27 luglio 2025

Meloni, Trump e il fragile equilibrio dell’Europa

Dopo aver letto l’articolo del Time su Giorgia Meloni, ho provato un misto di curiosità e rispetto. Non capita spesso che l’Italia si trovi al centro della diplomazia globale, a giocare un ruolo di ponte tra due mondi così influenti come gli Stati Uniti e l’Unione Europea. E vedere Giorgia Meloni muoversi con sicurezza tra questi equilibri così delicati mi ha fatto riflettere sul significato della leadership in un’epoca di trasformazioni profonde.

Giorgia Meloni non è una figura convenzionale, e questo lo sapevamo già. Ma è proprio la sua atipicità a renderla interessante, capace di scardinare le logiche stanche e spesso autoreferenziali della politica europea. In un momento in cui molti leader si limitano a galleggiare nei compromessi, lei sceglie di esporsi, di rischiare, di prendere posizione. Anche quando queste posizioni possono risultare scomode, anche quando il suo interlocutore si chiama Donald Trump.

Il rapporto tra Meloni e Trump non va letto come una semplice simpatia ideologica. È qualcosa di più complesso, di più strategico. Trump è stato, ed è di nuovo, un attore chiave nello scenario mondiale, e avere un filo diretto con lui rappresenta per l’Italia un’occasione rara. Meloni, in questo, si è dimostrata abile nel costruire ponti, mantenendo saldo il legame con l’Occidente senza spezzare il delicato tessuto europeo.

Ciò che ho apprezzato di più è la sua capacità di tenere insieme, con equilibrio, due appartenenze apparentemente in tensione: da un lato, la fedeltà storica dell’Italia agli Stati Uniti, che da sempre rappresentano un punto di riferimento per la nostra sicurezza e la nostra economia; dall’altro, l’impegno per la stabilità e la cooperazione europea. Meloni non cede a schieramenti ideologici rigidi: preferisce il pragmatismo, la diplomazia concreta, fatta di gesti misurati ma decisi.

Nella sua posizione, il rischio di sbagliare è altissimo. Eppure, anche nelle situazioni più spinose, come la questione dei dazi o le tensioni su immigrazione e difesa, ha mostrato di saper mediare, proporre soluzioni, rilanciare il dialogo. Lo ha fatto anche con coraggio, evitando il populismo fine a sé stesso e scegliendo invece il linguaggio della responsabilità. E per una leader che proviene da un contesto politico spesso sottovalutato o mal interpretato, questo è un segnale forte.

Non è un mistero che su certi temi, come i diritti civili, l’identità culturale o l’immigrazione, Meloni mantenga posizioni nette. E se da cittadino posso avere opinioni diverse su alcuni punti, da osservatore non posso che riconoscere la coerenza con cui li porta avanti. In un tempo in cui molti politici si nascondono dietro le parole, lei sceglie invece di dirle con chiarezza. E questo, nel bene e nel male, crea un rapporto diretto con le persone.

Certo, sarà fondamentale che la sua leadership continui a muoversi su binari istituzionali, europei, democratici. Ma finora, e lo dico con onestà, Meloni ha dimostrato di saper tenere questa rotta. Ha difeso l’Ucraina, ha mantenuto l’Italia dentro i percorsi europei, ha cercato un ruolo attivo e costruttivo anche nei confronti di Trump e della nuova amministrazione americana. Non da subalterna, ma da interlocutrice autonoma.

In un’epoca in cui il centro politico sembra sfilacciarsi, Giorgia Meloni rappresenta una sintesi nuova: identitaria ma dialogante, conservatrice ma pragmatica, nazionale ma con uno sguardo aperto sul mondo. E forse è proprio questo che molti, in Europa e negli Stati Uniti, cominciano a riconoscere in lei.

Non so dove porterà questo percorso. Ma oggi, da cittadino italiano, posso dire che sento che l’Italia ha finalmente una voce riconoscibile nel mondo. Una voce che parla con fermezza, ma anche con intelligenza. E in tempi così complessi, questa non è una conquista da poco.


Giorgia Meloni: una donna, una nazione, una nuova voce nel mondo

Dopo aver letto l’intervista sul TIME ampia e dettagliata su Giorgia Meloni, ha significato per me molto più che ripercorrere le tappe di una carriera politica. È stato un viaggio nella trasformazione del nostro tempo, nella storia recente dell’Italia e nelle pieghe di un cambiamento che, piaccia o no, ha rimesso il nostro Paese al centro della scena internazionale. E lo ha fatto attraverso la figura inaspettata, ma oggi determinante, di una donna che ha saputo affrontare il destino senza chiedere sconti.

Giorgia Meloni non viene dalle élite, non ha avuto un percorso accademico brillante, non è cresciuta nelle stanze ovattate del potere. È una donna che ha conosciuto la difficoltà, che ha attraversato le ferite della vita sin dall’infanzia e che, con tenacia rara, ha scelto di trasformare la rabbia in proposta, l’esclusione in partecipazione, la marginalità in leadership. E non si tratta solo di una narrazione eroica, ma di una realtà documentata, che emerge con forza tra le righe dell’intervista. È la storia di una persona che ha saputo costruire qualcosa da zero, e che oggi guida l’Italia con fermezza, determinazione e, soprattutto, con piena consapevolezza del proprio ruolo.

La sua domanda, posta alla fine dell’intervista con il TIME, “C’è qualcosa del fascismo che la mia esperienza le ricorda, di quello che faccio al governo?”,  mi ha colpito profondamente. Non solo per il contenuto, ma per la lucidità e il coraggio con cui viene pronunciata. Meloni non elude il passato, ma lo affronta. Sa che il tema è delicato, che c’è chi vorrebbe usarlo come un’arma contro di lei in ogni circostanza. Ma sa anche che l’Italia ha bisogno di andare oltre le letture meccaniche della storia, senza negare nulla, ma neppure restando prigioniera di etichette preconfezionate. E in questo senso, il suo percorso è davvero nuovo: non rimuove, non rinnega, ma propone un’alternativa che è fatta di identità, di radici, ma anche di apertura, realismo e dialogo.

Mi ha sempre colpito la sua capacità di unire elementi apparentemente opposti: patriottismo e pragmatismo, fermezza e moderazione, conservatorismo e adattamento al mondo globale. Da premier, Meloni ha spesso stupito anche i suoi più ostinati critici. Ha mantenuto saldo il legame dell’Italia con l’Europa e con la NATO, ha sostenuto l’Ucraina con determinazione, ha rafforzato le relazioni con gli Stati Uniti e ha assunto un ruolo guida nel Mediterraneo, riaffermando l’interesse nazionale ma senza cedere a derive isolate o anti-europee.

La sua vicinanza a Donald Trump, descritta nell’articolo, viene spesso letta con sospetto da una certa opinione pubblica. Io la interpreto invece come una scelta strategica e consapevole. Meloni conosce la complessità del mondo di oggi e sa che avere canali di dialogo forti con entrambe le sponde dell’Atlantico è fondamentale per la sicurezza, l’economia e la credibilità dell’Italia. In un’epoca in cui le alleanze si ridefiniscono rapidamente, Meloni ha saputo giocare il suo ruolo da protagonista. Non da gregaria, ma da leader autonoma, autorevole, rispettata.

Persino sul piano economico, spesso trascurato dai suoi predecessori, sta lavorando per dare solidità a un Paese che troppo a lungo è stato considerato fragile. Il miglioramento del rating del debito, la stabilizzazione del quadro politico, la centralità conquistata nei dossier europei ed energetici sono frutto non solo della fortuna, ma della capacità di visione e di determinazione. Giorgia Meloni ha dimostrato di saper gestire la complessità senza smarrire il senso dell’equilibrio, e senza cedere a quegli estremismi che spesso le vengono imputati ma che, nella realtà dei fatti, ha saputo contenere, canalizzare, trasformare.

Eppure, ciò che più mi colpisce in lei non è solo la politica, ma l’umanità. Una donna che si prende cura di una figlia, che viene da una storia familiare difficile, che non ha mai fatto mistero delle sue fragilità e che ha trasformato quelle ferite in forza. Una donna che ha saputo parlare a chi non si sentiva rappresentato da nessuno, che ha restituito voce a un’Italia spesso ignorata, ma profondamente viva.

Non sto dicendo che tutto ciò che fa sia perfetto, né che non si possano avere opinioni diverse. Ma riconosco in Giorgia Meloni qualcosa che nella politica italiana mancava da tempo: la coerenza. Il coraggio. E una visione. Sa di non poter piacere a tutti, e non lo pretende. Ma sa anche che il suo compito non è solo quello di governare, ma di dare un senso al nostro tempo, una direzione, una spinta verso l’alto.

In un momento storico in cui il centro si frantuma e gli estremi spesso urlano senza costruire, Meloni sceglie la strada più difficile: quella del dialogo tra identità e istituzioni, tra nazione e alleanze, tra passato e futuro. E forse proprio per questo oggi l’Italia è di nuovo ascoltata, considerata, rilevante. Forse proprio per questo, da Palazzo Chigi, quella voce femminile che cammina tra corridoi di marmo è riuscita a farsi sentire lontano, oltre le nostre frontiere, oltre le vecchie categorie, oltre gli schemi abituali.

Per tutto questo, oggi, mi sento di dire grazie. Non solo a una leader, ma a una donna che ha scelto di metterci la faccia, la vita, l’anima. Con determinazione. Con intelligenza. Con cuore italiano.

 

 


25 luglio 2025

Giuseppe Conte, un’illusione di leadership

Perché non mi ha mai convinto, nemmeno nei momenti più drammatici.

Ci sono figure politiche che lasciano un’impronta profonda, che dividono, che fanno discutere, ma che almeno danno il senso di una direzione, di una visione. Poi ci sono quelle che sembrano attraversare il potere come fantasmi eleganti: parlano bene, appaiono composte, ma alla fine non lasciano nulla. Per me, Giuseppe Conte appartiene a questa seconda categoria.

Quando è diventato Presidente del Consiglio nel 2018, non lo conosceva praticamente nessuno. È arrivato lì senza un passato politico, senza un mandato elettorale, senza una base personale su cui poggiare. È stato presentato come “l’avvocato del popolo”, ma non era chiaro quale popolo rappresentasse. Fin da subito, ho percepito in lui una debolezza strutturale: era un tecnico travestito da politico, o forse il contrario. In ogni caso, non mi ha mai dato l’idea di essere lì per costruire qualcosa. Sembrava piuttosto uno spettatore privilegiato del proprio ruolo.

Il suo trasformismo mi ha lasciato perplesso. In pochi mesi è passato da paladino del governo sovranista con la Lega a conduttore di un esecutivo europeista con il PD. Due governi profondamente diversi, opposti quasi in tutto. Eppure lui era lì, immobile nella forma ma camaleontico nella sostanza. Qualcuno l’ha chiamato equilibrio. Io l’ho visto come opportunismo. Non si può guidare un Paese seguendo il vento del potere, adattandosi ogni volta all’alleato di turno come se nulla fosse. Serve coerenza. O almeno il coraggio di dire da che parte si sta.

La gestione della pandemia ha esposto tutti i limiti di questa ambiguità. Ricordo l’incertezza, i provvedimenti comunicati con ore di ritardo, i decreti notturni, la corsa affannata dietro l’emergenza. La sensazione era di una barca senza timone, dove ognuno faceva come poteva. Le Regioni contro il governo, il governo contro le Regioni, i cittadini confusi e abbandonati. E mentre tutto questo accadeva, Conte si mostrava in video con toni gravi, come un attore di teatro più che come un leader in trincea. Molti lo hanno trovato rassicurante. Io ci ho visto un uomo che gestiva l’emergenza più per immagine che per visione.

Anche sul piano economico, non riesco a ricordare un provvedimento forte, strutturale, duraturo. I famosi “ristori” sono arrivati tardi, male, e spesso inadeguati. La burocrazia non è stata snellita, anzi. I lavoratori autonomi e le piccole imprese sono stati lasciati a se stessi per mesi. E mentre il debito pubblico esplodeva, si continuava a parlare di futuro senza mai davvero costruirlo.

In politica estera, la firma con la Cina del Memorandum sulla Via della Seta è stata un salto nel vuoto. Una mossa che ha sollevato dubbi tra gli alleati europei e atlantici, e che non ha portato benefici tangibili all’Italia. Ancora una volta, ho avuto la sensazione che mancasse una direzione: si andava dove sembrava conveniente, senza un disegno complessivo.

E poi il Recovery Plan. Una delle sfide più importanti per l’Italia del dopoguerra. Quando Conte ha lasciato Palazzo Chigi, quel piano era ancora fumoso, indefinito, privo di struttura. È stato Draghi a doverlo riscrivere, a dargli forma. Questo, forse, è il segnale più chiaro del fallimento di una leadership: quando hai nelle mani l’occasione di cambiare il Paese e non riesci nemmeno a impostarla.

In fondo, Giuseppe Conte non ha mai smesso di essere un mediatore. Ma il mediatore può tenere unito un tavolo di discussione, non può guidare una nazione in crisi. E l’Italia, in quegli anni, aveva bisogno di molto di più.

Quello che mi lascia è una sensazione di occasione persa. Di tempo scivolato tra le dita. Di un governo che ha fatto tanto rumore per poi evaporare in una nuvola di ambiguità. Conte non ha distrutto il Paese, certo. Ma nemmeno lo ha difeso con la forza e la chiarezza che servivano.

E in politica, a volte, è proprio la mancanza di coraggio a fare più danni della cattiva volontà.

23 luglio 2025

Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge sul femminicidio.

Oggi ho letto che il Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge sul femminicidio. Centosessantuno voti favorevoli. Un applauso in aula. Le parole del Presidente del Senato: “Sono estremamente lieto di questo risultato”. Eppure, mentre leggevo, dentro di me non riuscivo ad applaudire. Non per mancanza di gratitudine, ma perché questo risultato ha il sapore amaro di qualcosa che arriva troppo tardi, su una terra dove il sangue ha già impregnato il suolo.

Femminicidio. Una parola dura. Una parola che non è solo linguaggio, ma memoria. Ogni volta che la pronuncio, mi tornano in mente volti. Alcuni li conosco. Altri no. Ma sono tutti lì, come fotografie spezzate: donne ammazzate per amore malato, per possesso, per rifiuto, per quella maledetta idea che la vita di una donna possa essere proprietà privata.

Non sto scrivendo per fare cronaca. Sto scrivendo perché questa legge parla anche a me. A mia madre, a mia sorella, alle mie amiche. A tutte le volte in cui ho sentito il terrore nascosto dietro la voce di una donna che dice: “Va tutto bene”. A tutte le volte in cui non è andato bene per niente.

Il fatto che oggi venga introdotto nel codice penale l’articolo 577-bis, che riconosce il femminicidio come reato autonomo, con l’ergastolo per chi uccide una donna per odio, per rifiuto, per dominio… è una svolta. È un modo per dire: “Ti vediamo. Sappiamo cosa succede. E non lo accettiamo più.”

Non è solo una questione di giustizia. È un gesto di civiltà. Il disegno di legge – 14 articoli – non si limita a punire. Cerca di proteggere, di prevenire. Rafforza le aggravanti per la violenza domestica e sessuale, introduce tutele per le vittime, obbliga all’ascolto rapido, garantisce l’accesso ai centri antiviolenza anche ai minori. Soprattutto, riconosce che dietro ogni storia di violenza c’è una struttura sociale da decostruire, un’educazione da rifondare.

Leggo che saranno formati i magistrati, gli operatori sanitari, gli assistenti sociali. Finalmente. Perché la violenza non è sempre un pugno. A volte è un silenzio imposto, una parola velenosa, una paura che ti paralizza. Serve qualcuno che sappia leggere quei segnali.

E mi colpisce anche un altro passaggio: l’obbligo di confisca dei beni dell’autore del reato, le misure economiche a tutela degli orfani. Perché la violenza, oltre che colpire, lascia dietro di sé un deserto. Bambini senza madri. Famiglie distrutte. E finora lo Stato ha spesso lasciato queste macerie a chi resta. Finalmente, si fa carico anche del dopo.

Non mi illudo. Nessuna legge da sola potrà fermare la mano di chi uccide. Ma questa legge, almeno, dice ad alta voce quello che molti non vogliono sentire: che l’omicidio di una donna in quanto donna non è un delitto come un altro. È un gesto che affonda le radici nella cultura, nella storia, nel modo in cui continuiamo a parlare – o a non parlare – delle relazioni tra uomini e donne.

C’è chi ha detto: “È un testo necessario”. Concordo. Ma io aggiungo: era urgente da anni. Non sono qui per celebrare la politica, ma per riconoscere un passo. Uno solo. Ma nella giusta direzione.

E dentro di me, oggi, porto un sentimento doppio. Da un lato, il sollievo di vedere finalmente riconosciuta una realtà troppo a lungo taciuta. Dall’altro, il dolore di sapere che questa legge nasce da troppe tombe, da troppi nomi letti nei telegiornali come numeri, come statistiche.

Io non dimentico. Perché non sono solo un cittadino. Sono una persona che ascolta, che conosce, che ha amato donne che hanno avuto paura. E questa legge non la leggo solo con gli occhi. La sento nella pelle.

È un inizio. Ma adesso tocca a noi, ogni giorno, far sì che non sia solo carta. Ma vita.

22 luglio 2025

Il dovere di fermare chi lucra sulla speranza

Ci sono notizie che non passano inosservate. L’annuncio del Regno Unito sul primo regime sanzionatorio globale contro il traffico di esseri umani è una di quelle notizie che mi spinge a scrivere non da osservatore esterno, ma da cittadino che sente, che ha visto, che ha ascoltato troppe storie spezzate sui marciapiedi delle nostre città e sulle coste del nostro Mediterraneo.

Sono fermamente a favore di questa scelta. Finalmente, qualcuno ha avuto il coraggio di guardare in faccia il cuore marcio del problema e di chiamarlo con il suo nome: crimine. Perché di questo si tratta. Non di flussi, né di fenomeni “complessi” da gestire con diplomazia sterile o parole ambigue. Stiamo parlando di reti criminali internazionali che sfruttano, ingannano, umiliano e spesso condannano a morte persone disperate. Ed è ora che vengano trattate come meritano.

Congelare i beni, vietare l’ingresso nel Paese, impedire qualsiasi legame con il sistema economico britannico: sono misure giuste, proporzionate, necessarie. Perché se è vero che non si possono salvare tutte le vite solo con la repressione, è anche vero che non si può restare passivi mentre bande criminali organizzano attraversamenti in gommoni fatiscenti e vendono illusioni a caro prezzo. Ogni euro pagato ai trafficanti è un mattone in più nel muro del disumano. E dietro quel denaro, ci sono sempre le stesse facce: uomini armati, mercanti di morte, profittatori della miseria.

Chiunque abbia visto le immagini dei cadaveri galleggianti nel Mediterraneo o ascoltato le testimonianze di chi è sopravvissuto a torture nei centri di detenzione libici, non può non sentire dentro sé un bisogno urgente di giustizia. Non basta commuoversi. Bisogna agire. E questo regime sanzionatorio britannico è un primo segnale forte: basta tolleranza verso chi lucra sulla speranza altrui.

Certo, so bene che da solo non basterà. Lo so, perché dietro la migrazione irregolare c’è un intero mondo di disuguaglianze, guerre, fallimenti politici, sogni infranti. Ma ogni lungo cammino comincia da un passo, e questo è un passo nella giusta direzione. È una dichiarazione netta: non ci sarà più complicità economica o istituzionale con chi si arricchisce facendo attraversare clandestinamente confini, spezzando famiglie, cancellando identità.

Questa iniziativa manda anche un messaggio importante ai cosiddetti “facilitatori”: aziende, finanzieri, organizzazioni ambigue che, fino a ieri, potevano operare indisturbate nell’ombra, vendendo motori per gommoni o riciclando denaro con circuiti alternativi. Ora anche loro avranno un prezzo da pagare. E io dico: era ora.

Lo dico senza alcuna retorica, ma con la convinzione profonda che ci siano momenti in cui bisogna scegliere da che parte stare. Io sto dalla parte dei diritti umani, non della loro caricatura. Sto dalla parte di chi non accetta più che il cinismo travesta la crudeltà con la maschera dell’efficienza. Sto dalla parte di chi crede che la libertà e la dignità debbano essere protette anche con strumenti forti, quando servono.

Sento spesso dire che queste misure rischiano di penalizzare i migranti. Ma è vero il contrario: non colpire i trafficanti significa lasciarli agire impuniti. Vuol dire accettare che il viaggio della speranza resti monopolio della criminalità organizzata. Vuol dire voltarsi dall’altra parte mentre altri si arricchiscono vendendo morte.

Mi auguro che altri governi europei – e non solo – seguano l’esempio. Che si crei una rete sanzionatoria internazionale, capace di bloccare i flussi finanziari e logistici che alimentano questa macchina dell’orrore. E allo stesso tempo, mi auguro che si aprano canali umani, legali e sicuri per chi cerca una nuova vita. Repressione e protezione devono camminare insieme. Non esiste giustizia se non protegge i più fragili, e non esiste protezione vera senza giustizia contro chi li sfrutta.

Questo nuovo regime sanzionatorio è un passo storico. È una promessa concreta. È una battaglia che va combattuta con determinazione. Perché difendere la vita significa anche questo: impedire che venga venduta al miglior offerente. 

19 luglio 2025

Una giustizia più giusta: l’Italia rialza la testa

"L’Italia merita una giustizia più giusta: lavoriamo per mettere fine alle storture. Siamo di parola e lo faremo." 
— Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio

Non è solo una dichiarazione d’intenti. Nelle parole pronunciate da Giorgia Meloni durante l’intervento alla Federazione dei magistrati onorari di tribunale, si coglie il segnale di una svolta politica e morale che riguarda il cuore stesso dello Stato di diritto: la giustizia. E quando un capo di governo pronuncia parole come “fine alle storture” in materia giudiziaria, non si può fare a meno di accogliere con favore – e con attenzione – la portata di un tale impegno.

Da troppo tempo il sistema giudiziario italiano soffre di una cronica inadeguatezza: processi infiniti, sentenze che arrivano a distanza di decenni, un garantismo a fasi alterne, incertezza normativa, confusione tra poteri e, sul piano umano, intere categorie dimenticate o sacrificate per inerzia. Tra queste, proprio i magistrati onorari: professionisti che reggono sulle proprie spalle migliaia di procedimenti ogni anno, ma che per anni hanno vissuto in un limbo, trattati come temporanei, marginali, quando invece sono strutturalmente indispensabili.

La riforma dell’ordinamento che li riguarda – finalmente approvata – rappresenta non solo un atto tecnico, ma un gesto politico e civile di rilevante portata. È la correzione di una stortura. È riconoscere che la giustizia non si fa solo nei tribunali di Roma o Milano, ma anche nei piccoli uffici di provincia, grazie a donne e uomini che spesso lavorano con compensi ridicoli e tutele inesistenti. In un Paese che troppo spesso ha dato prova di dimenticare i suoi servitori silenziosi, questo passo avanti non può che essere salutato con favore.

Ma Meloni non si è fermata qui. Ha rilanciato su un obiettivo ancora più ambizioso: una riforma complessiva della giustizia. Parole pesanti, che richiedono visione, determinazione e la capacità di resistere a pressioni interne ed esterne. Eppure, è proprio questo il nodo cruciale. La giustizia italiana ha bisogno di essere ripensata, alleggerita da una burocrazia paralizzante, semplificata, resa più umana. Ha bisogno di essere restituita ai cittadini, che troppo spesso la percepiscono come distante, ostile, lenta.

In un clima mediatico e culturale dove la giustizia è sempre più terreno di scontro ideologico – tra garantismo e giustizialismo, tra politicizzazione della magistratura e delegittimazione del potere giudiziario – parlare di "giustizia più giusta" è rischioso, ma necessario. Significa rivendicare una visione che rimetta al centro non solo la macchina della legge, ma la persona. E in questo, la coerenza è fondamentale.

Meloni ha detto: "Siamo di parola e lo faremo." Ed è proprio questa la cifra su cui si giocherà la credibilità dell’intero progetto. Perché la giustizia, più ancora che l’economia o la sicurezza, è ciò che segna il grado di civiltà di un Paese. È la misura della fiducia dei cittadini nelle istituzioni. È la prima forma di rispetto che uno Stato può – o non può – garantire ai suoi cittadini.

Da giornalista e da cittadino, non posso che riconoscere l’urgenza e la correttezza di queste parole. E non si tratta di condividere ogni posizione del governo attuale, ma di dare atto che su questo fronte l’Italia aveva bisogno di un cambio di passo netto, concreto, non più rimandabile. Se davvero si riuscirà ad avviare una stagione nuova per la giustizia italiana, sarà una conquista di tutti. Perché una giustizia giusta non è né di destra né di sinistra: è semplicemente la condizione minima per vivere in una società libera, responsabile e umana.

11 luglio 2025

Todde: tra legalità, autonomia e un senso di smarrimento.

Seguo con attenzione – e con crescente amarezza – la vicenda che riguarda Alessandra Todde. E lo dico chiaramente: non mi interessa fare il tifo per una parte o per l’altra. Non mi interessa chi ha vinto o perso le elezioni, ma il rispetto delle regole, della verità e – soprattutto – del senso di giustizia. Ho letto con attenzione le motivazioni del Collegio di garanzia della Corte d’Appello di Cagliari. Non sono parole leggere: parlano di conti non aperti, mandati mancanti, documentazione incompleta. Non è una questione politica, è una questione tecnica, formale, ma anche morale. Perché la trasparenza in una campagna elettorale non è una scocciatura burocratica: è la base della fiducia. È ciò che ci permette di credere che il voto sia libero, pulito, e che tutti – proprio tutti – giochino con le stesse regole. Eppure, dall’altra parte, non posso ignorare quello che Todde sta dicendo. Il suo ricorso alla Corte Costituzionale apre una questione enorme: chi ha davvero il potere di far decadere una presidente eletta dal popolo sardo? Un collegio tecnico, o il Consiglio regionale? È un conflitto sottile, ma potente, tra giurisdizione e autonomia, tra la macchina dello Stato e la sovranità di una Regione che ha uno statuto speciale. E allora mi sento in mezzo. Diviso tra due verità. Da una parte il rigore della legge, che non può piegarsi per nessuno. Dall’altra, il rispetto per una legittimazione popolare che – volenti o nolenti – va riconosciuta. Ma c’è qualcosa che mi pesa di più di tutto: il silenzio della politica, che sembra usare questa vicenda solo come arma di scontro, invece di fermarsi a riflettere sul sistema. Perché se davvero le regole sono state violate, lo si dica chiaramente e si agisca. Ma se invece c’è un conflitto istituzionale profondo, non può essere ridotto a una guerra di comunicati stampa. Sono deluso. E anche un po’ stanco. Perché in questa terra, così bella e fragile, non c’è più spazio per ambiguità, per giochi di palazzo, per opacità. O si sceglie di essere seri fino in fondo, o tutto diventa solo teatro. Io, da cittadino, voglio chiarezza, verità, rispetto delle regole – ma anche rispetto del popolo sardo. Non è chiedere troppo. È chiedere giustizia.


28 ottobre 2024

Fenomeno dei femminicidi e della delinquenza minorile in Italia: una riflessione necessaria

Negli ultimi anni, l'Italia ha vissuto una crescita allarmante del numero di femminicidi e di atti di delinquenza minorile. Questi fenomeni, profondamente interconnessi, pongono interrogativi inquietanti sulla nostra società e sul futuro delle nuove generazioni. Sto assistendo a troppi femminicidi nel nostro Paese, episodi che non solo testimoniano una violenza inaccettabile, ma che evidenziano anche un grave problema culturale e sociale. Questa realtà, unita al crescente numero di atti criminali commessi da minori, mi preoccupa profondamente.
I femminicidi non sono solo un problema di ordine pubblico, ma una piaga morale che attraversa il tessuto sociale italiano. Ogni notizia di un omicidio compiuto ai danni di una donna ci ricorda che spesso la violenza di genere si manifesta in contesti familiari o affettivi, dove la fiducia dovrebbe regnare sovrana. Le cronache spesso riportano la storia di donne che, nonostante abbiano cercato aiuto, sono state travolte dalla furia di uomini che avevano amato. La giustizia, purtroppo, sembra tardare a rispondere in maniera adeguata, e questo alimenta un senso di impunità.
L'educazione al rispetto e alla parità di genere deve diventare una priorità, non solo a livello legislativo, ma anche culturale. Le istituzioni, le scuole e le famiglie devono lavorare insieme per promuovere una cultura della non violenza e della sensibilizzazione nei confronti di queste problematiche. La mancanza di dialogo e di formazione su questi temi può contribuire a perpetuare modelli tossici di relazione.
Parallelamente, la delinquenza minorile è un altro fenomeno preoccupante. I giovani di oggi, spesso soli e disorientati, si trovano in una società che offre poche certezze e, in molti casi, vivono in contesti familiari problematici. La violenza e la criminalità diventano così, per alcuni, una via d'uscita per esprimere la propria rabbia o per cercare l'appartenenza a un gruppo. La rapida evoluzione delle tecnologie ha poi aperto le porte a forme di delinquenti che prima non avremmo potuto immaginare, dall'hacking all'adescamento online, mettendo in crisi le famiglie e la società in generale.
Il disagio giovanile, se non affrontato in modo proattivo, può trasformarsi in comportamenti estremi e distruttivi. È fondamentale che la società si impegni a capire le radici di questi comportamenti, investendo in politiche di prevenzione e supporto. I programmi educativi, il supporto psicologico e la costruzione di ambienti sociali positivi possono rappresentare un antidoto contro la deriva delinquenziale.
La combinazione di femminicidi e delinquenza minorile ci interroga sul nostro ruolo di cittadini e sulla qualità dell'ambiente in cui viviamo. Dobbiamo interrogarci su come possiamo contribuire ad un cambiamento positivo. È ora di abbandonare l'indifferenza e di far sentire la nostra voce contro ogni forma di violenza e prevaricazione.
Le soluzioni richiedono una ristrutturazione non solo delle leggi, ma anche delle pratiche sociali e culturali. È promuovere una cultura della dignità, dell'uguaglianza e del rispetto, affinché ognuno, indipendentemente dal proprio genere o dalla propria età, possa sentirsi al sicuro e parte integrante della comunità.
In conclusione, la lotta contro il femminicidio e la delinquenza minorile è una battaglia che deve essere combattuta quotidianamente, coinvolgendo tutti: cittadini, istituzioni, famiglie e, soprattutto, le giovani generazioni. La speranza è che insieme possiamo costruire una società più giusta, in cui la violenza non abbia spazio e in cui ogni individuo possa vivere con dignità e rispetto.

14 settembre 2024

Ma perché la sinistra è contro Giorgia Meloni?

Negli ultimi anni, il panorama politico italiano ha vissuto un'evoluzione significativa, con l'emergere di partiti di destra come Fratelli d'Italia, guidato da Giorgia Meloni. Questa ascesa ha suscitato reazioni contrastanti, in particolare tra i settori più radicali e dogmatici della sinistra, che non esitano a etichettare Meloni e il suo partito come pericolosi per la democrazia e i diritti civili.

La critica della sinistra nei confronti della Meloni è radicata in un sentimento di invidia e rancore, derivante da un contesto politico in cui molti di loro si sentono marginalizzati. Negli anni, hanno costruito una narrazione di insuccesso, sia politico che sociale, che oggi si riflette nel loro disprezzo per ciò che comporta il nuovo centro destra in auge. Ma cosa si cela dietro questa avversione?

La nascita di un partito di centrodestra moderato, capitanato da una donna, ha scardinato le tradizionali dinamiche politiche italiane. La Meloni ha saputo, con una strategia astuta, posizionarsi come un'alternativa credibile, capace di attrarre non solo gli elettori del centrodestra, ma anche una parte di quelli delusi dalla sinistra. Questo ha lasciato la sinistra in una posizione difficile, costretti a confrontarsi con un elettorato che si è spostato verso una proposta politica che, per molti versi, appare fresca e innovativa.

La paura che la sinistra nutre nei confronti della Meloni è ulteriormente amplificata dal fatto che essa rappresenta una rottura con il passato. Molti di questi critici sono legati a ideologie ormai obsolete e a strutture politiche che non rispondono più alle esigenze della società contemporanea. Dalla loro prospettiva, l'emergere di Fratelli d'Italia rappresenta non solo una minaccia al loro potere, ma anche un invito a rivalutare le proprie convinzioni politiche.

Un'idea ricorrente tra i critici della Meloni è quella dell'auto-rappresentazione come vittime di una "dittatura straniera". Questi sinistroidi si trovano spesso a rimproverare la nuova destra per una presunta subordinazione agli interessi esterni, quando in realtà è proprio la loro visione ideologica che, storicamente, ha spesso cercato di mediare e allearsi con forze internazionali di sinistra. Questo atteggiamento contraddittorio porta i critici a chiudersi in circoli viziosi di accuse, incapaci di riconoscere e affrontare le loro responsabilità nel disastro politico e sociale che hanno contribuito a creare.

In ultima analisi, l'opposizione della sinistra alla Meloni riflette le difficoltà di una certa sinistra a trovare il proprio posto in un mondo in rapido cambiamento. La polarizzazione crescente, le disuguaglianze economiche e le sfide globali richiedono un approccio più costruttivo e pragmatico, piuttosto che reazioni impulsive basate su ideologie obsolete.

Giorgia Meloni ha saputo posizionarsi come una figura capace di gestire questo cambiamento, rispondendo alle ansie degli italiani con una proposta di politica moderata. La sfida per la sinistra, allora, sarà quella di superare le proprie paure e rivalutare il loro approccio, se davvero vogliono rimanere rilevanti in un'Italia che sta emergendo da un passato turbolento, cercando di costruire un futuro diverso.

#paolocorrias

03 agosto 2024

È morto Antonello Lai, per tutti "Tziu Lai"

Il mondo del giornalismo italiano, e in particolare sardo, piange la scomparsa di Antonello Lai, noto come "Tziu Lai", un nome che ha rappresentato per molti la lotta e la solidarietà verso i più svantaggiati. All'età di 68 anni, la sua vita si è spesa all'ospedale Brotzu, dove era stato ricoverato dieci giorni fa. La notizia della sua morte ha colpito profondamente colleghi e amici, e un'intera comunità lo ricorda come un faro di giustizia sociale.
Tziu Lai è stato un protagonista indiscusso del panorama giornalistico, noto per il suo impegno a favore delle persone ai margini della società: poveri, sfrattati e coloro che vivono in condizioni di vita inaccettabili. Il suo programma "Zona Franca", trasmesso su Tcs, è diventato un punto di riferimento per chi cercava un'informazione che non aveva paura di affrontare le tematiche più scomode e delicate. Ogni reportage era carico di umanità, raccontando storie vere e spesso tragiche, ma con la determinazione di dare voce a chi non ne aveva.
Oltre alle sue inchieste, Tziu Lai si distingueva per la sua profonda sensibilità e generosità. Spesso non si limitava a raccontare le ingiustizie; scendeva in campo in prima persona, sostenere chi aveva bisogno, portando generi alimentari e supporto a chi viveva momenti di difficoltà. La sua empatia non era solo un tratto caratteriale, ma una vera e propria missione di vita.
Recentemente aveva avviato un nuovo format web intitolato "La Zona", con l'intento di raccontare la vita quotidiana in ospedale. Era un progetto che rifletteva la sua tenacia e la continua ricerca di dare visibilità a storie di vita, anche in un contesto così difficile come quello di un reparto ospedaliero. Purtroppo, le sue condizioni, che inizialmente sembravano migliorare, sono rapidamente peggiorate, portando alla notizia della sua scomparsa.
La comunità giornalistica, oggi più che mai, si unisce in un abbraccio di cordoglio e affetto. I colleghi di Tziu Lai lo ricordano non solo come un grande professionista, ma come un uomo buono, la cui umanità ha ispirato molti. Nei giorni scorsi, uno dei suoi collaboratori aveva invitato amici e lettori a "fare una preghiera per un uomo buono". E, ora che il suo cuore ha smesso di battere, si è creata una comunità di ricordi e omaggi che mantengono viva la sua memoria.
Antonello Lai, Tziu Lai, resterà nel cuore di chiunque abbia avuto il privilegio di conoscerlo, ma soprattutto di chi ha beneficiato della sua dedizione nel dare voce ai più deboli. La sua eredità continuerà a vivere attraverso i racconti e le storie che ha portato alla luce, un invito a non dimenticare mai l'importanza della solidarietà e dell'umanità nel giornalismo.

22 luglio 2024

Un Inno alla Resilienza.


In un mondo costellato di sfide, incertezze e difficoltà, le parole “Sorridi, sorridi sempre” risuonano come un potente invito alla resilienza e alla positività. La vita, si sa, non sempre ci offre il meglio di sé; ci sono momenti in cui le avversità sembrano prevalere rispetto ai lieti eventi. Tuttavia, affrontare questi periodi difficili con un sorriso può rivelarsi una delle chiavi più significative per il nostro benessere psicologico e la nostra crescita personale.

Il sorriso è una delle espressioni più universali del linguaggio umano. Non richiede parole e può comunicare gioia, comprensione, accoglienza. Molti studi dimostrano che sorridere stimola la produzione di endorfine, le sostanze chimiche del benessere del nostro corpo, e può persino abbassare i livelli di stress. Quando sorridiamo, non solo miglioriamo il nostro stato d'animo, ma contribuiamo anche a rendere positiva l'atmosfera intorno a noi. I sorrisi possono essere contagiosi e possono servire da catalizzatori per generare il buonumore nelle persone che ci circondano.

 La resilienza è la capacità di affrontare e superare le avversità, di rimanere forti di fronte alle sfide. Sorridere anche quando la vita ci mette alla prova non significa ignorare il dolore o le difficoltà. Al contrario, implica una scelta consapevole di affrontare circa una realtà complessa mantenendo un atteggiamento positivo. È un atto di forza che ci permette di preservare la nostra gioia interiore e di affrontare le difficoltà con una mente aperta e creativa.

Quando ci troviamo di fronte a situazioni difficili, tendiamo ad essere sopraffatti da emozioni negative come tristezza, frustrazione o rabbia. È qui che il sorriso fa la differenza. Sorridere non solo ci aiuta a trasformare la nostra percezione della situazione, ma ci consente anche di rimanere aperti a nuove opportunità e situazioni positive. La vita può riservarci sorprese inattese, e mantenere un atteggiamento proattivo ci prepara ad affrontare ogni sfida nel modo più efficace.

Incorporare il sorriso nella nostra vita quotidiana richiede pratica e consapevolezza.

Inizia la tua giornata con un sorriso: Anche quando ti svegli non sentendoti al meglio, cerca di iniziare la giornata con un sorriso. È un segnale per il tuo cervello che sei aperto e pronto ad affrontare ciò che verrà.

Coltiva la gratitudine: Prenditi un momento ogni giorno per riflettere su ciò per cui sei grato. Questo cambiamento di prospettiva può far emergere un sorriso genuino dal profondo del tuo cuore.

Cerca il supporto degli altri: Condividere sorrisi e interagire con amici e familiari può amplificare il potere del tuo sorriso. Non dimenticare che il sorriso di qualcuno può rendere la tua giornata migliore.

Pratica la consapevolezza: essere presente nel momento attuale aiuta a ridurre l'ansia e a promuovere la serenità interiore. Trova momenti nella tua giornata per connetterti con te stesso e sorridere, anche se per un breve istante.

“Sorridi, sorridi sempre” non è solo un consiglio, ma un modo di vivere. Ogni giorno possiamo scegliere di affrontare le sfide con un sorriso, mantenendo viva la fiamma della speranza e della positività. In un mondo dove le certezze sono sfuggenti, il sorriso resta una delle poche cose su cui possiamo contare. Così, impariamo a sorridere, a resistere e a prosperare, rendendo la nostra vita e quella degli altri un po' più luminosa, anche nei momenti più bui.

21 luglio 2024

Parliamoci chiaro: L'elezione di Ilaria Salis e il declino della nostra classe politica.

L'elezione di Ilaria Salis, seppur possa sembrare un atto marginale nell'ambito della politica nazionale e internazionale, rappresenta una riflessione profonda sulle dinamiche della nostra società. Non si tratta solo di una scelta elettorale, ma di uno specchio che riflette il basso livello di consapevolezza critica degli elettori e la decadenza della nostra classe politica.

Da un lato, è innegabile che la nomina di una figura come “Ilaria Salis” sia un atto di scarsa rilevanza per quello che riguarda le reali sfide che la nostra nazione deve affrontare. Dall'altro, è preoccupante che, pur di ottenere qualche voto in più ( Sinistra Italiana e Verdi), si assiste a una continua svalutazione della politica: una pratica che trasforma una carica istituzionale in un mero strumento di propaganda, simile a una rappresentazione da teatro di marionette. Questo non è solo il riflesso di una classe politica superficiale, ma anche di un elettorato che sembra aver smarrito il senso critico e il rispetto per il valore del proprio voto.

Il viaggio di questa inettitudine non è cominciato oggi. Da anni, abbiamo assistito a un'invasione di figure poco adatte a rappresentare il nostro Paese nelle istituzioni europee. Soubrette, comici, e sportivi sono stati inviati come se la politica fosse un palcoscenico. Mentre altri stati inviavano rappresentanti preparati e competenti, noi abbiamo mandato una massa di individui che sembrano non comprendere le responsabilità del loro ruolo. L'immagine che abbiamo offerto è stata di totale incapacità, contribuendo a leggi che hanno strozzato la nostra competitività e deteriorato la reputazione del nostro Paese.

Ora, aggiungiamo alla lista dei “rappresentanti” anche figure che non hanno nulla a che vedere con le competenze richieste. Non è solo una questione di opportunità, ma di valori: come ci si può aspettare che una persona con un curriculum nullo difende i nostri interessi in contesti così complessi come quelli europei? La caricatura di una politica ridotta a una guerra di bande ci lascia senza parole.

Il vero nodo della questione è la responsabilità collettiva. Coloro che si dichiarano “politici” credono di agire in modo astuto candidando individui come Ilaria Salis per raccattare qualche voto. I media, invece di stimolare un dibattito critico, si concentrano sul sensazionalismo, divertendosi a discutere di personaggi invece di affrontare le questioni sostanziali. È l'elettore, però, a portare il peso maggiore di questa caduta di stile. Chi sceglie di votare senza un minimo di analisi, chi dimentica l'importanza del proprio voto, ha un ruolo chiave in questo disfacimento.

Nel tentativo di spiegare ai miei figli l'importanza di valori come il rispetto delle regole, il valore dell'istruzione e il significato del voto responsabile, mi rendo conto che stiamo vivendo in un'epoca in cui il senso dell'onestà e della serietà è messo a dura prova. Cresceranno in una società in cui la politica sembra un grande gioco, e dove le aspirazioni economiche diventano sempre più limitate. La prospettiva di un futuro migliore, purtroppo, sembra allontanarsi.

Se non invertiamo il rottame, i nostri giovani potrebbero trovarsi costretti a emigrare in cerca di opportunità, abbandonando la nostra nazione in questo stato di declino. Come ci siamo ridotti a ciò? È un motivo di vergogna per tutti noi.

L'elezione di Ilaria Salis è palpabile di significato. È un sintomo di una malattia sociale e politica più profonda e radicata. È tempo di riflessione e di azione. È giunto il momento di ripensare il nostro approccio alla politica, di valorizzare la competenza e di incoraggiare una partecipazione informata al dibattito pubblico. Non possiamo permetterci di continuare su questa strada. La nostra nazione e il suo futuro dipendono dalla nostra capacità di fare meglio. Vergogniamoci, sì, ma impariamo anche a cambiare.

La Candidatura di Salis: Un Gioco Politico Sotto i Riflettori

Negli ultimi giorni, si è tornato a parlare della candidatura della sinistra radicale italiana, Verdi-Sinistra, che ha deciso di schierare Ilaria Salis alle prossime elezioni europee. Questa scelta ha sollevato un'ondata di polemiche e di dibattito, in particolare per il contesto ungherese in cui la Salis si trova attualmente coinvolta. L'affermazione che la sua candidatura possa servire a "tirarla fuori dal carcere" ha destato l'interesse dei media e dell'opinione pubblica, alimentando un clima di sospetto e conflittualità.

La formazione della sinistra ha già dimostrato una certa propensione a mettere in risalto figure controverse. Il richiamo a eventi passati, come l'elezione di Aboubakar Soumahoro, risponde a un'analisi critica di come la sinistra italiana abbia gestito personaggi pubblici con storie familiari ambigue e vicende legate a temi di etica e legalità. La figura di Soumahoro, il cui background dato dai problemi di "beneficenza" legati alla sua famiglia ha sollevato interrogativi, si aggiunge ora a quella della  Salis, ponendo una domanda fondamentale: quanto pesa la moralità nella scelta dei rappresentanti politici?

Si fa spesso riferimento al passato della Salis e alla sua condotta in Ungheria, dove le tensioni politiche possono diventare tanto esplosive quanto sfumate. La proposta di candidarla e tirarla “fuori dal carcere” non è solo una questione di attivismo, ma anche una strategia politica che potrebbe rivelarsi rischiosa. È legittimo chiedersi se questa strategia comporterà un reale cambiamento del rottame o se si tradurrà in un fallimento collettivo.

Una delle critiche più aspre che si levano nei confronti della sinistra concerne la loro presunta ambizione di estendere il loro dominio anche oltre i confini italiani. L'accusa di voler influenzare la situazione ungherese è una denuncia seria, suggerendo che la sinistra non si accontenta di operare dentro i propri confini ma vuole allargare la propria influenza altrove. È un discorso che suscita reazioni contrastanti e, giustamente, chiama in causa le dinamiche geopolitiche in gioco.

Vi è una percezione diffusa che, anziché cercare un dialogo costruttivo, alcuni esponenti della sinistra affrontano il gioco del "manganello" nei confronti di chi dissente, una strategia che finisce per creare ulteriori divisioni e conflitti. La reazione del governo italiano, che si sarebbe potuta tradurre in una maggiore cooperazione diplomatica con Budapest, sembra essere stata compromessa dalla polarizzazione dei discorsi.

In ultima analisi, la questione centrale rimane quella dell'etica politica: non è accettabile giustificare le azioni di un leader politico semplicemente per il suo schieramento ideologico. L'individuo, in quanto rappresentante, ha la responsabilità di agire secondo principi di legalità e rispetto reciproco, anche quando opera in contesti e stati che possono sembrare oppressivi.

Mentre la sinistra si prepara a presentare Ilaria Salis come una figura simbolica e di resistenza, le sue azioni in Ungheria e il modo in cui sono state gestite non possono essere trascurate. La dichiarazione di una condanna "a 20 anni", che potrebbe derivare dalla situazione attuale, diventa una allegoria di un sistema che non perdona e di un'influenza politica che rischia di essere più dannosa che benefica.

Per concludere, la candidatura di Ilaria Salis e il suo contesto rappresentano un crocevia complesso per la sinistra italiana e una prova di quanto possa essere difficile navigare tra necessità politiche, responsabilità etiche e ideali di giustizia sociale. Solo il tempo dirà se questa strategia si rivelerà vincente o se l'eco delle divisioni in corso continuerà a risuonare per gli anni a venire.

 

 

Salis e il Padre: Un caso di opportunità controvers

Recentemente si è acceso un vivace dibattito attorno alla figura di Ilaria Salis e al suo legame con la politica europea, che ha suscitato reazioni contrastanti sia in Italia che all'estero. La notizia che  la Salis, insieme a suo padre, ha ottenuto un risultato che in molti paesi sarebbe considerato inaccessibile, ha sollevato interrogativi e critiche su come viene gestito il merito e le opportunità nel contesto politico europeo.

Salis sta per imbarcarsi su un volo diretto a Strasburgo, una destinazione simbolo del potere decisionale europeo, e lo farà "alla faccia degli ungheresi e del loro premier", come sottolineano alcuni commentatori. Questo riferimento non è solo di natura geopolitica, ma riflette anche una certa frustrazione per la percezione di opportunità ottenute tramite raccomandazioni piuttosto che attraverso un percorso di meritocrazia.

La questione solleva interrogativi su come si siano evoluti i criteri di selezione per le cariche in ambito europeo e sulla meritocrazia all'interno delle istituzioni. In un momento storico in cui il meritato riconoscimento delle competenze e delle esperienze dovrebbe prevalere, molti italiani si chiedono se sia giusto che figure come la Salis, che fino a poco tempo fa si dedicava a supplenze scolastiche, e occupazioni abusive, ottenendo posizioni di rilievo all'interno del Parlamento europeo.

Il malcontento è amplificato dall'idea che tali carriere politiche si tradurranno in stipendi consistenti, che superano di gran lunga le aspettative di chi lavora con onestà per sostenere le proprie famiglie e contribuire all'economia. Questo porta a una riflessione più ampia sulla sostenibilità delle carriere politiche in relazione al duro lavoro quotidiano di molti cittadini, che si trovano a lottare per un futuro migliore senza godere delle stesse opportunità.

In Italia, questa percezione di una “politica di privilegi” alimenta un risentimento sempre crescente verso un’intera classe dirigente accusata di essere sempre più distante dalla realtà quotidiana della popolazione. Mentre alcuni nomi in arrivo a Strasburgo sono visti come potenziali innovatori capaci di portare nuove idee, altri sono considerati semplici "scaldapoltrone", la cui presenza non apporta reali innovazioni politiche ma si limita a garantire un'entrata economica già rodata.

Riflettendo su quanto accaduto, si evocano valori fondamentali come la giustizia sociale, il merito, e l'importanza di un sistema politico che incoraggia il talento e la creatività, piuttosto che favorire le connessioni familiari o politiche.

In conclusione, l'episodio della Salis e suo padre è una lampante rappresentazione delle dinamiche che caratterizzano l'attuale panorama politico europeo. Un panorama che, sebbene possa offrire opportunità senza precedenti, rischiando di compromettere i principi di equità e merito che dovrebbero reggere ogni sistema democratico. Mentre il futuro si fa incerto, resta da vedere se tali situazioni porteranno a un cambiamento nelle pratiche politiche e nelle aspirazioni europee, o se, al contrario, alimenteranno ulteriormente la disillusione e la sfiducia dei cittadini.

05 luglio 2024

L'ipocrisia del Presidente Todde e il vero pericolo per la Sardegna.

Il Presidente della Regione Sardegna, in occasione del recente Sardegna Pride, ha rilasciato una dichiarazione sconcertante, accusando i fascisti di essere la minaccia più grande per l'Italia di oggi. Questa affermazione non è solo priva di fondamento, ma rappresenta una pericolosa semplificazione della realtà e un tentativo di distogliere l'attenzione dai veri problemi che affliggono la nostra regione.
La vera minaccia è rappresentata da un'ideologia che si cela dietro un'apparente 'tolleranza', ma che in realtà si basa su una visione distorta della società e un'intolleranza verso chi la pensa diversamente.
In realtà, l'Italia ha una lunga storia di democrazia e tolleranza. Il popolo italiano è noto per la sua apertura mentale e per il suo rifiuto di ideologie estremiste. Il Presidente Todde, invece di affrontare le vere sfide che la Sardegna deve affrontare, si rifugia in un discorso superficiale e divisivo.
L'affermazione del Presidente è pericolosa perché può essere utilizzata per giustificare la repressione del dissenso. Se la gente crede che il fascismo sia la minaccia più grande per l'Italia, allora sarà più propensa a sostenere politiche che limitano la libertà di parola e di associazione. Questo è un percorso pericoloso che ci porta dritti verso una società totalitaria.
Il Presidente Todde dovrebbe prestare maggiore attenzione ai veri problemi che affliggono la Sardegna: la sanità in crisi, la disoccupazione dilagante, la povertà crescente, la svendita dei terreni per interessi speculativi, la mancanza di investimenti in infrastrutture e ricerca. Questi sono i problemi che dovrebbero preoccupare il Presidente, non l'ombra di un fantasma che si aggira per la nostra regione.
L'affermazione del Presidente della regione è irrispettosa nei confronti delle vittime del fascismo. È anche irrispettoso nei confronti del popolo italiano, accusato senza prove di essere minacciato da un'ideologia che non ha alcun potere reale. Dovremmo tutti respingere questa affermazione e continuare a lottare per la democrazia, la tolleranza e la verità. La Sardegna merita un Presidente che si concentri sui problemi reali e non sui fantasmi immaginari.

Alessandra Todde, sta guidando la carica dei governatori (tutti di sinistra) contro l'autonomia


Dopo la firma del Presidente Mattarella sull'autonomia, le opposizioni si sono ritrovate in una posizione scomoda, costrette a fare i conti con mesi e mesi di disinformazione e bugie sul tema. La loro opposizione, spesso strumentale e basata su argomentazioni incoerenti, si è trasformata in un imbarazzo palpabile. In questo contesto, l'opposizione al progetto di autonomia sembra essere guidata da un fronte di governatori di sinistra, con il neo presidente  Alessandra Todde in prima linea. Ironia della sorte, la Sardegna è una regione autonoma, dotata di uno Statuto Speciale che le conferisce un'ampia autonomia rispetto allo Stato. Quindi, per onestà intellettuale, il presidente Todde, nel chiedere un referendum contro l'autonomia per le altre Regioni, dovrebbe anche rimettere in discussione lo Statuto Speciale della Regione, rendendo la Sardegna una regione a statuto ordinario. Altrimenti tutta la sua opposizione si traduce in un'ipocrisia insostenibile, un'incoerenza che mina la credibilità del suo intervento. La richiesta di un referendum contro l'autonomia, senza un'autocritica sulla situazione della propria regione, rivela un'ambiguità politica che non fa altro che alimentare il sospetto di una strategia di pura opposizione, priva di fondamenti reali e di una visione costruttiva per il futuro del Paese. 

Il 'campo largo' di Elly Schlein alla ricerca di unione e prospettiva

In un corridoio laterale della Camera dei Deputati, Elly Schlein, deputata del Partito Democratico ed ex vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, riflette sul suo progetto politico: il 'campo largo'.

Di fronte ai recenti sviluppi internazionali, con l'ascesa di Marine Le Pen in Francia e le difficoltà di Joe Biden, il pendolo politico sembra tornare a sinistra. Schlein analizza il panorama europeo e italiano, ponendosi domande sul futuro del suo movimento.

In Inghilterra, è prevista una vittoria dei laburisti. In Francia si osserva la forte adesione alla desistenza tra sinistra e macronisti, rendendo difficile per la destra raggiungere la maggioranza assoluta.

Per quanto riguarda l'Italia, Schlein nota un certo nervosismo a destra. Ritiene che le voci di elezioni anticipate da parte di Giorgia Meloni siano infondate, poiché i suoi numeri sarebbero inferiori a quelli attuali.

Sul versante del 'campo largo', la deputata sottolinea il successo nelle recenti elezioni amministrative. Ribadisce che non esiste un'alternativa a questa unione di forze e auspica la presenza di un 'centro' definito, non frammentato.

Schlein ha avuto colloqui sia con Carlo Calenda di Azione che con Matteo Renzi di Italia Viva. Tuttavia, si vede ancora la difficoltà nel riunirli. Secondo lei, Renzi ha dimostrato una maggiore volontà di unità, mentre Calenda è 'meno politico'.

Il 'campo largo' di Elly Schlein, dunque, è alla ricerca di una maggiore coesione e di una prospettiva chiara. Il panorama politico internazionale e nazionale sembra favorevole alla sinistra, ma sarà necessario trovare le convergenze necessarie per costruire un'alternativa credibile al centrodestra.

Verdi e Sinistra: un'alleanza in bilico? Il nodo dell'occupazione abusiva e l'ecologismo come nuova frontiera

Le parole di Angelo Bonelli, segretario dei Verdi, sul tema dell'occupazione abusiva di case, in netto contrasto con la posizione della neo europarlamentare Ilaria Salis (Sinistra Italiana), riaprono un dibattito delicato: la coesistenza tra Verdi e Sinistra Italiana, un'alleanza che sembra sempre più fragile.

La divergenza sulla questione delle occupazioni, un tema che ha acceso il confronto politico negli ultimi mesi, evidenzia una profonda frattura tra le due forze politiche, entrambe parte del gruppo parlamentare 'Alleanza Verdi e Sinistra'. L'affermazione di Bonelli, che si è detta contraria a qualsiasi forma di illegalità, mette in luce una diversa sensibilità rispetto alla posizione di Salis, più incline a una lettura del contesto che tiene conto delle difficoltà abitative e della necessità di soluzioni concrete per chi si trovano in situazioni di precarietà.

Questo diverbio riaccese il dibattito interno al gruppo, con diversi ecologisti che auspicano un distacco dalla Sinistra Italiana per costruire un movimento verde autonomo, il cui modello è affermato a livello continentale. L'obiettivo sarebbe quello di creare un soggetto politico che si identifichi in un'agenda ambientalista senza compromessi, consolidando una base elettorale che negli ultimi anni ha dimostrato una crescente attenzione per i temi green.

In questo contesto, il M5S sembra aver individuato una nuova strategia per rilanciarsi: cavalcare l'onda del verde. I pentastellati, usciti indeboliti dalle ultime elezioni, puntano a ritagliarsi uno spazio diverso a Bruxelles, dove al momento sono relegati in un ruolo secondario nel Partito Socialista Europeo (PSE), sempre alle spalle dei democratici di Schlein.


L'ecologismo diventa un terreno fertile per il M5S, che potrebbe sfruttare la sua esperienza in materia per inserirsi nel dibattito europeo e conquistare un ruolo centrale. La somiglianza di posizioni tra Verdi e M5S sull'agenda verde ha già portato ai primi segnali di collaborazione, con ammiccamenti reciproci e la possibilità di un'intesa strategica.


La situazione si presenta quindi complessa: un'alleanza in bilico tra Verdi e Sinistra Italiana, la ricerca di un percorso autonomo per i Verdi, il tentativo del M5S di rilanciarsi con un'agenda green e la possibilità di nuove alleanze. Il futuro politico italiano, in questo scenario, si presenta come un terreno fertile per il confronto e la ridefinizione degli equilibri, con l'ecologismo al centro del dibattito.