicurezza, carceri, occupazioni. Lei dirà sempre che è repressione. È un ruolo comodo, perché non richiede di sporcarsi le mani con la realtà. È un ruolo che attira applausi facili e titoli di giornale.

Ma è anche un ruolo inutile, se non dannoso. Perché il Paese ha bisogno di chi costruisce, non di chi smonta. Ha bisogno di soluzioni, non di slogan. Ha bisogno di politici che parlino ai cittadini, non di tribuni che parlino contro lo Stato.

Guardando Salis, io non vedo il futuro. Vedo un passato che ritorna, con gli stessi errori e le stesse illusioni. Vedo una politica che si nutre di conflitto senza offrire speranza. Vedo un volto giovane che recita un copione vecchio.

E a chi, come me, ha vissuto abbastanza per conoscere il valore della stabilità, tutto questo appare non come una rivoluzione, ma come una stanca ripetizione.








on mercoledì, settembre 24, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

21 settembre 2025

Conte, vittima per professione

 "Ci attaccano tutti, quindi abbiamo ragione noi": il mantra che non convince più nessuno!


Ho settantadue anni. Non sono un giornalista, non sono un politico, non sono un esperto da talk show. Sono un semplice cittadino che ha passato la vita a pagare le tasse, a guardare i telegiornali, a votare sperando che le cose migliorassero. Ho visto di tutto: Moro rapito, Craxi in fuga, Berlusconi che giura di “scendere in campo”, Prodi che cade per un voto, Monti che arriva dall’Europa, Renzi che “rottama” e poi si rottama da solo. Ho visto gente promettere miracoli e finire a fare figure da barzelletta.

E dopo aver visto tutto questo, mi arriva davanti agli occhi la lettera aperta di Giuseppe Conte, quella dell’ ottobre 2023, intitolata “a chi infama me e il Movimento 5Stelle”. La leggo tutta, fino all’ultima parola. E sapete cosa penso? Che sembra scritta più per farsi applaudire dai suoi che per parlare a chiunque abbia un dubbio.

Sempre la stessa storia

Conte ci dice che lui e il Movimento sono stati infamati, che l’accusa di antisemitismo è ingiusta, che qualcuno ha passato il segno. Tutto legittimo. Ma il tono… il tono è quello del predicatore che arringa la folla in piazza, non di un ex premier che vuole chiarire una posizione.

La storia è sempre la stessa: noi buoni, loro cattivi. Noi difensori della verità, loro fabbricatori di menzogne. Noi dalla parte giusta della storia, loro complici del marcio. Ho settantadue anni, e questo film l’ho già visto troppe volte. Lo proiettavano anche negli anni ’70, quando ogni partito si dichiarava “l’unico baluardo contro il complotto”.

Conte non lascia nemmeno uno spiraglio di dubbio. Non dice: “forse ci siamo espressi male, forse c’è stato un fraintendimento, forse potevamo chiarire meglio”. No. Per lui la colpa è sempre e solo degli altri. La stampa, le comunità ebraiche, gli avversari politici, persino l’opinione pubblica “male informata”.

Il curriculum come scudo

E poi la parte più divertente: il curriculum. Perché questa lettera sembra un’autobiografia. Conte elenca le sue grandi opere da premier, ricorda di aver adottato la definizione di antisemitismo dell’IHRA, di aver nominato un coordinatore, di aver parlato in sinagoga.

Bravo, Giuseppe. Nessuno te lo toglie. Ma qui non stiamo facendo un concorso pubblico per assumerti di nuovo a Palazzo Chigi. Qui si parla di una critica attuale, e tu rispondi con un elenco di medaglie appuntate al petto.

È un po’ come se uno venisse beccato a passare col rosso e dicesse: “Sì, ma io vent’anni fa ho salvato un gattino dall’albero”. Bravo per il gattino, ma il semaforo era rosso.

Colpo basso a Meghnagi

Il passaggio su Walker Meghnagi è quello che mi ha fatto davvero arrabbiare. Conte non si limita a dire che l’accusa è sbagliata: lo accusa di ingannare i cittadini, di “dire falsità”, di fare politica dietro il paravento del ruolo istituzionale.

E ciliegina sulla torta, annuncia che agirà in giudizio.

Ora, sarò un vecchio sentimentale, ma a me questa sembra più una minaccia che una replica. Come a dire: “state attenti a quello che dite, perché poi vi porto in tribunale”.

Ecco, questo non mi piace. Non mi piace perché in una democrazia ci deve essere spazio per la parola dura, anche per l’esagerazione. Ci devono essere scontri, polemiche, anche accuse sbagliate – e risposte forti. Ma la risposta forte non deve essere: “ci vediamo in tribunale”.

Conte avrebbe potuto dire: “Le sue parole sono gravi, sbagliate, offensive. Io le respingo e sono disponibile a un confronto pubblico per chiarire le posizioni”. Invece no: ha preferito alzare il muro, cercare lo scontro, quasi voler trasformare Meghnagi in un nemico pubblico.

Sempre la stampa nel mirino

Naturalmente non poteva mancare il capitolo dedicato alla stampa. “Macchina del fango”, “attacchi preordinati”, giornali che ci attaccano “a prescindere”.

Giuseppe, per carità. Questo disco è graffiato. Ogni politico che conosco, quando è in difficoltà, tira fuori la storia della stampa cattiva. Lo faceva Berlusconi (“i comunisti hanno i giornali!”), lo faceva Renzi (“i giornali remano contro!”), lo fa Salvini un giorno sì e l’altro pure.

La verità è che i giornali fanno il loro mestiere: criticano. A volte sbagliano, a volte esagerano, ma se ogni critica diventa un “attacco orchestrato”, il risultato è che i cittadini finiscono per non credere più a nessuno.

E quando i cittadini non credono più a nessuno, vince solo il caos.

La pace, ma in versione comizio

Arriviamo al capitolo sulla pace. Conte scrive che oggi invocare la pace è diventato uno scandalo, che chi parla di cessate il fuoco viene etichettato come filo-russo, filo-palestinese, filo-qualcosa.

Verissimo. Ma il tono è quello del profeta incompreso: “noi siamo gli unici che parlano di pace, tutti gli altri vogliono la guerra”.

Giuseppe, la pace non è un hashtag. Non è una bandierina da sventolare in piazza per prendersi l’applauso. La pace è una fatica bestiale, è diplomazia, è compromesso, è sedersi al tavolo con gente che ti sta antipatica e trovare un accordo.

E lo dico io che ho vissuto la guerra fredda, che ho visto Reagan e Gorbaciov stringersi la mano, che ricordo i negoziati di Oslo e il Nobel a Rabin e Arafat. Non c’era Twitter, non c’erano dirette Facebook: c’era gente che lavorava giorno e notte in silenzio per trovare un punto di incontro.

Vittimismo permanente

Quello che davvero mi lascia l’amaro in bocca è la sensazione che questa lettera sia stata scritta non per spiegare, ma per mobilitare. Non per chiarire, ma per compattare la truppa. È il classico “noi contro il mondo”, il modo migliore per ottenere applausi a scena aperta.

Ma così si chiudono i ponti. Si alzano i muri. Si spacca ancora di più un Paese che è già diviso su tutto: sulla guerra, sulla pandemia, sulle tasse, persino sul calcio.

E io, da vecchio cittadino che ne ha viste troppe, sono stanco. Sono stanco di politici che fanno i martiri per ogni critica, che trasformano ogni polemica in un atto di persecuzione, che gridano al complotto appena le cose si mettono male.

Conclusione: basta teatrini, serve serietà

Conte dice che continuerà a parlare di pace. Bene. Ma la pace comincia dalle parole. E le sue, questa volta, sono parole che dividono, non che uniscono.

Io non voglio più vedere leader che si arrampicano sul palco del vittimismo per prendersi l’applauso. Voglio politici che si sporcano le mani con la realtà, che rispondono con i fatti, che spiegano con calma e con chiarezza.

Giuseppe Conte ha perso un’occasione. Poteva dimostrare statura. Poteva dire: “abbiamo posizioni diverse, parliamone, chiariremo”. Poteva aprire un tavolo, invece di aprire un contenzioso.

Ha scelto la strada del tribuno. Ha scelto la piazza virtuale, le frasi a effetto, il muro contro muro.

E allora, da cittadino, lo dico senza giri di parole: io non ci casco più. Non mi interessa chi grida più forte, mi interessa chi trova soluzioni. E le soluzioni, caro Giuseppe, non si trovano accusando mezzo Paese di voler infamare te e il Movimento.

Perché, come diceva mia nonna, quando tutti ce l’hanno con te, forse non sono sempre gli altri ad avere torto.












on domenica, settembre 21, 2025 by Paolo Corrias | Leave a comment 

20 settembre 2025

Oltre l’uomo: Il peso del pensiero e del tempo

 Riflessioni di un uomo che ha attraversato stagioni e tempeste.


Ho passato la vita a osservare l’uomo.
Non solo me stesso, ma l’uomo in generale, l’umanità intera.
L’ho visto crescere, cambiare, esaltarsi per i propri traguardi e disperarsi per le proprie cadute.
L’ho visto capace di slanci di generosità e di abissi di crudeltà.
E oggi, dopo molti decenni trascorsi tra libri, discussioni e viaggi, posso dire che la domanda sul senso dell’essere umano resta aperta, esattamente come quando, giovane e affamato di verità, leggevo Parmenide e mi illudevo che la filosofia potesse spiegare tutto.

Parafrasando quel vecchio pensatore, direi che l’essere umano è, e non può non essere.
E l’essere non umano non può essere umano.
Potrebbe sembrare un sofisma, un gioco di parole, ma in realtà è una chiave per leggere il mondo.
L’essere, in quanto tale, è ciò che è.
Non può essere altro.
Non può essere diverso.

Noi ci muoviamo dentro questo essere.
Lo attraversiamo, come pesci nell’acqua.
Ci trasformiamo lungo il percorso.
Lo facciamo dall’origine fino alla fine.
Nasciamo, cresciamo, ci sviluppiamo, ci riproduciamo, invecchiamo.
E poi torniamo al silenzio.

Non accade solo a noi come individui, ma anche alle città, alle civiltà, ai popoli.
Lo sapevano bene i Greci, che avevano colto i cicli naturali dell’esistenza.
Lo riprese Giambattista Vico nei suoi corsi e ricorsi storici: la storia come un eterno ritorno, dove l’uomo avanza ma anche regredisce, si esalta e poi si dissolve.
Persino ciò che non è umano segue il proprio ciclo.
La natura non conosce pause né eccezioni.
Non esiste un “non essere” se non nella nostra mente, come distinzione, come concetto utile a orientarci.

Eppure questo pensiero non implica alcun giudizio di valore.
Non c’è primato dell’uomo sull’universo.
Non c’è centralità metafisica.
Nell’ordine del cosmo, l’Uno e il molteplice coincidono, si confondono.
Noi siamo solo una parte di un disegno che non conosciamo.
Piccola, limitata, fragile.

E tuttavia, da millenni, l’uomo sente il bisogno di andare oltre la pura natura.
Ha costruito sovrastrutture per regolare la propria vita.
Ha inventato il diritto, la morale, l’etica.
Ha scritto poemi, eretto templi, creato istituzioni, scolpito leggi nella pietra.
Ha tentato di dare un ordine alla convivenza, di trasformare l’istinto in regola.

Eppure la natura, di tanto in tanto, ritorna.
Ritorna nella forma della violenza, della guerra, della catastrofe.
Lo abbiamo visto di recente con il conflitto tra Russia e Ucraina.
Lo abbiamo visto con le guerre mondiali, con le pulizie etniche, con gli stermini.
Quando scoppia un conflitto, la barbarie riemerge da sotto la crosta della civiltà.
La ragione si piega e diventa strumento, giustificazione.
E in quei momenti ci accorgiamo che la ragione è, in fondo, una convenzione.

L’uomo è razionalità, ma anche follia.
È coscienza, ma anche inconscio.
Le nostre arti, le nostre scoperte, il nostro sapere servono a decifrarci, ma mai del tutto.
Alla fine resta sempre il dubbio: chi siamo davvero?

Protagora diceva che l’uomo è misura di tutte le cose.
Ma dopo aver visto generazioni intere ripetere gli stessi errori, ne sono meno certo.
L’uomo mi appare come un essere relativo che si illude di conoscere l’assoluto.
Un essere finito non può conoscere l’infinito.
Un essere relativo non può contenere l’assoluto.
Possiamo solo sfiorarlo, immaginarlo, intuirlo nelle notti di silenzio, davanti al cielo stellato.

La nostra molteplicità è insieme ricchezza e condanna.
Siamo ciò che siamo e non possiamo essere altro.
Eppure continuiamo a giocare con le parole.
Parliamo di uomo, di uomini, di esseri umani come se fossero sinonimi.
Le leggi li usano in modo intercambiabile: nella Dichiarazione del 1789 si parla di “uomini”, in quella del 1948 di “esseri umani”.
Ma non sono davvero la stessa cosa.

Dire “uomo” è guardare alla creatura politica di Aristotele, lo zoon politikon che vive nella polis.
Dire “essere umano” è evocare un legame con l’Essere, con ciò che ci trascende.
Nel primo caso ci accontentiamo dell’uomo che produce e agisce.
Nel secondo caso ci chiediamo cosa lo abiti, quale sia la sua connessione con l’assoluto.
E da questa domanda nascono i conflitti, le religioni, le ideologie che si contendono il monopolio del sacro.

Io stesso ho passato anni a interrogarmi su queste distinzioni.
Oggi preferisco lasciare da parte le dispute religiose.
Non per mancanza di fede, ma perché credo che la questione centrale sia un’altra: la libertà di pensiero.

È questa, a mio avviso, la vera e unica caratteristica che distingue l’essere umano dal semplice umano.
Il pensiero libero fa paura.
I governi lo temono.
Le istituzioni lo regolano, lo imbrigliano, lo limitano.
La storia lo dimostra: Galileo fu costretto all’abiura, Giordano Bruno finì al rogo, Voltaire passò anni in esilio.
Ogni volta che l’umanità attraversa una crisi – una pandemia, una guerra, un collasso economico – il rischio è di vederlo di nuovo soffocato.

La scienza, però, resiste.
Ci ha portato ai confini dell’universo, ci ha mostrato l’evoluzione, ci ha permesso di guardare dentro l’atomo.
Ha formulato la relatività, la meccanica quantistica, il Big Bang.
Ma anche la scienza ha bisogno di libertà.
Senza spirito critico, si spegne.
Se le ideologie la ingabbiano, muore.

Credo che l’uomo farà altri salti evolutivi.
Forse colonizzerà altri pianeti, forse comprenderà l’origine della coscienza, forse fonderà un’etica più universale.
Ma la condizione è una: che il potere non diventi intollerante.
Che il pensiero sia lasciato libero di camminare, di sbagliare, di mettere in discussione.

È il pensiero libero che ci eleva.
È il pensiero libero che ci permette di vedere quanto siano miseri, a volte, i nostri governanti.
È il pensiero libero che ha permesso a Mandela di resistere ventisette anni in carcere senza perdere la dignità.
È il pensiero libero che ha fatto nascere la Dichiarazione universale dei diritti umani.
Ed è proprio per questo che il potere tenta di soffocarlo.
Tutti i governi, in ogni epoca, temono le idee.
Preferiscono l’ordine alla critica, il silenzio alla poesia, il conformismo all’immaginazione.

Eppure, più una società premia il pensiero libero, più esce dalla caverna di Platone.
Lo vedo nei giovani che non si accontentano, che protestano, che rifiutano i pregiudizi.
Sono loro la prova che il pensiero critico è ancora vivo.
Quando li sento discutere di clima, di diritti, di ingiustizie, mi ricordo che il futuro non è ancora scritto.

Purtroppo, gli uomini amano le gerarchie.
Amano delegare.
Rinunciano volentieri a pensare da soli pur di sentirsi parte di un gruppo, di una fazione.
Ma questo è un male.
Perché senza pensiero libero, l’uomo è solo un animale tra gli animali.
Con il pensiero libero diventa essere umano.

Demolire stereotipi, abbattere muri, superare confini: questa è la sfida.
Guardare il cielo resta il modo migliore per ricordarsi che siamo poca cosa.
E che l’unica guida deve essere la verità.
La verità, diceva Hegel, è l’intero.
E l’assoluto è la risultante di tutte le mediazioni nel divenire.

Per questo penso che l’uomo sia solo un mediatore.
Partecipa alla trasformazione dell’assoluto, ma non lo abbraccia mai del tutto.
Le sue idee saranno sempre conflittuali, sempre in lotta.
Perché l’uomo è dentro il mondo, non fuori.
Non è spettatore, è attore.
E nel suo recitare porta il peso e la grazia del divenire.

Ecco allora il mio invito: coltiviamo il pensiero libero.
Non lasciamolo spegnere.
Solo così possiamo trascendere il relativo, sfiorare l’assoluto, contenere i nostri opposti.
Solo così possiamo restare uomini, e forse – se ci riusciremo – diventare davvero esseri umani.

Vuoi che aggiunga qualche episodio autobiografico (ad esempio ricordi di eventi storici vissuti in prima persona – il ’68, la caduta del Muro di Berlino, l’11 settembre) per dare ancora più calore e un punto di vista “da testimone del tempo”? Potrebbe arricchire il testo e avvicinarlo ancora di più alle 2500 parole.

 







Chi sono? Una riflessione a settantadue anni

 Meditazione personale sul senso della vita, dell’identità e del ritorno all’Uno.


Ho settantadue anni.
È un’età in cui le domande diventano più insistenti.
Quando si è giovani si pensa di avere davanti un tempo infinito, ma a un certo punto della vita ci si accorge che quel tempo non è poi così vasto.

Ed è allora che riaffiorano le domande più antiche:
Chi sono?
Da dove vengo?
Dove sto andando?

Non sono domande che appartengono solo ai filosofi.
Le ho sentite anche pronunciare, in silenzio, da persone semplici, da chi sembra preoccuparsi soltanto di riempire la giornata di lavoro e di piccoli piaceri.
Prima o poi arrivano per tutti.

Perché arriva sempre un momento in cui ci si deve fermare.
La malattia di un amico, la perdita di un familiare, un improvviso colpo di fragilità, e la vita ti mette davanti allo specchio.
Ti chiede di guardarti davvero, senza le maschere che hai indossato per decenni.

Io di maschere ne ho indossate parecchie.
Per anni mi sono identificato con ciò che facevo, con il ruolo che occupavo nella società, con la funzione che esercitavo.
Ho creduto che il mio valore fosse legato alle responsabilità che mi venivano affidate e al rispetto che gli altri mi riconoscevano.

Ma, con il passare del tempo, ho capito che tutto questo era fragile.
Bastava un cambiamento, un pensionamento, un capovolgimento delle circostanze per sentirmi improvvisamente nudo.
Come se il mio “io” fosse svanito insieme al ruolo che mi aveva definito per anni.

È allora che ho compreso: non sono quello che faccio.
Non sono una professione, un titolo, una carica.
Sono qualcosa di più profondo, qualcosa che non può essere scritto in un documento d’identità.

Arrivare a questa consapevolezza è stato doloroso.
È come togliersi una pelle che ti ha protetto per decenni.
Ma è stato anche liberatorio.
Perché mi ha permesso di guardare me stesso senza più l’illusione di coincidere con la mia “recita sociale”.

Ho capito che le catene più difficili da spezzare non sono quelle politiche o giuridiche, ma quelle che ci imprigionano dentro.
Catene culturali, familiari, morali, religiose.
Sono quelle che ci fanno credere di essere liberi mentre ci tengono ancorati a schemi che non abbiamo scelto davvero.

Oggi, a settantadue anni, sento il bisogno di svuotare la mente.
Di liberarmi da tutte le sovrastrutture che la società mi ha imposto.
Di guardare le cose come se le vedessi per la prima volta, senza i filtri delle tradizioni, delle abitudini, delle ideologie.

È un esercizio difficile.
Soprattutto perché le abitudini si sono stratificate negli anni.
Ma è l’unico modo per provare ad avvicinarmi alla verità di me stesso.

Ho visto in passato uomini potenti comportarsi come se fossero sacri, come se la loro persona coincidesse con la funzione che ricoprivano.
Alcuni si sentivano inviolabili, intoccabili, come i re dello Statuto Albertino, che li proclamava “sacri e inviolabili”.
Oggi non ci sono più re, ma non è scomparsa la tentazione di sentirsi superiori agli altri.

Io stesso, lo ammetto, a volte ho ceduto a questa tentazione.
Quando avevo un ruolo importante, mi piaceva pensare che fosse ciò che mi definiva.
Ma col tempo ho capito che quella era solo una maschera.
Sotto restava l’uomo, con le sue fragilità, i suoi timori, la sua irriducibile mortalità.

Perché la verità è che siamo tutti mortali.
E questa verità è difficile da accettare.
Per anni ho cercato di dimenticarla, di rimuoverla.
Ma a quest’età non posso più farlo.
La morte non è un pensiero astratto, è una presenza che sento vicina.

E non la vedo più come un nemico, ma come una compagna di viaggio che mi ricorda che il tempo è prezioso.
Che ogni giorno ha un valore, proprio perché non è infinito.

Nietzsche diceva che l’uomo è un ponte, non un fine.
Oggi sento che aveva ragione.
La mia vita è stata un passaggio, un percorso, un ponte verso qualcosa di altro.
Non so se arriverò mai al “superuomo”, ma so che devo continuare a superare me stesso.

Accettare la transitorietà della mia forma è la sfida più grande.
Il corpo che ho oggi non è quello che avevo a vent’anni, né quello che avrò tra dieci, se ci arriverò.
Ogni fase della vita è stata un cambiamento di forma, e ogni volta ho dovuto lasciare andare qualcosa.

Ma questa trasformazione non è una perdita: è parte del gioco.
La natura è trasformazione continua.
Gli atomi che mi compongono sono gli stessi che componevano altri uomini, altri animali, altre piante.
Sono gli stessi che comporranno altre forme quando io non ci sarò più.

Pensare a questo mi dà serenità.
Mi fa capire che non sparirò davvero: mi trasformerò.
Ritornerò al ciclo, come ogni cosa.

Anche l’uguaglianza, a quest’età, la vedo in modo diverso.
Non significa omologazione.
Siamo uguali perché siamo tutti parte dello stesso destino, fatti della stessa materia.
Ma siamo diversi nelle forme, nelle vocazioni, nei talenti.

Questa diversità è la vera ricchezza dell’umanità.
Non siamo chiamati a essere tutti uguali, ma a essere ciascuno se stesso, fino in fondo.
A contribuire con la nostra singolarità al bene comune.

Ho capito anche che l’Io da solo non basta.
Per anni ho detto “Io”, ho pensato “Io”, ho vissuto per l’Io.
Ma l’Io isolato è sterile.
Solo quando ho imparato a dire “Noi” ho trovato un senso più grande.

Perché siamo sempre in relazione.
Con i nostri cari, con la società, con l’universo intero.
Non esistiamo senza gli altri.
Non esistiamo senza l’ambiente che ci sostiene, senza la rete invisibile che ci nutre e ci collega.

Questa consapevolezza mi rende più cauto quando vedo politici, leader o poteri forti che parlano solo di sé stessi.
Quando un uomo dice “Io” e basta, sento odore di tirannia.
Perché dimenticare il Noi significa preparare la strada alla solitudine, all’ingiustizia, alla guerra.

Ho vissuto abbastanza per sapere che il dolore è parte della vita.
Che non si può eliminarlo del tutto, ma si può imparare a dargli un senso.
Il dolore ci ricorda che siamo vivi.
Che facciamo parte di un ciclo che comprende la gioia e la sofferenza, il piacere e la perdita.

Accettare questo mi ha insegnato a vivere meglio.
Mi ha insegnato a non sprecare tempo dietro a rancori inutili, a non accumulare rabbia, a non farmi consumare dall’odio.

Quando arriverà il momento di lasciare questa forma, voglio farlo senza paura.
Con gratitudine per ciò che ho vissuto e per ciò che ancora potrò vivere fino all’ultimo respiro.

Chi sono, allora, a settantadue anni?
Sono un uomo che ha smesso di identificarsi solo con il suo mestiere, con la sua storia, con la sua immagine.
Sono un essere che cerca di stare in relazione con gli altri, con la natura, con il mistero.
Sono un frammento di infinito che ha preso forma per un tempo limitato, e che un giorno tornerà al Tutto.

Da dove vengo?
Vengo dall’infinito.
Dall’energia che ha generato stelle, pianeti, galassie.
Dalla stessa materia che ha dato vita a chi mi ha preceduto.

Dove vado?
Vado nello stesso luogo.
Torno al ciclo, al movimento eterno che genera e rigenera tutte le cose.

E se questa consapevolezza mi rende meno incline a divinizzare qualcuno, è perché capisco che nessuno è davvero speciale, e al tempo stesso tutti lo siamo.
Ognuno è unico, ma nessuno è al di sopra della legge della vita.

A settantadue anni sento che il mio compito è lasciare qualcosa di buono.
Un gesto, un esempio, una parola che aiuti chi verrà dopo di me a vivere meglio, a non ripetere certi errori, a coltivare la speranza.

Non so se ci riuscirò, ma so che vale la pena provarci.
Perché se la vita è relazione, allora ciò che semino oggi continuerà a vivere anche quando io non ci sarò più.

Ed è questo che, alla fine, dà senso al mio tempo sulla Terra.








Dalla logica del nemico alla logica della fratellanza

Competere senza distruggere: perché l’umanità deve trasformare il conflitto in cooperazione per salvare sé stessa, la specie e la Terra.


C’è un pensiero che mi accompagna da tempo: la guerra sembra ineliminabile dal sistema. Ovunque guardi, trovo conflitto. Nella politica, nei rapporti sociali, nelle famiglie, perfino dentro ciascuno di noi.

Chi, come me, agogna la pace, e non solo quella tra gli Stati ma soprattutto quella sociale, viene facilmente etichettato come “utopista”. Nel migliore dei casi. Altre volte, più fanaticamente, si viene bollati come “filo-qualcosa”: filo-russo, filo-americano, filo-dittatore, a seconda delle convenienze.

Sembra che la mente umana, individuale e collettiva, abbia bisogno di avere sempre un nemico. Non solo per difendersi, ma per esistere. Il nemico diventa un elemento identitario: è la cornice dentro cui definiamo chi siamo.

Non è un pensiero nuovo. Eraclito lo aveva intuito più di duemila anni fa, quando scriveva che Polemos, il conflitto, è “padre di tutte le cose”. È il motore che disvela gli uni come dei e gli altri come uomini, che rende alcuni schiavi e altri liberi.

Eppure lo stesso Eraclito esaltava il logos, la ragione. Se il conflitto è padre di tutto, la ragione dovrebbe essere la madre. Dovrebbe guidarci, aiutarci a distinguere il bene dal male, il positivo dal negativo, permetterci di evitare ciò che ci ferisce e di perseguire ciò che ci fa crescere.

La storia, purtroppo, ci ha mostrato il contrario.

La psicoanalisi ha fatto il resto. Freud, Jung, Lacan ci hanno ricordato che l’uomo è anche – e forse soprattutto – un essere irrazionale. Le sue scelte non sono mai del tutto consapevoli: sono condizionate da pulsioni che abitano l’inconscio, spesso in conflitto tra loro. Dentro di noi convivono eros e thanatos, amore e morte, costruzione e distruzione.

Questa tensione interiore è la stessa che si proietta fuori di noi. È la radice delle guerre, delle violenze, delle competizioni distruttive. Persino delle rivalità familiari: Freud lo aveva descritto come “complesso di Edipo”.

Devo allora rassegnarmi? È davvero inevitabile accettare che la guerra sia il destino ultimo dell’uomo?

I realisti, quelli che si vantano di “vedere il mondo com’è”, dicono di sì. È la natura umana, ripetono. È sempre stato così, e sempre così sarà.

Io, invece, continuo a dire di no. Non credo che la guerra sia una condanna scritta nella pietra. Credo che esista un modo per incanalare l’energia del conflitto senza distruggere.

La mia proposta è semplice, anche se ambiziosa: competizione nella cooperazione.

Non si tratta di eliminare il conflitto, ma di trasformarlo. È ciò che avviene nello sport: si gareggia, ma non per sterminare l’avversario. Si compete per migliorarsi, per spingersi oltre i propri limiti.

Immagino una società che faccia lo stesso. Dove le nazioni competano non per conquistare territori ma per salvare vite. Dove si misurino non per chi produce più armi ma per chi riduce di più le emissioni di CO. Dove la rivalità si giochi su chi ricostruisce più foreste, chi innova di più per proteggere la biodiversità, chi salva più rifugiati dalle catastrofi climatiche.

Non è fantascienza. Lo abbiamo già visto.

Quando un terremoto devasta una regione, quando un’alluvione sommerge città intere, i popoli si mobilitano. Persino i governi più ostili tra loro inviano aiuti, aprono corridoi umanitari, mandano soccorsi. Per qualche settimana, la logica del nemico lascia il posto alla logica della vita.

Perché non farlo sempre?

Certo, questo richiede un salto culturale. Occorre superare l’idea che la sicurezza consista nell’avere un nemico. Franco Fornari, in un testo profetico come Psicoanalisi della guerra atomica, lo aveva spiegato bene: la guerra, paradossalmente, non serve tanto a difenderci da nemici reali, ma a inventarli. È un meccanismo di difesa contro le nostre paure interiori, contro il “Terrificante” che abita l’inconscio.

Il problema è che oggi questo meccanismo è diventato letale. La guerra atomica non ha più una funzione “curativa”: porterebbe solo all’autodistruzione totale. Non ci sarebbe un vincitore e un vinto. Ci sarebbe il nulla.

Eppure assistiamo a un’escalation militare che sembra cieca. La NATO, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Russia continuano ad alzare i toni. In Ucraina la guerra è già realtà, e ogni giorno si parla di “linee rosse” che non devono essere superate, come se bastasse un passo falso per innescare l’irreparabile.

Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, vediamo le stragi di civili nella Striscia di Gaza. Donne, anziani, bambini che diventano danni collaterali. E una parte dell’opinione pubblica che sembra quasi provare un piacere sadico nel vedere l’annientamento del “nemico”.

Se c’è un effetto positivo, è che questa crisi globale ci costringe a guardare in faccia il problema. Ci obbliga a chiederci: chi sono i leader che ci guidano? In che stato psicologico si trovano? Hanno l’equilibrio emotivo per reggere il peso delle loro decisioni?

Non basta più valutarli per le loro competenze politiche o gestionali. Dobbiamo chiederci quali traumi portino dentro, quali ferite li muovano, quali ossessioni possano spingerli a trascinarci nel baratro.

Umberto Galimberti ci ricorda che la modernità è finita. Che siamo entrati in una fase nuova, post-moderna, in cui non possiamo più affidarci a verità universali. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di un nuovo paradigma.

Non basta difendere i confini delle nostre patrie. Dobbiamo difendere la Terra, che è l’unica patria che abbiamo.

Serve una nuova etica planetaria, capace di superare l’idea dello Stato come monopolio della violenza. Un’etica che metta al centro la fratellanza – laica, universale – e che riconosca che i beni del pianeta appartengono a tutta l’umanità.

La “competizione nella cooperazione” potrebbe essere la norma etica di questa nuova era. Non più la folle corsa agli armamenti, ma una corsa a chi salva più vite, a chi crea più ponti di pace, a chi riduce di più le disuguaglianze.

È una sfida difficile, certo. Ma non impossibile.

Epicuro diceva che la felicità nasce dalla riduzione del dolore, dalla negazione di ciò che ci fa soffrire. Freud, al contrario, sosteneva che al di là del principio di piacere si trovano le pulsioni distruttive, che ci portano a cercare il dolore.

Forse è tempo di una terapia nuova.

Non possiamo più curare le nostre angosce con la guerra. Dobbiamo trovare un altro modo di dare sfogo alle nostre paure, di trasformarle in energia creativa.

Dobbiamo riscrivere le regole del gioco, sostituire la logica del nemico con quella della fratellanza. Non per buonismo, ma per sopravvivenza.

Perché se la specie umana scompare, non ci saranno più vincitori né vinti. Solo silenzio.