22 agosto 2025

Il gas che torna sempre indietro

 Articolo sull’America, la Russia e l’ipocrisia energetica


Ci sono notizie che non ti sorprendono, eppure ti lasciano addosso una sensazione di amaro in bocca. Non ti sorprendono perché sai già, in fondo, come funziona il mondo: i valori proclamati sono quasi sempre maschere, le grandi dichiarazioni morali spesso servono a coprire semplicemente interessi materiali. Ti lasciano l’amaro in bocca perché rivelano una verità che non vorresti vedere confermata così presto e in modo così sfacciato. È quello che ho provato leggendo i lanci di agenzie come Reuters (leggi qui), articoli del Financial Times (leggi qui), analisi del Washington Post (leggi qui) e persino approfondimenti del Guardian (leggi qui): gli Stati Uniti, gli stessi che hanno guidato la crociata contro il gas russo, oggi si propongono come intermediari proprio di quel gas, pronti a farlo tornare in Europa attraverso nuove etichette, nuovi canali, nuovi artifici.

Ricordo bene le parole ascoltate solo un paio di anni fa: “Mai più dipendenza energetica da Mosca, mai più ricatti di Putin, mai più sottomissione al gas russo”. Ricordo la retorica dei sacrifici, le bollette schizzate in alto, la narrazione secondo cui ogni grado in meno nei nostri termosifoni era un gesto di resistenza democratica, un colpo dato alla macchina bellica russa. E oggi? Oggi si ragiona su come comprare lo stesso gas, solo che questa volta con la mediazione americana. La sostanza non cambia, cambia solo la cornice. È come se bastasse uno strato di vernice a ridipingere di bianco ciò che ieri era nero.

Secondo Reuters, durante colloqui informali nei negoziati di pace tra Washington e Mosca, si è discusso della possibilità che aziende statunitensi acquistino direttamente gas da Gazprom e lo rivendano al mercato europeo. Un giro lungo, ma non troppo, che permette a Bruxelles di dire: “Non stiamo comprando dalla Russia, ma dagli Stati Uniti”. Il gas resta russo, il fornitore ufficiale diventa americano. Una partita di prestigio, una magia diplomatica che cancella l’imbarazzo morale e soddisfa allo stesso tempo la fame energetica dell’Europa. È difficile non pensare a un gioco delle tre carte, di quelli che si fanno per strada e che ti lasciano sempre con la sensazione di essere stato preso in giro.

Il Financial Times, da parte sua, ha scritto di un progetto molto concreto: rilanciare il Nord Stream 2, il gasdotto che doveva essere sepolto per sempre dopo l’invasione dell’Ucraina, grazie a un consorzio di investitori statunitensi. Quel tubo che era stato dipinto come il simbolo del ricatto energetico russo, come un legame tossico da recidere, ora torna improvvisamente appetibile se garantisce agli americani un nuovo controllo strategico. Non conta più il principio, conta la leva geopolitica. Non conta più l’embargo morale, conta la possibilità di tenere l’Europa al guinzaglio attraverso l’energia.

Il Washington Post ha raccontato un’altra faccia della stessa medaglia: lo scenario artico. Si parla di LNG, il gas naturale liquefatto che viene estratto e trasportato dalle regioni gelide. Qui, gli Stati Uniti valutano di entrare nei progetti russi, di ritagliarsi una fetta delle esportazioni, magari per poi rivendere quel gas ad altri paesi sotto un’etichetta diversa. È il paradosso più grande: l’America che denuncia la dipendenza da Mosca e nello stesso tempo valuta di diventare socia negli affari energetici russi. Non più contro, ma attraverso.

E io, che queste notizie le leggo non da analista ma da semplice cittadino, da persona che paga le bollette e ricorda gli appelli a stringere la cinghia, non riesco a togliermi dalla mente una domanda che brucia: ma quanto valgono davvero le parole della politica? Quanto valgono le dichiarazioni solenni, i discorsi vibranti, se alla fine tutto può essere capovolto, riscritto, riadattato? Abbiamo sacrificato redditi, abitudini, risparmi in nome di una coerenza che si è sciolta al primo tavolo di trattativa.

L’Europa, come al solito, sembra comparsa muta in questo film. Abbiamo fatto la voce grossa contro Putin, abbiamo invocato la transizione energetica, abbiamo parlato di sovranità strategica, e oggi ci ritroviamo a guardare, ancora una volta, decisioni prese sopra le nostre teste. Prima dipendenti da Mosca, ora dipendenti da Washington. Sempre spettatori di una partita che altri giocano e vincono.

C’è qualcosa di profondamente umiliante in tutto questo. Non perché io pensi che l’Europa possa davvero fare a meno di tutto e di tutti — sarebbe ingenuo — ma perché mi aspettavo almeno un briciolo di coerenza. Invece no. Abbiamo barattato la narrativa della fermezza con quella della convenienza, e lo abbiamo fatto nel giro di pochi mesi.

Forse non dovrei stupirmi. Forse dovrei accettare che la politica internazionale funziona così, che le sanzioni servono più a segnare un confine simbolico che a cambiare la sostanza, che il denaro e l’energia vincono sempre. Ma non riesco a non sentirmi preso in giro. Non riesco a non pensare a quelle famiglie che hanno dovuto scegliere se pagare la luce o la spesa, a quegli imprenditori che hanno chiuso perché i costi erano diventati insostenibili, a quella retorica dei sacrifici che ora appare ridicola, vuota, insultante.

Mi viene da sorridere amaramente quando leggo che persino Di Battista, con il suo tono spesso provocatorio, aveva anticipato questa ipotesi nei suoi post. Allora sembrava la solita esagerazione, la solita denuncia populista. Oggi Reuters, FT e Washington Post dicono le stesse cose, solo con un linguaggio più elegante. È come se la verità fosse un serpente che si muove sotto terra: lo vedi spuntare qua e là, non gli credi, poi alla fine ti rendi conto che era lì da sempre, e che eri tu a non volerlo vedere.

E così il gas russo, quello che doveva sparire, torna dalla finestra. Torna con un nuovo passaporto, con un timbro americano, con un’etichetta diversa. Ma resta lo stesso gas, estratto dalle stesse terre, pompato dalle stesse aziende. Torna perché non si può rinunciare alla realtà, e la realtà è che l’Europa ha bisogno di energia, e chi la controlla può riscrivere le regole del gioco.

Io non ho soluzioni. Non mi illudo di avere la risposta giusta. Ma so che non posso più ascoltare senza rabbia chi parla di principi, di valori, di scelte irreversibili. Perché so che dietro ogni parola si nasconde un interesse pronto a cambiarla. E so che, alla fine, il gas torna sempre indietro, anche quando avevano giurato che sarebbe sparito per sempre.

 

19 agosto 2025

La Sardegna ferita

 Riflessione sulla cultura nazionale che resiste all’agonia del dominio


Ci sono domande che fanno tremare, perché quando le pronunci ti accorgi che non stai cercando una risposta oggettiva ma una confessione, una resa o forse un atto d’amore. Una di queste domande è proprio questa: che cos’è, oggi, la cultura nazionale dei Sardi? E quando me lo chiedo, sento dentro di me un misto di orgoglio e di dolore, come se stessi rovistando tra le macerie di una casa crollata per capire se ci sia ancora un tetto sotto cui ripararmi. Perché sì, io sento che la mia terra ha una cultura nazionale, ma la percepisco stanca, piegata, a tratti umiliata, trascinata in una agonia che non ha fine. Un’agonia che non uccide ma non lascia vivere, che spegne senza estinguere, che lascia tutto sospeso in una sopravvivenza amara.

Quando penso alla cultura dei Sardi, la prima cosa che mi viene in mente non è un libro o un simbolo, ma il suono di una lingua. Il sardo. Una lingua che per secoli ci hanno detto di nascondere, come se fosse sporca, come se fosse sinonimo di ignoranza. Ricordo ancora gli sguardi di chi, a scuola, rideva di chi usava il sardo nel cortile, e i maestri che ci correggevano con severità, come se usare la lingua di nostra madre fosse un difetto da estirpare. È qui che si consuma gran parte della nostra agonia: una lingua antica, viva, dolce e dura allo stesso tempo, trattata come un fastidio. Ma nonostante tutto resiste. Ogni volta che torno in paese, la sento nelle piazze, nelle cucine, nei silenzi pieni di significato degli anziani. È un sussurro che non muore, ma è come se vivesse in clandestinità. Una lingua nazionale ridotta a dialetto, un cuore trasformato in ornamento. E mi chiedo: come possiamo sentirci davvero popolo se la lingua che ci unisce viene ridotta a folclore o a curiosità etnografica?

Eppure la cultura nazionale non è solo lingua. È anche memoria, ed è proprio lì che si sente il peso coloniale. I Sardi hanno memoria di dominazioni, di padroni che hanno estratto, sfruttato, deciso al posto nostro. Aragonesi, spagnoli, piemontesi, italiani. Tutti hanno preso, pochi hanno restituito. Le miniere abbandonate nel Sulcis, le basi militari che occupano ancora oggi vaste porzioni di territorio, i pascoli trasformati in aridi deserti, i boschi tagliati, le coste vendute al turismo di massa. E noi? Noi a guardare, a subire, a piegarci. La cultura nazionale dei Sardi oggi è anche questa: la coscienza amara di essere stati colonia, trattati come terreno di conquista, e la rabbia silenziosa di non essere mai riusciti a riprendere in mano fino in fondo il nostro destino.

Però non voglio ridurre tutto alla lamentela. La cultura nazionale è anche ciò che resiste e ciò che si reinventa. Penso ai canti a tenore, dichiarati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, eppure ancora poco conosciuti persino da molti italiani. Quando li ascolto mi sembra di sentire la voce della terra stessa: la polifonia ruvida, gutturale, sembra nascere dalle pietre, dal vento, dal silenzio delle campagne. Non è solo musica: è identità, è appartenenza. Allo stesso modo, la poesia improvvisata, i mutetus, gli stornelli, che ancora oggi animano le feste paesane, sono testimonianza di una vitalità che nessun colonialismo è riuscito a spegnere. Sono forme di resistenza che vivono dentro i corpi, dentro le voci, più forti di ogni legge che le voleva cancellare.

Ma poi guardo la realtà contemporanea e vedo quanto sia fragile tutto questo. Vedo giovani che non conoscono più il sardo, che magari ballano in discoteca con canzoni importate e non sanno nulla dei canti delle loro nonne. Vedo una cultura che rischia di essere vissuta solo come souvenir, come cartolina da vendere ai turisti. E mi arrabbio. Mi arrabbio perché sento che ci stiamo lasciando rubare l’anima senza neppure rendercene conto. L’agonia prolungata che viviamo sta tutta qui: abbiamo un patrimonio gigantesco, ma lo trattiamo come un cimelio da museo, non come qualcosa che pulsa nelle nostre vene.

Che cos’è, allora, oggi, la cultura nazionale dei Sardi? Forse è proprio questo contrasto tra ciò che resiste e ciò che si spegne. È il gusto del pane carasau che ancora troviamo sulle nostre tavole, ma anche la sostituzione del lavoro comunitario con la precarietà importata da modelli economici esterni. È il senso di ospitalità e solidarietà che ci appartiene, ma anche la rassegnazione davanti alle decisioni prese altrove. È il canto delle launeddas che pochi sanno ancora suonare, ma che vibra nelle feste quando qualcuno lo riporta in vita. È la memoria delle lotte contadine, dei pastori che hanno resistito all’imposizione dei prezzi bassi, ma anche la fatica quotidiana di vedere i nostri giovani partire per cercare altrove ciò che qui non trovano.

Personalmente, io sento che la nostra cultura nazionale oggi è in bilico. Non è morta, ma non è pienamente viva. Non è distrutta, ma non è sovrana. È un insieme di frammenti che resistono, che sopravvivono nei gesti, nei riti, nelle parole di chi ancora crede. È come un corpo che respira a fatica, ma che non vuole arrendersi. E forse è proprio questa resistenza ostinata, questo rifiuto di morire, a definire la nostra identità.

Se guardo alla letteratura contemporanea sarda, vedo segnali forti: scrittori come Niffoi, Fois, Soriga hanno portato la Sardegna dentro la modernità senza rinunciare alla sua specificità. Nel cinema, registi come Mereu hanno raccontato storie che parlano a tutti, ma che nascono da radici profondamente sarde. Nella musica, artisti come Elena Ledda o i Tazenda hanno dimostrato che si può parlare al mondo partendo da un piccolo paese. Tutto questo mi dice che la cultura nazionale dei Sardi non è morta, è semmai in continua trasformazione. Ma resta il fatto che non c’è un riconoscimento pieno: ciò che è sardo viene sempre visto come “regionale”, come “locale”, mai come parte di una nazione con la sua dignità.

Ecco allora il vero nodo: la nostra cultura nazionale oggi consiste in una lotta per il riconoscimento. Non basta avere lingua, tradizioni, arte, memoria. Tutto questo rischia di essere ridotto a folklore se non c’è la coscienza politica e collettiva di essere nazione. Ed è proprio ciò che manca: una coscienza nazionale diffusa, condivisa, orgogliosa. Troppi sardi hanno interiorizzato il disprezzo coloniale, al punto da sentirsi quasi in imbarazzo a rivendicare la propria identità. È come se ci avessero convinto che siamo troppo piccoli per contare, troppo arretrati per essere protagonisti, troppo isolati per costruire da soli il nostro futuro.

Io non ci sto. Io penso che la cultura nazionale dei Sardi oggi sia fragile, certo, ma anche capace di rinascere. Penso che essa consista proprio nella possibilità di resistere ancora, di riprendersi uno spazio che non ci è stato mai davvero concesso. Non è un cammino semplice, e forse è più facile rassegnarsi. Ma io credo che dentro ogni festa paesana, in ogni anziano che parla sardo con il nipote, in ogni artista che canta la Sardegna nel mondo, ci sia una scintilla che tiene acceso il fuoco. È piccolo, ma c’è. E forse il nostro compito oggi è proprio quello di alimentarlo, di non lasciare che si spenga.

In fondo, la cultura nazionale dei Sardi oggi è questo: una memoria viva che sopravvive all’agonia, una identità che resiste ai margini, un orgoglio che ancora non ha trovato piena voce. Non è una cultura morta: è una cultura ferita, maltrattata, colonizzata. Ma proprio per questo è autentica, vera, dolorosamente vera. E chi la sente, la sente nel sangue.

Forse un giorno la Sardegna riuscirà a trasformare questa agonia in rinascita. Forse un giorno smetteremo di parlare solo di sopravvivenza e parleremo di piena fioritura. Io non so se sarò lì a vederlo, ma so che ogni volta che ascolto un canto a tenore, che respiro il vento di Maestrale, che parlo in sardo con qualcuno che capisce, io sento che quella cultura è ancora viva. E questo mi basta per continuare a crederci.























Profeti di sventura

 

Come le opposizioni italiane hanno costruito castelli di sabbia sperando che crollassero sulla testa del Governo Meloni.


C’è una cosa che mi ha sempre colpito in questi ultimi anni: la capacità delle cosiddette opposizioni di trasformarsi in profeti del nulla. Hanno una competenza straordinaria nel prevedere catastrofi che non arrivano mai, nel disegnare scenari da apocalisse che puntualmente si rivelano illusioni, nel tentare di spaventare un popolo che invece, nonostante mille difficoltà, continua a resistere, a lavorare e a vivere. All’avvento del Governo Meloni, le Cassandre del centrosinistra – con Elly Schlein in testa, seguita da Conte, Landini e una pletora di coristi – hanno cantato la loro litania: “Sarà la fine dell’Italia. Andremo in recessione. Isolamento diplomatico. Aumento del precariato. Collasso sociale. L’Italia fuori dall’Europa”. E via dicendo, in un repertorio che somigliava più a una predica da televangelista disperato che a una seria analisi politica.

Eppure, a distanza di due anni e mezzo, i dati parlano chiaro. L’ISTAT certifica la crescita dell’occupazione e dei contratti stabili. Non lo dice un comunicato di partito, non è propaganda di Palazzo Chigi: è il principale istituto statistico italiano. Il lavoro aumenta, i contratti si stabilizzano, le previsioni nere restano appese nel vuoto come bandiere sbrindellate dopo una tempesta che non c’è mai stata. Ma gli stessi che avevano giurato di vedere il baratro dietro l’angolo continuano imperterriti, senza mai chiedere scusa, senza mai ammettere di aver sbagliato, senza mai fare un passo indietro. È questa la cifra del loro fallimento: l’incapacità totale di riconoscere la realtà quando non corrisponde ai loro desideri.

Gli stessi che urlavano al rischio di isolamento internazionale si trovano oggi costretti, malvolentieri, a fare i conti con una Presidente del Consiglio che partecipa a tutti i principali vertici europei e atlantici, che parla con i leader mondiali, che stringe accordi e che siede ai tavoli che contano. Quella che secondo loro avrebbe dovuto ridurci a una barzelletta internazionale, è oggi ascoltata, rispettata, e perfino temuta dai suoi interlocutori. Altro che isolamento: mai come oggi l’Italia è al centro del dibattito politico globale, e questo dà loro un fastidio che trasuda da ogni dichiarazione, da ogni post, da ogni intervista. Non sanno accettarlo, non vogliono ammettere che il loro racconto era una bufala.

E poi c’è la questione migratoria, il tema che per anni hanno brandito come un’arma retorica per colpire la destra. Ricordiamo bene le accuse: “Non sapranno mai gestirla. Faranno solo propaganda. Gli sbarchi esploderanno. L’Europa ci abbandonerà. Gli accordi non arriveranno mai.” Bene, oggi i numeri parlano da soli: nel 2024 l’Italia ha registrato un crollo degli arrivi del 57% e migliaia di rimpatri andati a buon fine. Non è la soluzione definitiva, certo, non è la bacchetta magica che cancella un fenomeno epocale, ma è un risultato concreto, tangibile, che smentisce anni di chiacchiere e di illusioni. E loro cosa fanno? Fingono che i numeri non esistano, li derubricano a “coincidenze”, si arrampicano sugli specchi pur di non ammettere che qualcuno ha fatto meglio di loro. È patetico, ma soprattutto è offensivo per l’intelligenza degli italiani.

E allora, caro Conte, cara Schlein, caro Landini, continuate pure a profetizzare sventure. Continuate a gridare al disastro, a prevedere crolli che non arrivano mai, a raccontare favole di paesi in rovina. Perché, paradossalmente, ogni vostra previsione negativa si trasforma in un assist involontario al Governo. Ogni vostra accusa, ogni vostra invettiva, ogni vostra condanna, diventa benzina che alimenta il motore della maggioranza. Siete i primi sponsor della Meloni senza nemmeno accorgervene.

Ma andiamo più a fondo, perché limitarsi a constatare l’errore sarebbe troppo poco. Quello che emerge in maniera lampante è un tratto culturale e politico dell’opposizione italiana: l’incapacità di elaborare un pensiero autonomo, lucido, fondato sulla realtà. Preferiscono aggrapparsi alle paure, evocare spettri, agitare fantasmi. È la logica del “tanto peggio, tanto meglio”: se l’Italia va male, possiamo tornare al potere. Non si chiedono mai cosa sia giusto per il Paese, si chiedono solo come cavalcare il malcontento. È questo che li rende pericolosi: non la loro forza, ma la loro debolezza, non la loro visione, ma la totale assenza di visione.

E guardiamo i personaggi. Elly Schlein, che parla di “condizioni materiali degli italiani” con un tono da manuale universitario, senza mai sporcarsi le mani nella realtà quotidiana delle persone. Conte, il prestanome politico di un movimento in frantumi, che vive ancora del riflesso sbiadito dei suoi giorni a Palazzo Chigi, incapace di proporre qualcosa di nuovo se non la solita litania di bonus e assistenzialismo. Landini, che confonde il sindacato con un partito e pensa che basti gridare in piazza per cambiare il mondo, ignorando che il lavoro, quello vero, chiede risposte complesse e non slogan da megafono. Tutti accomunati dalla stessa caratteristica: un vuoto siderale di idee.

La verità è che queste opposizioni hanno bisogno della catastrofe, perché senza catastrofe non hanno ragione d’essere. Hanno costruito la loro identità sull’idea che il governo di destra sia un disastro, e quando i numeri dicono il contrario vanno in tilt. È come se un illusionista fosse smascherato davanti al pubblico: non sa più che fare, e allora improvvisa, balbetta, si inventa nuove magie che però non incantano più nessuno. Ecco cosa vediamo: un’opposizione che recita male una parte scritta male, e che pretende applausi da un pubblico che ha smesso di crederle.

Intendiamoci: nessuno qui dice che il Governo Meloni sia perfetto. Ha limiti, difficoltà, errori. Ma la differenza sostanziale è che questo governo prova a fare, mentre le opposizioni si limitano a disfare, a criticare, a distruggere. E tra chi prova, anche sbagliando, e chi non fa altro che scommettere sul fallimento altrui, gli italiani scelgono il primo. Perché almeno lì c’è un tentativo, una direzione, un senso. Dall’altra parte c’è solo un coro di lamentele, un muro di no, un deserto di idee.

E allora, sì, continuate pure a dire che verrà il disastro. Continuate a gridare che l’Italia cadrà a pezzi. Continuate a sognare un crollo che non arriva mai. Più lo fate, più vi rendete ridicoli. Più insistete, più vi screditate. Più alzate la voce, più la gente vi ignora. Il futuro non si costruisce con la paura, si costruisce con il coraggio, e questa è la differenza che vi condanna all’irrilevanza.

Alla fine, il vero isolamento non è quello che avevate pronosticato per l’Italia: è il vostro. Isolati dal paese reale, isolati dai lavoratori che non vi seguono più, isolati dagli elettori che vi voltano le spalle, isolati dalla storia che vi ha già archiviato.

E il bello, se così si può dire, è che non ve ne accorgete nemmeno.

 
















18 agosto 2025

Il vuoto mascherato da stile

 Contro la volgarità travestita da successo


Credo non ci sia cosa più coatta, più cafona e più squallida di chi pensa che mostrare banconote, in stile Scarface di periferia, equivalga a dimostrare successo, potere o talento. Non è grandezza, non è arte, non è nemmeno provocazione intelligente: è semplicemente la versione moderna del becero “guardate quanto sono figo” detto al bar davanti a un grappino scadente. È la miseria mascherata da lusso, l’ignoranza esibita come status symbol. E sì, caro Tony Effe, sei tu l’incarnazione perfetta di questo nulla. Non sono un fan di Fedez, non mi è particolarmente simpatico, ma almeno lui, con pregi e difetti, un cervello lo ha. Ha un programma, intervista personaggi di politica, giornalisti, sportivi, artisti, persino ex malavitosi: insomma, qualcosa da dire ce l’ha, e soprattutto dà voce anche ad altri. Non sarà un genio, ma almeno dimostra di avere interesse per la realtà. Tu invece, cosa rappresenti? Solo fumo tossico, arroganza da quattro soldi e un vuoto pneumatico che cerchi di riempire con pacchi di banconote sventolati come un ragazzino che gioca a fare il gangster.

Artisticamente sei il nulla, un deserto di contenuti. E come se non bastasse sei maleducato, privo di valori, incapace di distinguere i limiti tra la provocazione e la vera offesa. Ti sei persino permesso di tirare in mezzo i figli degli altri, roba che nemmeno nei peggiori bar di Caracas si sentiva più. I figli degli altri non si toccano, non si nominano nemmeno. E tu invece hai avuto la brillante idea di offendere un bambino che non c’entra niente. Ti rendi conto della bassezza? E pensa che stai pure per diventare padre: complimenti, davvero. L’esempio lo stai già dando: un padre che costruisce la sua immagine sul disprezzo gratuito e sull’insulto squallido. “Lucia ti do un consiglio: la vita è corta. Devi stare tranquillo. Non assomigli a tuo figlio. L’hai chiamato Leone, ma sei un coniglio.” Questa frase ti qualifica meglio di mille interviste. Sei tu il coniglio, Tony. Perché solo un vigliacco se la prende con chi non può difendersi.

Nella foto almeno una cosa giusta l’hai fatta: ti sei messo il ciuccio in bocca. Finalmente un gesto coerente. Perché ti atteggi a gangster, a ribelle maledetto, a fenomeno, ma a 34 anni puzzi ancora di latte. Sei la caricatura mal riuscita di ciò che vorresti essere. Scarface nella tua versione fa ridere, non fa paura. Il problema è che tu questa maschera da duro te la sei tatuata addosso, e ci credi pure. Ma dietro quel ghigno da bulletto di periferia c’è solo il vuoto. Vuoto nei testi, vuoto nei valori, vuoto nella visione del mondo.

E il peggio è che ti permetti pure di lanciare messaggi ai ragazzini che ti seguono, messaggi che puzzano di violenza, di droga, di mancanza totale di rispetto verso le donne. Ma lo capisci o no che sei un disastro educativo? Lo capisci che quelle ragazzine e quei ragazzini che ti idolatrano si stanno bevendo il veleno che versi nelle tue canzoni? Non sei un artista, sei un sintomo. Il sintomo di una società che ha smesso di distinguere tra talento e rumore, tra ribellione e degrado. E tu sei il testimonial perfetto di questa decadenza: ogni strofa che canti è un insulto al buon senso, ogni gesto che fai è un messaggio tossico che circola libero sui social.

Ma stai tranquillo, la pacchia finirà. Perché i ragazzini che oggi ti seguono non resteranno tali per sempre. Cresceranno, capiranno, si accorgeranno che quella che tu spaccia come trasgressione è solo spazzatura ben confezionata. E quando apriranno gli occhi, ti lasceranno indietro, come si lascia indietro un giocattolo rotto. Non ti illudere, Tony: la tua parabola ha già un orizzonte. Oggi ti esaltano per il linguaggio sporco e la posa da gangster, domani ti guarderanno con imbarazzo, e rideranno di quella maschera che non avrai più la forza di sostenere. A 50 anni non potrai più fare il finto gangster con il ciuccio in bocca. A 50 anni dovrai cambiare spartito, e allora sì, sarà davvero “Game Over”.

Perché la verità è che sei destinato a rimanere una parentesi trash, un’icona di degrado che verrà ricordata solo come esempio di cosa non fare, di cosa non essere, di quanto in basso si può scendere pur di strappare un applauso vuoto. Ti piace mostrarti con i soldi in mano? Bene, goditela. Ma ricordati che la vera ricchezza non è quella che conti in banconote, ma quella che lasci in chi ti ascolta. E tu, caro Tony, lasci solo macerie.

Vergognati. Vergognati di tutti i messaggi sbagliati che hai lanciato e che continui a lanciare. Vergognati di aver ridotto la musica a rumore tossico, vergognati di aver trasformato il palco in un ring di offese gratuite, vergognati di aver reso la volgarità un marchio. Sei un uomo di 34 anni che ancora gioca a fare il bambino ribelle. Un uomo che confonde la libertà con l’insulto, l’arte con il finto gangsterismo da videoclip. Ti illudi di essere temuto, ma in realtà fai solo pena. Non sei un ribelle, sei un burattino. Un burattino che balla al ritmo degli algoritmi, dei click, delle visualizzazioni. E quando l’algoritmo deciderà che sei vecchio, che sei noioso, che sei superato, ti butterà via senza rimorsi. E sarà allora che capirai cosa significa davvero essere inutile.










L’inganno delle illusioni

 Perché le parole della Elly non meritano più fiducia e perché il popolo non dimentica le incapacità già dimostrate.


Ho letto con attenzione, più volte, le dichiarazioni della Elly. Quelle frasi pronunciate con la certezza di chi pensa di avere già scritto il futuro: “Le condizioni materiali degli italiani le trasformiamo in proposte: salario minimo, legge contro il part-time forzato, congedo paritario, sanità pubblica che loro smantellano. Tra due anni andremo al Governo per ridare speranza al paese.” Le ho rilette perché a una prima occhiata sembravano le solite promesse, i soliti slogan di repertorio, ma più ci tornavo sopra e più sentivo montare in me una rabbia profonda, un disgusto che non riesco a trattenere. Perché non sono parole innocue: sono la dimostrazione di quanto la politica sia ormai ridotta a un teatro di illusioni, recitato da attori mediocri che si illudono di convincere il pubblico solo con qualche frase di effetto.

E invece no, non funziona più così. Perché noi non siamo più disposti a farci prendere in giro. Non siamo più disposti ad accettare come “novità” ciò che in realtà è solo riciclo di vecchie promesse già tradite. Salario minimo, part-time forzato, congedo paritario, sanità pubblica: tutte parole che negli ultimi vent’anni sono state pronunciate decine di volte, da leader diversi, da governi diversi, sempre con la stessa solennità, sempre con la stessa convinzione di poter riscrivere il destino del paese. E ogni volta la stessa fine: nulla. Solo chiacchiere, solo fumo, solo delusioni. E il paradosso è che oggi queste parole vengono rilanciate proprio da chi ha già avuto il potere, da chi ha già avuto la possibilità concreta di cambiare le cose, da chi ha già dimostrato non solo di non essere capace, ma di non avere nemmeno la volontà di farlo.

Perché questo è il punto centrale: già avete dimostrato le vostre incapacità. Non serve che voi ritorniate nei luoghi dei disastri. Non c’è bisogno di una seconda occasione per chi la prima l’ha sprecata in modo così clamoroso. Non c’è bisogno di nuove promesse da chi ha già avuto la fiducia e l’ha tradita. Non c’è bisogno di ascoltare di nuovo chi ha preferito i compromessi di palazzo alla vita reale della gente.

Il salario minimo? Ricordo perfettamente le occasioni in cui sarebbe stato possibile approvarlo. Ricordo i dibattiti, i numeri, le maggioranze favorevoli. Ricordo anche la retromarcia, i rinvii, i tavoli tecnici, le scuse. Oggi la Elly ce lo ripropone come se fosse una scoperta, come se fosse la bandiera di una rivoluzione imminente. Ma la realtà è che quando avete avuto la possibilità, avete scelto di non fare nulla. Avete lasciato milioni di lavoratori con stipendi da fame, con contratti da sfruttamento, con la certezza di non avere futuro. Oggi venite a raccontarci che “tra due anni” diventerà la vostra priorità? È un insulto, non una promessa.

La legge contro il part-time forzato. Una battaglia sacrosanta, certo. Ma dov’eravate quando le lavoratrici vi denunciavano, quando i sindacati vi portavano numeri e casi, quando il precariato femminile cresceva senza freni? Eravate lì, a parlare di altro. A organizzare convegni. A riempirvi la bocca di parità e inclusione mentre migliaia di donne accettavano lavori a metà, stipendi a metà, dignità a metà. Oggi vi ricordate del problema perché fa comodo alla vostra narrazione. È un’altra presa in giro.

Il congedo paritario. Qui il paradosso è enorme. Parlate di congedo come se fosse la bacchetta magica per la parità, quando in Italia la natalità è crollata, quando migliaia di giovani non possono nemmeno permettersi di mettere su casa, quando il lavoro precario e malpagato impedisce qualsiasi progetto di vita stabile. Di che congedo parliamo, se prima non si crea la possibilità reale di costruire una famiglia? È ipocrisia allo stato puro. È parlare di diritti che non si applicano a nessuno, perché nessuno può permettersi di usarli.

E la sanità pubblica. Qui non basta la rabbia, serve la memoria. Avete governato anni in cui la sanità veniva tagliata, ospedali chiusi, posti letto cancellati. Avete visto le regioni trasformare la salute in un business, e non avete mosso un dito. Durante la pandemia le crepe sono diventate voragini, e anche lì avete preferito slogan e conferenze stampa a riforme vere. Oggi vi svegliate e vi accorgete che la sanità è sotto attacco. Vi accorgete che bisogna difenderla. Ma chi l’ha smantellata, se non voi insieme a chi ora fingete di combattere?

Tutto questo sarebbe già abbastanza per archiviare le vostre parole come ennesima sceneggiata. Ma la parte più offensiva arriva alla fine, quando la Elly, con un sorriso che sa di arroganza più che di fiducia, dichiara: “Tra due anni andremo al Governo per ridare speranza al paese.” Questa frase mi ha gelato. Non solo perché è presuntuosa, ma perché tradisce l’illusione infantile che il futuro sia già scritto, che il popolo sia già pronto a restituire fiducia a chi l’ha deluso. È qui che nasce la mia rabbia più profonda. Perché questo significa trattarci da stupidi, da smemorati, da marionette.

Illusa, Elly. Illusa davvero. Tra due anni non andrete al Governo, tra due anni sarai tu stessa a essere cacciata dal partito. Perché la storia del tuo partito lo dimostra: chi illude troppo finisce per essere scaricato. È accaduto a Renzi, l’uomo del “cambiare verso”, oggi ridotto a macchietta. È accaduto a Zingaretti, che doveva “superare le correnti”, ed è stato travolto dalle stesse correnti. È accaduto a Letta, che parlava di “campo largo” e si è ritrovato con un deserto. E accadrà anche a te. Non perché io lo auguri, ma perché è la logica stessa della vostra politica: bruciare leader su leader, illusione su illusione, senza mai costruire nulla.

E allora mi domando: con quale faccia venite ancora a chiedere fiducia? Con quale coraggio parlate di “speranza”? La speranza è stata tradita troppe volte da voi. È stata calpestata, ridicolizzata, usata come moneta di scambio. Voi non portate speranza, portate solo la certezza di un nuovo fallimento.

Il problema non è la tua gioventù, la tua inesperienza, il tuo linguaggio inclusivo. Il problema è la sostanza: non avete il coraggio di rompere con i poteri che vi tengono in vita. Non avete il coraggio di sfidare davvero le logiche che hanno distrutto il paese. Non avete il coraggio di decidere. Governare non è annunciare, non è fare comizi, non è sorridere alle telecamere. Governare significa scegliere, assumersi responsabilità, deludere qualcuno per salvare molti. E voi non lo sapete fare.

E allora basta. Basta illusioni, basta slogan, basta frasi fatte. La gente non dimentica. Io non dimentico. E non basteranno due anni, né dieci, a cancellare la verità: avete già dimostrato le vostre incapacità, non serve che torniate nei luoghi del disastro. Li avete già devastati una volta, la seconda volta sarebbe ancora peggio.

Perché, vedi Elly, la politica vera non è annunciare quello che “faremo tra due anni”. La politica vera è dimostrare cosa fai oggi. E oggi voi non fate nulla.

 






17 agosto 2025

L’eco delle picconate

 Ricordo personale di Francesco Cossiga, un uomo che non si poteva ignorare


Il 17 agosto 2010 moriva Francesco Cossiga. Ricordo bene quel giorno, non tanto per le cronache ufficiali che si susseguivano in televisione, ma per la sensazione di vuoto che mi lasciò dentro. Avevo la netta impressione che con lui se ne andasse non soltanto un uomo politico, ma un pezzo intero della storia italiana, di quella Repubblica che lui aveva attraversato, servito, provocato e persino ferito con la sua lingua tagliente. Con la sua morte non si chiudeva solo un capitolo, ma un’epoca che aveva il sapore, con tutte le sue contraddizioni, della Prima Repubblica.

Di Cossiga ho sempre pensato che fosse un uomo impossibile da collocare in uno schema preciso. Troppo complesso per essere ridotto a un’etichetta, troppo imprevedibile per rimanere ingabbiato in un ruolo istituzionale definito una volta per tutte. Era un uomo che amava spiazzare, che cercava volutamente di andare oltre il protocollo, di demolire con le parole quelle certezze che tutti consideravano intoccabili. Eppure, nonostante quella sua apparente smania distruttiva, traspariva in lui un amore profondo per le istituzioni e per il Paese. Un amore tormentato, certo, ma autentico.

Quando penso a Cossiga, mi vengono in mente due immagini diverse ma complementari. La prima è quella del giovane politico democristiano, allievo prediletto di Moro, uomo di governo sobrio, riservato, quasi timido, che sembrava destinato a seguire il solco dei grandi equilibristi della Democrazia Cristiana. La seconda è quella del Presidente della Repubblica che, negli ultimi anni del suo mandato, si trasformò in un “picconatore”: un capo dello Stato che usava parole come armi, colpi precisi e spesso spietati contro un sistema politico che sentiva stanco, ipocrita, immobile. Due volti dello stesso uomo, due stagioni di una vita che fu sempre in bilico tra istituzione e ribellione.

La notizia della sua morte, in quel caldo agosto del 2010, mi riportò indietro a tanti momenti in cui la sua voce aveva scandito le giornate politiche italiane. Cossiga non era mai un commentatore banale: ogni sua dichiarazione diventava titolo di giornale, ogni suo intervento generava discussioni. Era un uomo che divideva: c’era chi lo amava e chi lo detestava, ma nessuno poteva ignorarlo. Ed è forse questa la cifra del suo essere: la capacità di restare sempre presente, ingombrante, vivo nel dibattito pubblico.

Mi ha sempre colpito il coraggio che aveva di dire cose che altri preferivano tacere. Non era paura della verità, la sua. Era piuttosto il gusto – a volte crudele, a volte liberatorio – di togliere la maschera al potere, di smascherarne i giochi, di ricordare che dietro la facciata solenne c’erano debolezze, ipocrisie, interessi. Quella sua stagione di “picconate” fu criticata, vista da molti come un attentato all’equilibrio delle istituzioni. Io la interpreto invece come il grido di un uomo che aveva visto troppo, che conosceva bene i meccanismi interni e che non poteva più fingere di crederci. Un uomo che, dopo anni di disciplina, aveva deciso che era il momento della verità, anche se dolorosa.

Non nego che a volte trovassi eccessive le sue parole. C’era in lui una vena quasi teatrale, un gusto per la provocazione che spesso rischiava di trasformare la denuncia in spettacolo. Ma era uno spettacolo che serviva, perché costringeva tutti a prendere posizione. In un Paese in cui spesso la politica scivola nell’ambiguità e nel non detto, Cossiga fu un detonatore di chiarezza, un pugno sul tavolo che poteva piacere o no, ma che non lasciava spazio all’indifferenza.

Ricordo che, da Presidente della Repubblica, aveva un rapporto tormentato con il suo ruolo. All’inizio appariva come un custode rigoroso, rispettoso del protocollo, quasi dimesso. Poi, come se qualcosa si fosse incrinato dentro di lui, cominciò a usare la sua posizione per mettere a nudo i limiti della politica italiana. Alcuni lo accusarono di non essere all’altezza, altri lo esaltarono come un visionario. Io penso che in lui convivessero entrambe le cose: la lucidità e l’eccesso, la saggezza e la ferita.

La sua morte mi colpì anche perché arrivava in un momento in cui l’Italia stava già cambiando pelle. La politica era entrata in una nuova stagione, segnata da altri linguaggi, da altre figure, da un altro modo di intendere il consenso. Con lui se ne andava un testimone di quella generazione che aveva vissuto il dopoguerra, la ricostruzione, gli anni di piombo, la stagione delle grandi contrapposizioni ideologiche. Una generazione che, nel bene e nel male, aveva scritto la storia della Repubblica.

Francesco Cossiga apparteneva a quel gruppo di uomini che non si limitavano a occupare ruoli, ma li incarnavano con tutto il peso della loro personalità. Non era un burocrate della politica, non era un semplice funzionario di partito. Era un uomo che viveva i ruoli istituzionali come estensione del suo essere, con tutte le contraddizioni del caso. Per questo fu amato e odiato, ma mai ignorato.

Personalmente, ciò che più mi affascina di lui non è tanto la stagione delle “picconate”, ma il suo essere stato, per tutta la vita, in bilico tra disciplina e ribellione. Era figlio della tradizione democristiana, educato al senso delle istituzioni, alla pazienza della mediazione. Ma dentro di lui ardeva un fuoco che non accettava compromessi, che voleva verità, che non sopportava le ipocrisie. Questo conflitto interiore lo rese un uomo politico diverso dagli altri, difficile da governare persino per se stesso.

Mi rendo conto che parlare di Cossiga significa anche parlare di me, del mio rapporto con la politica, del mio modo di guardare al potere e alle sue ombre. In lui ho sempre visto il coraggio di dire ciò che pensava, ma anche la solitudine che questo comporta. Essere “picconatore” non significa solo abbattere muri, significa anche accettare di restare fuori da essi, di non avere più un posto sicuro all’interno del palazzo. Cossiga accettò questa solitudine, e forse fu proprio questo il segno della sua autenticità.

Quando penso alla sua morte, non provo solo la nostalgia per un uomo, ma per un’epoca in cui la politica, pur con i suoi limiti, aveva ancora spessore umano, contraddizione, passione. Oggi mi sembra tutto più patinato, più calcolato, più povero di verità. Cossiga, con tutti i suoi eccessi, ci ricordava che dietro le istituzioni ci sono uomini veri, con ferite, con visioni, con coraggio e con paure. Ci ricordava che la politica non è solo gestione, ma anche conflitto, anche dramma, anche passione.

Il 17 agosto 2010 se ne andò un uomo che non aveva paura di essere scomodo. E io credo che, oggi più che mai, abbiamo bisogno di figure scomode, di voci che non abbiano paura di dire ciò che non è conveniente, di rompere i rituali vuoti. Forse non sempre avremmo bisogno di parole taglienti come le sue, ma certo avremmo bisogno della sua capacità di guardare oltre le apparenze.

Francesco Cossiga è stato tante cose: studente brillante, allievo di Moro, ministro dell’Interno nei giorni più bui del terrorismo, Presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica, senatore a vita. Ma soprattutto è stato un uomo che non ha mai smesso di essere se stesso, anche quando questo significava mettersi contro tutti. Un uomo che, con le sue luci e le sue ombre, ha lasciato un segno profondo nella storia italiana.

Quando ripenso a lui, mi accorgo che non riesco a considerarlo solo come un politico. Lo vedo come un personaggio da romanzo: complesso, contraddittorio, passionale, tragico a tratti. Forse è per questo che la sua figura continua a colpirmi. Perché ci ricorda che la politica, quando è vissuta fino in fondo, è vita vera, con tutte le sue contraddizioni.

Ecco perché quel 17 agosto 2010 non segnò per me solo la morte di un ex Presidente della Repubblica. Segnò la fine di un’epoca, il congedo di una voce che, pur tra eccessi e contraddizioni, aveva avuto il coraggio di dire la verità. Oggi, ogni volta che sento discorsi politici vuoti e preconfezionati, mi torna in mente la sua voce ruvida, scomoda, spiazzante. E dentro di me penso che, nonostante tutto, mi manca.

Francesco Cossiga non si può incasellare. Non si può giudicare solo con le categorie della politica tradizionale. È stato un uomo, con tutta la grandezza e la fragilità che questa parola porta con sé. Ed è per questo che, ancora oggi, a distanza di anni, parlarne significa parlare di noi, della nostra Repubblica, del nostro bisogno di verità. Perché l’eco delle sue “picconate” continua a vibrare, ricordandoci che senza scomodità non c’è cambiamento, e senza verità non c’è futuro.

 









Addio a Pippo Baudo

 Con lui se ne va un pezzo della nostra memoria collettiva


Ci sono notizie che ti raggiungono in un modo silenzioso, ma che dentro di te fanno rumore. La morte di Pippo Baudo è una di queste. Non è soltanto la scomparsa di un uomo, per quanto importante. È come se fosse crollata una colonna che reggeva un pezzo della nostra memoria collettiva, della nostra quotidianità di italiani cresciuti con la televisione accesa sullo sfondo delle case, tra cene in famiglia, voci di conduttori e applausi registrati. Quando ho letto che Pippo Baudo se n’è andato, a 89 anni, mi è venuto spontaneo chiudere gli occhi e rivedere immagini che non guardavo da anni: lui, con il suo sorriso serio e rassicurante, elegante ma mai distante; la sua voce che sapeva modulare dal tono solenne a quello complice, con quella cadenza che non aveva bisogno di forzature per imporsi; e soprattutto quella sua capacità unica di tenere insieme, di far sentire ogni spettatore parte di un rito collettivo.

Baudo non era un conduttore nel senso moderno del termine. Oggi i conduttori devono spesso sovrastare la scena, attirare l’attenzione, inventare battute, sgomitare per emergere in un mare di voci. Lui no. Lui era il punto fermo: non aveva bisogno di esibizionismi perché era la televisione stessa ad adattarsi al suo ritmo. C’era un’eleganza naturale nel suo modo di occupare lo spazio scenico: bastava che comparisse sul palco perché l’attenzione fosse catalizzata, senza clamori, senza effetti speciali. E penso che proprio per questo il suo nome sia diventato quasi sinonimo di televisione: dire “c’è Baudo” significava che stava accadendo qualcosa di importante. Che quella sera si poteva stare tranquilli, perché lo spettacolo sarebbe stato condotto con professionalità, senza cadute di stile, con il giusto equilibrio tra intrattenimento e cultura.

Ci sono figure pubbliche che non si limitano a fare il loro mestiere, ma diventano specchio di un Paese. Baudo appartiene a questa categoria. Lo ricordo nelle case dei miei genitori, quando il televisore non era ancora uno schermo personale ma un altare domestico attorno al quale ci si riuniva. Ricordo serate di Sanremo, quando ancora non c’era l’opzione di cambiare canale o di scorrere su un telefono per distrarsi: si guardava tutti la stessa cosa, e se c’era Baudo si sentiva di essere dentro un momento collettivo. Per la mia generazione, e forse ancora di più per quella precedente, Pippo Baudo era una certezza. Non tanto perché fosse infallibile — come tutti, aveva i suoi difetti, le sue rigidità, i suoi inevitabili errori — ma perché rappresentava la continuità, la solidità, il rispetto per chi stava a casa. Era il volto che ti diceva: “ci penso io, stai tranquillo”. Una frase che non pronunciava mai, ma che si percepiva.

La televisione di oggi è frenetica, segmentata, frammentata. Quella di ieri, con i suoi tempi lunghi e i suoi programmi-monumento, aveva in Baudo uno dei suoi interpreti migliori. Non era un’epoca più semplice, ma era un’epoca più lenta, e lui sapeva abitarla con eleganza. Una delle frasi che più spesso gli veniva attribuita — e che in parte amava ripetere lui stesso — era: “L’ho inventato io”. Lo diceva parlando dei tanti artisti che aveva scoperto, lanciato, accompagnato: da Al Bano a Heather Parisi, da Beppe Grillo a Lorella Cuccarini, fino a decine di volti che senza di lui forse sarebbero rimasti nell’ombra. Quella frase, a volte ironica e a volte orgogliosa, racchiudeva un tratto del suo carattere: l’orgoglio di essere stato un talent scout, ma anche la consapevolezza che senza qualcuno che ti dà fiducia, il talento spesso non trova strada.

E questo è un altro aspetto che oggi manca: la televisione come palestra, come spazio in cui qualcuno più grande, con esperienza, si prende la responsabilità di lanciare i giovani. Pippo Baudo non era geloso della scena: al contrario, sembrava dire “fate voi, io vi accompagno”. Eppure, pur restando dietro le quinte in certi momenti, restava sempre lui al centro, perché il pubblico riconosceva in quella sua discrezione un atto di autorevolezza. C’è qualcosa di profondamente simbolico nel fatto che i suoi funerali si terranno nel Santuario della Madonna della Stella, a Militello in Val di Catania, il suo paese natale. Dopo decenni di riflettori, di applausi, di prime serate, la scena finale si consuma in una chiesa barocca, lontano dai set televisivi, tra le mura di pietra e fede che raccontano di una Sicilia antica, resistente, legata alla terra e alle radici. È un’immagine potente: l’uomo che ha animato tredici Festival di Sanremo, che ha dato voce a Canzonissima e a Domenica In, che ha intrattenuto milioni di italiani davanti allo schermo, viene salutato in un luogo raccolto, intimo, nel cuore della sua terra. È come se la sua storia tornasse al punto di partenza, chiudendo un cerchio tra la gloria pubblica e la semplicità delle origini.

E a me questo fa pensare a quanto sia importante, per tutti noi, ritornare lì dove tutto è iniziato. Non importa quanto lontano si sia arrivati, quanta fama si sia conquistata: le radici restano il luogo a cui apparteniamo. Forse la vera eredità di Baudo non è soltanto quella televisiva, ma quella umana: ricordarci che la grandezza non cancella mai la necessità di tornare a casa. Guardando indietro, credo che la sua figura rappresenti un’idea di televisione che oggi sembra scomparsa: una televisione che univa, che aveva la pretesa — o forse la speranza — di parlare a tutti. Sanremo con Baudo era un rito popolare, certo, ma anche un’occasione per scoprire nuove voci, per ascoltare testi che diventavano parte del nostro immaginario. Domenica In con Baudo era la domenica di milioni di famiglie, fatta di risate, interviste, ospiti di mondi diversi.

Oggi la televisione è frantumata in mille nicchie, riflesso di una società sempre più individualista. Baudo invece era il collante: riusciva a mettere nello stesso salotto televisivo la casalinga e l’intellettuale, il ragazzo che sognava la musica e il nonno che ricordava le melodie di un tempo. In un certo senso, rappresentava un’Italia che, pur tra mille divisioni, sapeva ancora ritrovarsi in un momento comune. La sua morte, lo confesso, mi fa sentire più vecchio. Non tanto perché abbia segnato la fine di una carriera che era già da anni lontana dai riflettori, ma perché con lui se ne va un pezzo della mia infanzia e della mia giovinezza. È come se qualcuno avesse spento una luce che illuminava i miei ricordi di quelle serate in cui la famiglia si riuniva davanti al televisore, con la certezza che Baudo avrebbe guidato la nave senza scossoni.

Mi rendo conto che il sentimento che provo non è soltanto dolore per la sua scomparsa, ma malinconia per un tempo che non tornerà più. Baudo era legato a un’Italia che non esiste più: più ingenua forse, ma anche più capace di condividere. Cosa resta oggi, allora, di Pippo Baudo? Restano le immagini, certo, i filmati d’archivio, le canzoni lanciate nei suoi programmi, le battute diventate famose. Ma soprattutto resta un esempio di professionalità e di rispetto. In un’epoca in cui tutto è veloce, aggressivo, rumoroso, la sua figura ci ricorda che si può fare televisione — e, per estensione, si può vivere — con misura, con serietà, con rispetto per chi ascolta. Forse non era perfetto, forse a volte appariva troppo severo, forse non era sempre al passo con le mode. Ma era autentico. E questa autenticità è ciò che manca di più oggi.

Addio a Pippo Baudo, dunque. Non solo al re della televisione, ma a un uomo che ha incarnato un’idea di Paese, un modo di stare insieme, una stagione che oggi sembra lontanissima. La sua morte ci ricorda che non perdiamo soltanto le persone, ma anche i mondi che quelle persone portavano con sé. E allora penso che il modo migliore per ricordarlo non sia soltanto guardare indietro, ma provare a portare avanti un po’ di quello spirito: l’idea che ogni parola detta davanti a un microfono, ogni spettacolo condiviso, ogni momento di intrattenimento, debba avere rispetto di chi ascolta. Baudo ha vissuto circondato dall’affetto del pubblico, ed è morto circondato dagli affetti più intimi, nella sua Sicilia. Forse è giusto così: come se la vita gli avesse concesso di essere re sul palcoscenico, e uomo tra la sua gente. E noi, che l’abbiamo seguito e amato, non possiamo che dirgli grazie.







14 agosto 2025

Perché Mario Tozzi sbaglia sul Ponte sullo Stretto

 Non è un capriccio, è un investimento strategico.

Abbiamo la tecnologia per costruirlo in sicurezza: manca solo la volontà di provarci.


Non fermarsi davanti alla paura

Leggendo l’intervento di Mario Tozzi, non posso non notare un certo schema ricorrente che vedo spesso quando si parla di grandi opere in Italia: la visione viene sepolta sotto una montagna di “non si può” e “non si deve”, finché ogni progetto ambizioso diventa un tabù.

Io non credo che il Ponte sullo Stretto sia carta pesta, come lui lo definisce. Anzi, lo considero un’opera simbolica e strategica, capace di unire fisicamente e mentalmente due regioni che per troppo tempo sono state trattate come periferia del Paese.

I rischi sismici? Certo che esistono. Ma esistono anche in Giappone, dove ogni anno vengono costruite infrastrutture complesse in aree ad alta sismicità, e non per questo si rinuncia. La tecnologia moderna consente di progettare ponti e strutture in grado di resistere a scosse violentissime: basta volerlo e investire nella progettazione, non fermarsi a un fatalismo che sembra dire “meglio non fare nulla, così non rischiamo”.
Il paragone con “due cimiteri uniti” mi pare più una provocazione retorica che un’analisi tecnica: se vogliamo ragionare seriamente, dobbiamo parlare di ingegneria, materiali, simulazioni e piani di emergenza, non di immagini apocalittiche.

Quanto agli studi mancanti, se davvero non sono stati completati, la soluzione non è usare questa mancanza per affossare l’opera, ma accelerare e completarli. Ogni grande progetto richiede analisi e monitoraggi, ma questo non può essere un alibi per restare fermi altri trent’anni.

E sul “piace più a chi sta lontano” non sono d’accordo: ci sono tanti siciliani e calabresi che vedono nel ponte una possibilità concreta di sviluppo, turismo e lavoro, e non solo un simbolo. 

In sintesi, io credo che il Ponte sullo Stretto non sia un capriccio, ma un passo di visione strategica. Non possiamo continuare a dire “non si può” ogni volta che il Paese tenta un salto in avanti. I rischi si studiano, si gestiscono e si minimizzano, ma il progresso richiede anche coraggio.


Il rischio sismico come sfida, non come condanna

Tozzi usa un’immagine forte: unire due cimiteri. È una frase d’effetto, ma poco utile a un’analisi seria.

Se applicassimo questo ragionamento ovunque, non avremmo Tokyo, San Francisco o Santiago del Cile.

La verità è che le aree sismiche non sono condannate all’immobilismo: si costruisce con tecnologie antisismiche avanzate, sistemi di monitoraggio continuo e progettazioni capaci di resistere a scosse violentissime.


Esempi internazionali


- Ponte di Akashi-Kaikyō (Giappone): 3,9 km di campata centrale, resiste a venti di 290 km/h e scosse oltre magnitudo 8. Durante la costruzione, un terremoto 6,8 spostò un pilone di 120 cm: il progetto fu adattato e completato.

- Golden Gate (California): rinforzato con un piano antisismico da 400 milioni di dollari, garantisce sicurezza in un’area a rischio elevato.

- Viadotto “Polcevera” di Genova: ricostruito in meno di due anni, con standard di sicurezza altissimi e sistemi di controllo in tempo reale.


Gli studi mancanti si fanno, non si usano come alibi

Tozzi denuncia la mancanza di studi ufficiali completi dell’INGV. Se è vero, è un problema serio. Ma la soluzione non è fermarsi: è completare subito quelle indagini, raccogliere dati, analizzare ogni affioramento e integrare i risultati nella progettazione.
La mancanza di conoscenza non è un buon motivo per dire “non facciamolo”. È semmai un invito a farlo meglio.


Un’opera che può cambiare la geografia economica

Il ponte non è un “giocattolo” per politici in cerca di consensi. È un’infrastruttura capace di ridurre tempi e costi di trasporto, di collegare porti, aeroporti e rete ferroviaria ad alta velocità, di dare alla Sicilia un ruolo centrale nel Mediterraneo.

Impatto previsto

- Tempi di attraversamento: da circa 1 ora (traghetto) a 3 minuti (ponte).

- Collegamento diretto alla rete AV italiana e ai corridoi europei TEN-T.

- Incremento turistico stimato: +20% nei primi cinque anni.

- Opportunità logistiche: sviluppo di hub portuali e intermodali per merci tra Africa, Sud Europa e Medio Oriente.


Il falso mito del “piace solo a chi sta lontano”

Tozzi sostiene che il ponte piaccia più a chi è distante. Non è così. Ci sono migliaia di siciliani e calabresi che lo vedono come un’opportunità concreta: imprese locali che potrebbero ampliare il raggio d’azione, giovani che sperano in nuovi posti di lavoro, operatori turistici che potrebbero finalmente vendere un Sud più accessibile.


La lezione del Giappone e il nostro ritardo

Quando il ponte di Akashi fu colpito dal terremoto durante la costruzione, in Giappone nessuno disse “fermiamo tutto”: si lavorò per adattare il progetto. Oggi è un’icona dell’ingegneria.
In Italia, invece, passiamo decenni a discutere e rinviare. Nel frattempo, perdiamo competitività e credibilità.


In Conclusione

La domanda vera non è “è sicuro?” - perché la sicurezza si può progettare - ma “vogliamo farlo?”.

Abbiamo la tecnologia, abbiamo le competenze, abbiamo esempi internazionali da seguire. Quello che ci manca è il coraggio di provare.

Il Ponte sullo Stretto può essere la prova che l’Italia sa ancora costruire, innovare e unire.
E il vero fallimento sarebbe rinunciare ancora una volta.