14 agosto 2025

Donbass: dietro le mappe, le vite che contano davvero

 


Leggo degli ultimi sviluppi nel Donbass e non posso fare a meno di sentire un peso dentro. È facile per noi, dall’altra parte dello schermo, guardare mappe, numeri e resoconti militari come se fossero solo dati. Ma dietro quei numeri ci sono persone. E ogni giorno che passa, il prezzo umano di questa guerra diventa più evidente e inaccettabile.

L’Ucraina controlla ancora circa il 30% della regione, comprese città strategiche come Komsomolsk e Kramatorsk. La Russia avanza lentamente, cercando di dimostrare al mondo che sta vincendo. E mentre i leader discutono di concessioni territoriali e strategie militari, chi paga il prezzo più alto sono sempre i soldati sul campo e i civili intrappolati in una guerra che sembra non finire mai.

I numeri delle perdite sono scioccanti: per ogni soldato ucraino ucciso, ce ne sono tre russi. Solo l’11 agosto, più di 500 soldati russi sono caduti, mentre le vittime ucraine, pur minori nei numeri, parlano di un dolore altrettanto reale: morti, dispersi, feriti. Ogni cifra rappresenta famiglie distrutte, sogni interrotti, vite spezzate che nessuno racconterà nei telegiornali.

Mi fa riflettere il fatto che conquistare un territorio può sembrare relativamente semplice, ma mantenerlo è un’impresa quasi impossibile. Eppure, ogni giorno leggiamo di avanzate e ritirate come se fossero semplici mosse su una scacchiera. La realtà è che dietro ogni metro conquistato ci sono sacrifici e sofferenze immense.

E poi c’è la dimensione psicologica della guerra. La Russia non avanza solo con le armi, ma anche con la narrativa: creare l’impressione di vittoria, manipolare il contesto informativo, convincere il mondo che le sue conquiste siano inevitabili. Questo mi fa riflettere su quanto la percezione pubblica sia fragile e facilmente manipolabile, e su quanto sia urgente ricordare che dietro le strategie ci sono esseri umani.

Scrivere queste righe è il mio piccolo atto di resistenza contro l’indifferenza. Voglio ricordare a me stesso e ai lettori che il Donbass non è solo una regione sulla mappa, non è solo territorio conteso o strategia militare. È un luogo dove ogni giorno si combatte per la sopravvivenza, dove ogni vita conta davvero, e dove la guerra mostra il suo volto più crudele e reale.

Alla fine, ciò che mi colpisce di più è quanto fragile sia la vita. Tutto quello che noi diamo per scontato, la possibilità di svegliarsi la mattina, di tornare a casa, di vedere i propri cari, qui diventa un lusso. E mentre il mondo discute di conquiste, strategie e numeri, io penso a quel che davvero conta: la sopravvivenza, la dignità e la memoria di chi non tornerà più.

E allora chiudo con un’immagine che non riesco a togliere dalla mente: ogni casa bombardata, ogni strada desertificata, ogni volto perso tra le macerie è un grido silenzioso che chiede di non essere dimenticato. Non possiamo permetterci di ridurre la guerra a statistiche e mappe. Dietro ogni metro conquistato, c’è un cuore che batte, una storia che merita di essere raccontata, una vita che, anche se spezzata, continua a chiedere giustizia.

 








13 agosto 2025

Chi custodirà le nostre porte digitali sull’offerta di Perplexity per Google Chrome?

 

La notizia che la startup di intelligenza artificiale Perplexity abbia offerto 34,5 miliardi di dollari per acquistare Google Chrome mi ha colpito non tanto per il dato economico, cifre così alte sembrano provenire da un altro pianeta, quanto per ciò che rappresentano: l’idea che il nostro modo di entrare in internet, lo spazio in cui cerchiamo risposte e costruiamo la nostra quotidianità digitale, possa cambiare padrone.

Chrome, per me, non è mai stato solo un browser. È stato il luogo in cui ho digitato domande di ogni tipo: quelle ingenue e quelle dolorose, quelle per lavoro e quelle per la mia vita privata. È il posto in cui ho cercato il significato di una parola sconosciuta e quello in cui ho comprato il primo regalo per una persona importante. È, insomma, una parte silenziosa della mia memoria digitale.

Sapere che una startup, per quanto brillante e ambiziosa, voglia comprare questa porta d’accesso mi fa riflettere su cosa significhi davvero “possesso” nel mondo digitale. Non è solo un affare tra aziende: è il controllo di come io, e miliardi di altre persone, entriamo in contatto con il sapere, con le notizie, con la realtà. E so bene che, al di là delle dichiarazioni su “libertà” e “concorrenza”, dietro ogni interfaccia c’è un algoritmo che decide cosa mostrarmi per primo e cosa lasciare sul fondo.

La parte che mi inquieta di più è che tutto questo avviene mentre noi utenti restiamo spettatori passivi. Ci accorgiamo dei cambiamenti solo quando un aggiornamento ci obbliga a rivedere le impostazioni o quando qualcosa “non funziona più come prima”. Ma la vera trasformazione avviene sotto la superficie: nei rapporti di forza tra chi possiede le nostre porte di ingresso al web.

E forse è proprio questo che temo: che, tra Google e Perplexity, tra il vecchio colosso e il nuovo sfidante, io resti comunque un ospite in casa d’altri, con le regole decise altrove. Perché internet, oggi, è diventato un insieme di porte custodite e ogni volta che crediamo di essere liberi di aprirle, scopriamo che la chiave non è mai nelle nostre mani.

Forse un giorno il browser che apro ogni mattina avrà un nome diverso o un’anima diversa.
Forse cambierà il logo, il colore, il modo in cui mi risponde quando cerco qualcosa.
Ma resterà sempre quella sensazione sottile di attraversare una soglia: come entrare in una stanza dove qualcuno ha già deciso come disporre i mobili, quale luce accendere, quali finestre aprire.
E io, con le mie domande e le mie fragilità, continuerò a cercare uno spiraglio che sia davvero mio, un angolo dove il mondo mi arrivi senza filtri, dove la curiosità non abbia padrone.
Perché alla fine, in questo oceano di porte digitali, il vero lusso non sarà possedere un browser o un motore di ricerca, ma riuscire a restare liberi dentro ogni volta che lo usiamo.

 

10 agosto 2025

Landini, la CGIL e 45.000 tessere stracciate: il sindacato che non ascolta più

 

C’è un dato che dovrebbe far tremare i muri di Corso d’Italia: 45.000 iscritti in meno in meno di un anno. Non parliamo di pensionamenti naturali o di cali fisiologici: parliamo di persone che, tessera alla mano, hanno deciso di dire “basta”. Un fiume in uscita che la segreteria della CGIL sembra guardare con il distacco di chi, da troppo tempo, non mette più piede nei luoghi reali del lavoro.

Maurizio Landini non è nato segretario generale. Landini è nato leader di fabbrica, quello che parlava sopra il rumore delle presse, che difendeva la dignità degli operai della FIOM quando Marchionne era l’uomo da battere. Quell’immagine era la sua forza: credibile, diretta, con le mani sporche di officina e non di diplomazia da salotto.

Ma il Landini che oggi guida la CGIL è un’altra cosa.

È un leader sempre in TV, pronto a commentare dalla guerra in Ucraina alla Costituzione, dall’antifascismo alle politiche migratorie. Temi importanti, certo, ma che finiscono per oscurare il cuore della questione: chi oggi ha la tessera CGIL la paga per vedere risultati sul contratto, sul salario, sulla sicurezza in fabbrica, non per ascoltare un’opinione su ogni vicenda politica del Paese.

E invece i contratti ristagnano, i salari reali scendono, la precarietà dilaga. Nel frattempo, la CGIL sembra più interessata a fare opposizione al governo che opposizione al padrone. Non è un caso se molti ex iscritti lo dicono apertamente: “Non mi sento più rappresentato”.

Questa emorragia di tessere è il sintomo di un distacco culturale e organizzativo. La CGIL è rimasta una macchina enorme e burocratica, che si parla addosso e fatica a intercettare i giovani, i lavoratori autonomi, chi vive di contratti a chiamata o partite IVA mascherate. Laddove servirebbe ascolto, arriva ideologia; laddove servirebbe pragmatismo, arrivano proclami.

Il segretario, di fronte a 45.000 uscite, dichiara: “Non ci penso nemmeno” a dimettermi.
Ecco il vero problema: se il sindacato perde il suo popolo e il leader non si interroga, quel leader non è più parte della soluzione, ma del problema.

Landini aveva un’occasione storica: aprire le porte del sindacato alle nuove forme di lavoro, tornare nei luoghi produttivi, dare priorità alle buste paga e alla sicurezza. Ha preferito il ruolo di tribuno politico. La piazza applaude, ma la base se ne va. E quando la base se ne va, il sindacato resta un guscio vuoto che parla di popolo, ma non lo rappresenta più.

La CGIL ha bisogno di un bagno di realtà. E Landini dovrebbe essere il primo a tuffarcisi, prima che il fiume di tessere strappate diventi un esodo irreversibile.

 

 




Giuseppe Conte: il moralista a memoria corta

Dal “tecnico” super partes al politico di professione, la parabola di Conte è un manuale di trasformismo.


Dal Decreto Rilancio “a misura di suocero” al Reddito di Cittadinanza senza controlli, passando per la scarcerazione dei boss e la trasformazione del M5S in partito del sistema: il leader penta stellato attacca la Meloni dimenticando il suo passato.


C’è un Giuseppe Conte pubblico e uno privato. Quello pubblico lo conosciamo bene: elegante, forbito, sempre pronto a puntare il dito contro il governo di turno — oggi la Meloni — per ogni scelta, reale o presunta, che non condivide. Quello privato è quello che ha governato l’Italia due volte, lasciando dietro di sé una scia di sprechi, improvvisazioni e trasformazioni politiche calcolate al millimetro.

Oggi Conte si presenta come il campione dell’opposizione, il moralista a tempo pieno, il custode della legalità e del buon senso. Ma la memoria corta è diventata il suo miglior alleato.

E allora vale la pena ricordargli qualche “dettaglio” che preferirebbe cancellare.

C’è il Decreto Rilancio, nato per salvare l’economia in piena pandemia e passato alla storia come il decreto che salvò anche l’azienda del suocero. Nessuna illegalità, certo. Ma in politica la forma conta, e qui la forma era quella del conflitto di opportunità bello e servito.

C’è il Reddito di Cittadinanza, distribuito a pioggia con controlli ridicoli, finito nelle tasche di truffatori, criminali e chi dichiarava il falso. Una misura costosa e fragile, venduta come lotta alla povertà ma che, in troppi casi, ha finanziato l’imbroglio.

C’è il caso Bonafede, il suo ministro della Giustizia, che nel pieno dell’emergenza sanitaria fece uscire dal carcere boss mafiosi e criminali di alto profilo con la scusa del rischio Covid. Una macchia indelebile sulla credibilità dello Stato, di cui Conte non sembra mai voler parlare.

Poi c’è l’inventario degli sprechi e delle scelte surreali: bonus monopattini, bonus vacanze, banchi a rotelle, task force infinite e decreti raffazzonati annunciati in conferenze stampa notturne da leader illuminato.

E infine, il capitolo politico: Conte non si è limitato a governare. Ha anche scalato e trasformato il Movimento 5 Stelle, il partito che lo aveva portato a Palazzo Chigi, nato come forza antisistema. Lo ha svuotato della sua identità originaria, cacciando di fatto il fondatore Beppe Grillo dal ruolo di guida politica e trasformandolo in un partito tradizionale, perfettamente integrato in quel sistema che i 5 Stelle avevano giurato di combattere. Da megafoni in piazza a poltrone nei palazzi, il passaggio è stato rapido e silenzioso.

Oggi Conte attacca la Meloni su sicurezza, armi, gestione economica. Criticare è legittimo, ma farlo senza mai fare autocritica è ipocrisia pura. Perché chi ha approvato decreti “a misura di famiglia”, distribuito sussidi senza controlli, liberato criminali per decreto e annacquato un movimento politico fino a snaturarlo, non può presentarsi come il depositario della purezza politica. Conte è maestro nella predica a orologeria: colpisce gli altri quando conviene, cancella il passato quando riguarda lui. Ma la storia recente è lì, a ricordarci che, prima di giudicare, un leader serio deve guardarsi allo specchio e riconoscere i propri errori. E nel caso di Conte, quello specchio rischia di restituire un’immagine che non ha nulla a che vedere con il moralista impeccabile che vediamo in tv. Ma piuttosto con un politico, se politico si può dire, come tanti altri. Forse anche peggio: uno che ha iniziato da “avvocato del popolo” e ha finito da “avvocato di se stesso”.

 


Vertice in Alaska: quando il luogo diventa messaggio

Trump e Putin si incontreranno nella terra che un tempo apparteneva alla Russia. Una scelta che non è solo geografica, ma profondamente simbolica.

 

C’è qualcosa di profondamente simbolico — e inquietante — nella scelta di Donald Trump di incontrare Vladimir Putin in Alaska per discutere dell’Ucraina.
Non è solo una questione geografica, è una questione di memoria. L’Alaska non è un luogo neutrale: fu venduta dagli zar alla fine dell’Ottocento, e per Mosca è ancora oggi un ricordo amaro, un pezzo di impero perduto.

Scegliere proprio questa terra come sfondo per un vertice con il leader di un Paese che sta conducendo una guerra di conquista, significa inevitabilmente aggiungere un sottotesto che va oltre le intenzioni dichiarate.
È come invitare il passato a sedersi al tavolo delle trattative.

Le parole ufficiali parleranno di pace, di accordi, di “progressi possibili”.
Ma l’Alaska porta in sé una simbologia che rischia di sovrastare i contenuti: montagne immobili, distese di ghiaccio, silenzi carichi di storia. Una terra che, nel linguaggio dei nazionalisti russi, è ancora “nostra”, come recitava un cartellone apparso in Siberia due anni fa.

Intanto, mentre le luci delle telecamere illumineranno sorrisi e strette di mano, in Ucraina il cielo continuerà a essere tagliato da droni.
Le città si sveglieranno sotto il rombo delle esplosioni, e i numeri — due morti, sei feriti — scorreranno in fretta nei notiziari, troppo in fretta per restare impressi.

Io, come la senatrice Lisa Murkowski, oscillerei tra speranza e diffidenza.
Speranza che un incontro, per quanto imperfetto, possa aprire una breccia nella guerra.
Diffidenza perché la diplomazia, quando si traveste da scenografia, rischia di trasformarsi in propaganda.

In politica internazionale, i luoghi non sono mai solo luoghi.
Sono messaggi, simboli, promesse o rivendicazioni mascherate.
E l’Alaska, in questo caso, è un palcoscenico che parla da solo.

Il rischio? Che tra la neve e il ghiaccio si scambi il gesto per il contenuto.
E che, una volta ancora, la storia non faccia un passo avanti, ma un passo indietro.


09 agosto 2025

Sant’Elia, una vittoria della memoria sul cemento verde


 

Ci sono notizie che, al di là delle sigle e delle carte ufficiali, parlano direttamente al cuore di una comunità. La decisione del ministro Guido Crosetto di escludere il colle di Sant’Elia dal bando per i parchi fotovoltaici dell’Agenzia Difesa Servizi non è soltanto un atto amministrativo: è un segnale che, quando le istituzioni ascoltano il territorio, la tutela del paesaggio può vincere sulle logiche dell’occupazione indiscriminata degli spazi.

Non si tratta di un rifiuto alle energie rinnovabili, anzi, sono una necessità urgente, ma della consapevolezza che non tutti i luoghi possono essere sacrificati sull’altare di un progresso mal pianificato. Sant’Elia, con i suoi 37 ettari affacciati sul mare, non è solo “terra militare dismessa”: è un punto d’orizzonte, un archivio di memoria, un simbolo identitario per Cagliari e per la Sardegna.

L’accordo Stato-Regione del 2008, spesso dimenticato, viene oggi richiamato a protezione di questo lembo di costa. È un precedente importante: dimostra che le promesse, se tenute vive dalla volontà politica e dalla mobilitazione civica, possono essere rispettate.

Il merito di questo risultato va condiviso: alla Regione, al Comune, alle associazioni e ai cittadini che hanno difeso la vocazione del luogo; ma anche al ministero che ha saputo leggere lo spirito della richiesta. È una rara convergenza in tempi di conflitti istituzionali e di contrapposizioni sterili.

Sant’Elia resterà com’è: un guardiano silenzioso sul mare, un confine tra la città e l’orizzonte, una pagina di paesaggio che non può essere riscritta. Non è solo un trionfo del buon senso, ma una vittoria della memoria. Perché ci sono luoghi che non appartengono davvero né allo Stato né alla Regione: appartengono alla gente che li vive, li guarda, li ricorda.

E allora, lasciamolo così com’è, Sant’Elia:

col suo vento che sa di sale, le ombre lunghe al tramonto che allungano il profilo delle rocce, le storie invisibili che si mescolano al rumore delle onde.

Lasciamolo ai passi lenti di chi sale per guardare la città dall’alto, agli occhi che cercano l’orizzonte come promessa di libertà, ai ricordi che sanno trovare posto tra i cespugli di lentisco e il canto dei gabbiani.

Perché certi luoghi non hanno bisogno di essere trasformati: devono solo essere custoditi, come si custodisce una parola importante, pronunciata una volta sola e mai dimenticata.

In vigore il Media Freedom Act, ecco cosa prevede

 

Il nuovo regolamento europeo promette tutele e trasparenza, ma in Italia la libertà di stampa resta un equilibrio fragile.


In Europa, da oggi, c’è una legge che promette di difendere la libertà di stampa come mai prima.
Si chiama Media Freedom Act e vieta lo spionaggio ai giornalisti, protegge le fonti, rende trasparenti proprietà e finanziamenti dei media.

È un testo ambizioso, pensato per spegnere le zone grigie che da anni indeboliscono il diritto di cronaca.

Ma io, che ho visto come funziona davvero il rapporto tra politica, potere e informazione, non riesco a festeggiare senza riserve. Perché la libertà, quella vera, non si conquista con una firma a Bruxelles: si difende ogni giorno, nelle redazioni e per strada, anche quando la legge sembra dalla nostra parte.

Il Media Freedom Act, entrato in vigore il 7 maggio 2024 e applicabile da oggi in tutti i Paesi UE, introduce tutele che fino a ieri non erano mai state sancite a livello comunitario:

Trasparenza sui proprietari dei media e sugli investimenti pubblicitari ricevuti.

Garanzie di indipendenza per i media pubblici.

Divieto di pressioni o spyware per costringere i giornalisti a rivelare le proprie fonti.

Sulla carta, un progresso epocale.

Nella realtà, un terreno ancora instabile.

·         Ho conosciuto giornalisti che hanno perso il lavoro per un’inchiesta troppo scomoda.

·         Ho visto colleghi costretti a cambiare computer e telefoni più volte in un anno, per timore di intrusioni.

·         Ho ascoltato racconti di “consigli amichevoli” arrivati dall’alto, frasi pronunciate con un sorriso ma che lasciavano il gelo nello stomaco.

Sono episodi che il Media Freedom Act vorrebbe impedire, ma che non si cancellano con una firma. Perché le pressioni non sono sempre visibili: a volte arrivano sotto forma di tagli di budget, di incarichi tolti, di isolamento professionale. La censura oggi indossa abiti eleganti: non ti dice “non pubblicare”, ma ti mette nelle condizioni di non poterlo fare.

C’è poi la clausola della “sicurezza nazionale”: uno spiraglio che permette, in casi estremi, di aggirare alcune tutele. È un concetto vago, interpretabile, e sappiamo bene come, in mani sbagliate, possa diventare una scappatoia per controllare ciò che non si vuole far emergere.

E c’è il tema dei media pubblici: nomine trasparenti, criteri chiari, finanziamenti adeguati. Tutto giusto, ma chi garantisce che queste regole non diventino l’ennesimo terreno di scontro politico? La proposta iniziale prevedeva bilanci pluriennali per dare stabilità e indipendenza. Poi si è scesi a compromessi. E nei compromessi, troppo spesso, la libertà perde forza.

In Italia, come in altri Stati membri, la legge non è ancora stata pienamente applicata. Questo è già un segnale. Perché la libertà di stampa non è una priorità solo quando si è sotto i riflettori internazionali: dovrebbe esserlo sempre. E se un Paese aspetta, rinvia, tergiversa, allora significa che c’è ancora strada da fare.

Il Media Freedom Act è come un lampione acceso in una strada buia: illumina un tratto, ma lascia il resto nell’ombra.

E in quell’ombra, ancora, camminano i rischi, le minacce silenziose, i compromessi che non finiscono nei comunicati ufficiali.

Io voglio crederci, voglio pensare che tra qualche anno potremo dire che questa legge ha davvero cambiato le cose.

Ma so anche che il suo successo dipenderà da altro: dalla coscienza critica dei giornalisti, dalla trasparenza delle redazioni, dalla volontà dei cittadini di pretendere un’informazione libera.

Perché la libertà di stampa non si firma.

Si difende, ogni giorno.

E tu cosa ne pensi? 

La nuova legge europea cambierà davvero il giornalismo o resterà solo una promessa?

Condividi la tua opinione nei commenti qui sotto o diffondi questo articolo: la libertà di stampa vive anche grazie al dibattito pubblico.

05 agosto 2025

Giustizia e parole pericolose

 

Il presidente dei magistrati Parodi ha fatto un passo falso? di Paolo Corrias

"Un processo ha evidentemente una ricaduta politica".
Con questa frase, Cesare Parodi – presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati – ha innescato un terremoto istituzionale che nemmeno una rettifica tardiva è riuscita a placare.

Quando un magistrato parla, dovrebbe farlo con la misura e il senso del limite che la sua funzione impone. Quando lo fa il presidente dell’Anm, deve ricordare che ogni parola è un messaggio che può orientare la fiducia dei cittadini e incrinare l’equilibrio tra i poteri dello Stato.

Parodi ha provato a correggere il tiro, dicendo che il suo era un ragionamento generale, che non aveva citato alcun nome. Ma il danno, almeno sul piano dell’opinione pubblica, era già stato fatto. E la replica netta del ministro Nordio (“sconcertato”, “inaccettabile invasione di campo”) lo dimostra.

Sostenere che un’inchiesta possa avere conseguenze politiche non è falso. Il problema, però, è che detta così, in un contesto come quello attuale, la frase suona come un’ammissione di potere e influenza che va ben oltre il confine del diritto. Non è un ragionamento astratto: è un messaggio concreto, pronunciato nel bel mezzo di un caso che tocca da vicino il Ministero della Giustizia.

Anche se Parodi non ha nominato esplicitamente Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto del ministro Nordio, chi ascolta coglie immediatamente il sottinteso. È questo il vero scandalo: la capacità – consapevole o meno – di evocare scenari politici in un ambito che dovrebbe restare immune da ogni sospetto di partigianeria.

Un magistrato che parla di “ricadute politiche” dei processi apre una breccia pericolosa. Perché se la giustizia è consapevole del suo potere di condizionamento politico, il rischio è che smetta di essere solo arbitro e inizi, lentamente, a giocare la partita.

Ciò che colpisce, in tutta questa vicenda, è la leggerezza. L’apparente disinvoltura con cui si è lasciato sfuggire un pensiero che dovrebbe restare fuori dal vocabolario istituzionale della magistratura. È vero, come diceva Metastasio, che "la voce dal sen fuggita, più richiamar non vale". Ma proprio per questo, chi ricopre ruoli apicali deve riflettere due volte prima di parlare.

La democrazia si regge su equilibri delicati. Il potere giudiziario ha una forza straordinaria, ed è giusto che ce l’abbia. Ma quando chi ne è al vertice dimentica di misurare ogni parola, si insinua il dubbio che quella forza possa diventare strumento di pressione. Un sospetto che, anche se infondato, fa male. Perché mina la fiducia, crea fratture e avvelena il clima.

Il passo falso di Parodi non è una semplice gaffe. È un errore politico, oltre che istituzionale. E il fatto che abbia dovuto correggersi così rapidamente ne è la prova evidente. È giusto prenderne atto, come ha fatto anche Gasparri. Ma è altrettanto giusto non dimenticare.

Perché la giustizia, per essere davvero tale, ha bisogno di silenzio, equilibrio, sobrietà. E soprattutto di parole che non sembrino mai minacce velate, anche quando vengono spacciate per riflessioni generiche.


04 agosto 2025

Il teatrino degli indignati a comando

 
Riflessione di Paolo Corrias sulla degenerazione del confronto pubblico.

 Mi sono preso del tempo. Non per rispondere, ma per osservare. In silenzio. Ho aperto i profili di certi personaggi che riempiono i social come fossero orinatoi pubblici: si entra, si sfoga rabbia, e si esce più leggeri.

Ho letto i loro post, i loro commenti, i meme velenosi e le frasi "coraggiose" partorite con lo stampino. Tutti uguali. Tutti indignati. Tutti "antifascisti", ma solo il 2 agosto o in occasione del prossimo anniversario utile a collezionare like. Una rabbia organizzata, selettiva, che ha più a che fare con la militanza ideologica che con la verità. E men che meno con il rispetto.

Gente che si finge pensante, ma che non pensa. Gente che “condivide”, ma non analizza. Che “commenta”, ma non elabora. Che parla di memoria, ma non ne conosce né i fatti né i contesti. Ripetono parole non loro, come automi con lo sguardo fisso sulla prossima indignazione utile.

Uno in particolare mi ha colpito. Ha avuto l’ardire – o forse il piacere – di raffigurare Giorgia Meloni con i tratti di un nazista, contornando il tutto con una lettera che vorrebbe essere solenne ma suona come un atto d’accusa teatrale e rabbioso, privo di ogni tensione intellettuale. L’ha firmata “Jabo Testi”, come se fosse un intellettuale perseguitato, un eroe solitario, un fustigatore della storia. Peccato che l’effetto sia solo quello di uno sfogo isterico, pieno di presunzioni morali ma vuoto di pensiero autentico.

Perché il problema non è la critica. La critica è sacra. Il problema è la cieca furia con cui si costruisce un capro espiatorio permanente, e su quel volto – oggi quello della Presidente del Consiglio – si riversano tutte le frustrazioni represse, tutto il rancore di chi ha smesso di pensare con la propria testa.
Dipingere Giorgia Meloni come “complice morale” della strage di Bologna solo perché non pronuncia una parola in modo conforme alla narrazione imposta da alcuni ambienti non è né critica né giornalismo. È fanatismo. È odio travestito da giustizia.

Mi chiedo: queste persone sanno cosa sia davvero il fascismo? Ne hanno mai studiato le derive, le complicità, le tragedie? O per loro “fascista” è solo un’etichetta da appiccicare a chi non vota come loro? A chi osa pensare fuori dal recinto dell’ortodossia?
Non è Giorgia Meloni a dover temere quel tipo di “giudizio”. Sono loro, questi piccoli inquisitori digitali, a doversi guardare allo specchio. Perché sono loro, oggi, i veri repressori del pensiero.
Non costruiscono ponti: scavano trincee. Non cercano la verità: cercano colpevoli. Non promuovono giustizia: distribuiscono anatemi.

E sapete qual è la cosa più triste? Che parlano a nome delle vittime. Parlano in nome della giustizia. Parlano in nome della verità. Ma non parlano con rispetto. Né delle istituzioni, né delle diversità di pensiero, né della complessità che ogni evento storico richiede.
Riducono tutto a un bianco e nero manicheo, in cui loro sono i giusti e chi non ripete il loro mantra è un mostro. Una Meloni “nazista”. Una premier “complice”. Una donna “colpevole” solo perché è di destra, perché è cresciuta in un ambiente politico che a loro fa paura, non perché faccia scelte criminali o sovversive.

E poi c’è l’ipocrisia. Perché chi dice “io non dimentico” dovrebbe ricordare tutto. Non solo ciò che gli fa comodo.

Chi non dimentica la bomba alla stazione di Bologna, dovrebbe anche ricordare – con la stessa rabbia, con la stessa dignità – gli assassinii delle BR, le morti per mano comunista, i crimini commessi in nome di un’ideologia rossa che ha seminato lutti per decenni.
E invece no. Io non li sento, questi indignati professionisti, dire con la stessa forza: io sono antibrigatista. Non li sento dire: io sono anticomunista. Come se il terrorismo avesse un solo volto, e tutti gli altri potessero essere perdonati o, peggio, dimenticati.

E allora io lo dico: io sono contro ogni violenza politica. Ma non accetto lezioni da chi si indigna a metà. Da chi grida “fascista!” ma tace quando si parla di comunismo reale, di lotta armata rossa, di odio di classe trasformato in sangue versato.
Perché questa indignazione a senso unico è una maschera. È selettiva, furba, strumentale. È utile a colpire il nemico politico, non a fare giustizia. Non a costruire memoria condivisa. Non a insegnare nulla.

La verità è che questa gente non vuole risposte. Vuole nemici. Non vuole chiarezza, vuole colpe. E se non ci sono, li costruisce.
E allora io lo dico senza paura: questo modo di fare “politica” – se così si può chiamare – è la vera ferita. È l’oscenità di chi pretende di difendere la democrazia comportandosi come un piccolo tiranno. Di chi dice “non dimentico”, ma ha dimenticato cosa sia il rispetto, cosa sia il confronto, cosa sia la libertà.
La libertà anche di non dire quella parola.
Perché la libertà, cari signori, si misura proprio quando si protegge anche chi non dice quello che vogliamo sentire.

Oggi più che mai serve pensiero. Serve confronto. Serve verità. Non questi processi sommari su Facebook, non le vignette indecenti, non gli insulti travestiti da indignazione.
Serve il coraggio di non odiare chi non ci somiglia.

Ecco, questa è la mia riflessione. Scomoda, forse. Ma mia. E almeno io l’ho scritta da solo.

 

 





Quando la critica diventa irriconoscente

 


Riflessione personale sulle parole di Selvaggia

Lucarelli contro Liliana Segre. 

di Paolo Corrias

Viviamo in un tempo in cui l’indignazione è diventata un mestiere, e la parola più efficace è spesso quella più brutale. Il confronto si è trasformato in accusa, il dissenso in delegittimazione, e la memoria in fastidio. In questo clima, le parole hanno smesso di cercare ponti, preferendo scavare trincee.

È in questo contesto che si colloca la polemica scatenata da Selvaggia Lucarelli contro Liliana Segre. Non si tratta, in fondo, solo di due punti di vista differenti su un conflitto tragico come quello israelo-palestinese. Si tratta, piuttosto, del modo in cui si esercita oggi la critica, specialmente quando viene rivolta verso figure che portano sulla propria pelle il peso della storia.

Lucarelli, commentando un’intervista rilasciata da Liliana Segre a La Repubblica, ha accusato la senatrice sopravvissuta alla Shoah di aver trovato finalmente la forza di parlare — non per condannare il massacro dei civili palestinesi a Gaza, ma per difendere Israele dall’accusa di genocidio. E lo ha fatto con sarcasmo tagliente, scrivendo frasi come: “Anzi, chiedo scusa a Segre. Non lo chiamerò genocidio per non turbarla, ma ‘esercizio prolungato di autodifesa con effetti collaterali sorprendentemente sgradevoli’”.

Ora, si può — si deve — dissentire anche da chi ha vissuto l’indicibile. Ma c’è modo e modo. E il modo in cui Lucarelli ha scelto di colpire è, a mio avviso, sintomatico di un’epoca in cui il rispetto per la complessità viene visto come debolezza, e la parola “genocidio” usata come una clava da chi vuole schierare ogni coscienza sotto una sola bandiera.

Liliana Segre non è un personaggio pubblico qualunque. Non parla da una posizione di comodo o da una torre d’avorio. Le sue parole, ogni sua dichiarazione, sono attraversate da un vissuto che pochi al mondo possono comprendere davvero. La bambina di otto anni che fu deportata ad Auschwitz, che vide morire il padre, che uscì da quell’inferno con il numero tatuato sulla pelle e la vita a brandelli, oggi ha quasi cento anni. E nonostante questo, continua a esporsi. A parlare. A dare voce — sempre — al rifiuto dell’odio.

Nell’intervista che tanto ha indignato Lucarelli, la senatrice non nega le colpe del governo israeliano. Al contrario, afferma con parole durissime: “È straziante vedere Israele sprofondato in un simile abominio, con ministri fanatici e coloni che compiono azioni squadristiche”. Eppure, ciò che ha fatto scattare la reazione indignata è stata la sua scelta di non definire “genocidio” quanto sta accadendo a Gaza. Una scelta che, per Lucarelli, equivarrebbe a una complicità morale.

Ma è davvero così semplice?

Possiamo davvero ridurre la posizione di Segre — intrisa di sofferenza, attenzione al linguaggio e profonda inquietudine storica — a una fredda presa di posizione politica?

Possiamo ignorare ciò che ha detto esplicitamente, ovvero che Israele non deve usare la Shoah come scudo per giustificare ogni suo eccesso?

E possiamo accettare che una giornalista liquidi tutto questo con l’ironia del “non la chiamerò genocidio per non turbarla”?

C’è un’assenza nelle parole di Selvaggia Lucarelli che grida più forte di qualunque sarcasmo. Non un cenno alla strage del 7 ottobre. Non una parola sulle famiglie massacrate nei kibbutz, sulle donne stuprate davanti ai figli, sugli anziani trascinati via come bottino di guerra, sugli ostaggi ancora rinchiusi nei tunnel, sulle 1.200 vite spezzate in una mattina di terrore. È come se tutto questo non fosse mai accaduto.

È un’assenza che pesa. Pesa sulle coscienze, sulle parole, sulla credibilità di chi si erge a giudice morale. Pesa perché non si può pretendere giustizia per le vittime palestinesi ignorando deliberatamente le vittime israeliane. Pesa perché la giustizia vera — quella difficile, scomoda, imperfetta — non ha bandiere. Ha solo occhi aperti.

Chi tace sul 7 ottobre non solo manca di equilibrio, ma finisce per contribuire, anche involontariamente, a quella spirale di disumanizzazione che oggi sta inghiottendo ogni possibilità di dialogo. I bambini palestinesi non valgono meno dei bambini israeliani. Ma nemmeno il contrario.

Lucarelli scrive che per Segre non sarebbe la realtà a suggerire la parola “genocidio”, ma che sarebbe la parola a manipolare la realtà contro Israele. E ci tiene a precisare che, secondo lei, chi si rifiuta di usare quel termine starebbe cercando di “salvare Israele” dall’infamante accusa.

Ma qui si gioca una partita più sottile, che riguarda non solo Israele, ma tutti noi. Riguarda la responsabilità delle parole. Il linguaggio non è neutro. Le parole costruiscono narrazioni, definiscono il campo morale in cui ci muoviamo. E “genocidio” non è un termine qualunque: è un termine giuridico, storico, carico di una memoria precisa.

Segre — che del genocidio è sopravvissuta — conosce bene il significato e il peso di quel termine. Non vuole negare i crimini di guerra, gli abomini, l’ingiustizia. Ma teme — e lo dice con forza — che l’uso strumentale di quella parola possa cancellare la memoria della Shoah, o peggio, riattivare un antisemitismo latente che oggi si traveste da critica legittima a Israele.

C’è un altro punto che vale la pena approfondire. Quando Segre dice che “l’isterica insistenza” nel voler usare la parola genocidio “scaturisce da sentimenti antisemiti, magari inconsci”, viene accusata da Lucarelli di voler delegittimare le voci di denuncia, in particolare quelle femminili, attraverso una parola — isteria — che storicamente è stata usata per zittire le donne.

È vero: il termine “isteria” porta con sé una lunga storia di misoginia e patologizzazione del dissenso femminile. Ma in questo caso, mi sembra che il richiamo sia a qualcosa di diverso: alla perdita di equilibrio, alla trasformazione del dolore in furore accusatorio, alla volontà di ridurre tutto a una sola parola, un solo colpevole, una sola vittima.

Ed è qui che il rischio si fa reale: quello di sostituire un’ingiustizia con un’altra, una narrazione unilaterale con un’altra narrazione, ugualmente assolutista. Criticare Israele, denunciare i crimini di guerra, chiedere il cessate il fuoco, pretendere giustizia per i palestinesi: tutto questo è necessario. Ma trasformare Israele nel nuovo male assoluto, accostarlo senza esitazione al nazismo, ignorare le sue paure, il suo trauma fondativo, la sua storia, significa privare la critica della sua forza morale. E significa, anche, cedere terreno a quel risentimento che spesso, troppo spesso, sfocia in antisemitismo.

Uno degli aspetti più inquietanti della vicenda è la pretesa, da parte di alcuni, di stabilire chi ha ancora il “diritto” di parlare. Lucarelli lo fa implicitamente, accusando Segre di essersi “svegliata” solo per difendere Israele. Ma chi stabilisce quando una voce è legittima? Chi decide quando il silenzio è colpevole e quando invece è un atto di misura?

Liliana Segre ha parlato, eccome. Ha parlato della sua sofferenza, della paura per il ritorno dell’odio, del rischio che il dolore si trasformi in vendetta cieca. Ha parlato con la compostezza di chi ha imparato che ogni parola deve pesare. E forse è proprio questo che oggi dà fastidio: la lentezza, la cautela, la complessità. In un mondo che grida, chi sussurra appare sospetto.

Ci siamo abituati a pensare che indignarsi significhi automaticamente avere ragione. Che chi urla di più sia dalla parte giusta. Che chi è più feroce nella denuncia sia moralmente superiore. Ma non è così.

L’indignazione è necessaria, ma non è tutto. Ci vuole anche discernimento, capacità di ascolto, rispetto per chi ha vissuto il male in prima persona. E soprattutto, serve la consapevolezza che il conflitto israelo-palestinese non si risolverà con i tweet, le battute sarcastiche, o i processi sommari sui social.

Le parole possono ferire più di una pallottola. Possono disumanizzare, escludere, separare. Ma possono anche costruire ponti. Liliana Segre ha sempre cercato di costruirli. Anche ora, da una posizione che le è costata lacrime, insulti, solitudine. Per questo la sua voce merita qualcosa di più della caricatura in cui è stata ridotta.

Criticare Liliana Segre non è un sacrilegio. Nessuno lo è. Ma ridicolizzarla, ignorarne la storia, metterne in dubbio la buona fede, banalizzare il suo pensiero e ridurlo a una parodia, è un atto di superficialità grave. È una forma di violenza culturale.

Abbiamo bisogno di voci come la sua. Voci che non urlano, che non cercano like, che non semplificano il mondo in buoni e cattivi. Voci che fanno i conti con la Storia e con il dolore. E che ci ricordano, ogni giorno, che la verità non è un’arma, ma una responsabilità.

Se vogliamo davvero costruire un mondo più giusto, iniziamo da qui: dalla capacità di ascoltare anche chi non dice esattamente quello che vorremmo sentire.


Le stagioni che finiscono male. E quelle che non cominciano mai


Il caso Todde, tra diritto, responsabilità politica e una Sardegna che continua a rinviare la propria maturità istituzionale. 

di Paolo Corrias

C’è un momento, in ogni vicenda pubblica, in cui la cronaca diventa storia. E in cui la storia chiede conto non solo dei fatti, ma della visione. Il caso della presidente Todde, al centro di un intricato contenzioso giuridico-politico, sembra essere arrivato a quel momento.

Dietro le carte bollate e le firme “a coccarda” depositate in Tribunale, c’è molto più di una lite elettorale: c’è una Sardegna che rischia di ripetere l’ennesimo fallimento, perché non ha voluto (o saputo) imparare dai precedenti.

La vicenda giudiziaria che coinvolge la presidente Todde, e su cui Paolo Maninchedda ha scritto un articolato editoriale su Sardegna e Libertà il 2 agosto, è arrivata a un punto critico. L’appello è stato depositato. I termini sono scaduti. Ma invece di chiarezza, abbiamo l’eco di un errore: secondo il giurista Fercia, il ricorso potrebbe essere addirittura inammissibile per una questione di metodo.

Un errore da manuale. Uno di quelli che nemmeno in una simulazione d’esame si dovrebbero commettere. Eppure è lì, nero su bianco, e rischia di rendere definitiva la sentenza di primo grado.

Ma ciò che mi colpisce davvero, da semplice cittadino, è il simbolo che questa vicenda rappresenta. L’ennesima stagione politica nata all’insegna del cambiamento che finisce schiacciata sotto il peso della sua impreparazione. Della sua fretta. Della sua presunzione.

La Todde, all’inizio, aveva rappresentato per molti un’alternativa vera: una donna competente, un volto nuovo, la promessa di un’altra Sardegna. Non quella dei notabili o delle clientele. Non quella delle chiacchiere da corridoio regionale. E invece, dopo pochi mesi, ci troviamo a fare i conti con errori clamorosi, scelte discutibili e una gestione del potere che non sembra affatto diversa da quella di chi è venuto prima.

Nel racconto di Maninchedda si percepisce chiaramente il disagio di chi conosce i meccanismi istituzionali ma sa anche quanto siano fragili, e facilmente aggirabili. La paura del “revanscismo giudiziario”, la circolazione selvaggia degli atti legali, il sospetto che la politica venga oggi combattuta più nei tribunali che nelle piazze o nei consigli comunali.

È questo che ci deve preoccupare: non solo chi perde, ma come si perde. Non solo chi ha sbagliato, ma cosa si è costruito per evitarlo. E soprattutto: perché chi prometteva rigore, trasparenza e competenza ha finito per inciampare proprio su quei terreni.

Forse sono ingenuo, ma continuo a credere che la politica possa (e debba) essere un luogo alto. Un luogo in cui si risolvono i conflitti, non dove si creano. Un luogo in cui la fiducia del cittadino non viene barattata con una campagna social, o con una difesa mal scritta.

E invece vedo un teatrino stanco, dove anche chi viene presentato come "nuovo" parla, agisce e sbaglia come chi c’era già. Dove le responsabilità non si assumono mai, ma si scaricano. Dove il linguaggio è tutto e la sostanza poco o nulla.

Cosa verrà dopo? Questa è la domanda vera. Se la presidente dovesse decadere, se il Consiglio regionale fosse sciolto, se si tornasse alle urne… cosa ci aspetta? Un’altra campagna di slogan? Un’altra ondata di illusioni? Un’altra corsa al potere mascherata da progetto civico?

Oppure, finalmente, qualcosa di più maturo? Persone preparate, capaci, con una visione chiara, che conoscano i regolamenti e soprattutto la realtà delle persone che vivono in questa terra difficile e meravigliosa?
Lo spero. Ma non lo do per scontato.

Ciò che stiamo vivendo non è solo una crisi politica o giuridica. È una crisi di credibilità, di competenza, di profondità.

E allora permettetemi una riflessione conclusiva, che non è un j’accuse ma un richiamo civile:

"Cara Sardegna, svegliati tu.
Svegliati prima di continuare a delegare la tua voce a chi non la sa usare. A chi urla ma non costruisce. A chi difende ma non governa. A chi promette, ma poi scompare quando le cose si fanno difficili."

Le stagioni finiscono. Ma a volte neanche cominciano davvero. Tocca a noi fare in modo che la prossima non sia solo una replica.


03 agosto 2025

Il Foulard, la Ciotola e la Motosega

C’è una stanza, al terzo piano di Palazzo Chigi, che sembra uscita da una commedia felliniana. Dentro, stipati come in un baule delle meraviglie, ci sono oggetti degni di una collezione improbabile: il foulard dell’albanese Edi Rama, una ciotola donata da Joe Biden, un paio di scarpe in pitone blu con tacco dorato, l’action figure del presidente argentino Javier Milei con tanto di motosega, un iPad da Zelensky, cappelli da alpino e da bersagliere, un pacco di riso Made in Pakistan. È l’inventario semi-ufficiale dei doni istituzionali ricevuti da Giorgia Meloni in questi due anni e mezzo di governo.

Nulla di nuovo sotto il sole. Da sempre, le visite di Stato si accompagnano a omaggi più o meno simbolici. Qualcosa finisce in mostra, qualcosa resta in deposito, qualcosa – se troppo prezioso – viene trattenuto dallo Stato. Regole chiare, trasparenza amministrativa, burocrazia ordinaria. Ma siccome siamo in Italia, persino una ciotola diplomatica può scatenare una polemica parlamentare.

Così è accaduto che Francesco Bonifazi, deputato di Italia Viva, abbia presentato un’interrogazione parlamentare per sapere esattamente cosa abbia ricevuto la Presidente del Consiglio, dove siano custoditi questi oggetti, se siano stati dichiarati, valutati, eventualmente devoluti o tenuti. In apparenza: trasparenza. In sostanza: guerriglia politica travestita da zelo istituzionale.

A stretto giro, Fratelli d’Italia ha rilanciato: benissimo, allora pubblichiamo anche i regali ricevuti da Renzi, Gentiloni e Conte. Ed è qui che l’aria cambia. Perché dei regali istituzionali ricevuti da Matteo Renzi quando era a Palazzo Chigi non c’è traccia. Non esiste, ad oggi, una lista pubblica, un elenco, un inventario simile a quello di Meloni. Eppure l’ex premier, oggi gran conferenziere internazionale, non era certo immune a tappeti, foulard e doni ufficiali. Come mai nessuno ha mai visto quella lista?

La senatrice Raffaella Paita, anche lei di Italia Viva, ha reagito indignata: “Massima trasparenza per tutti!”, ha detto. E giù accuse incrociate, fino a chiedere la pubblicazione delle fatture e dei bonifici dell’abitazione privata della Premier. Una battaglia a colpi di contabilità, in cui i doni ufficiali diventano l’ultima arma di un confronto logoro e prevedibile. Eppure, sarebbe bastato poco: prima di chiedere conto dei foulard di Meloni, sarebbe stato elegante – e politicamente maturo – pubblicare la propria lista, rendere visibili i regali di Renzi, mostrare i bonifici dell’abitazione di Renzi. Non per una vendetta, ma per coerenza.

Invece no. Italia Viva continua a giocare su due piani: moralismo selettivo da una parte, reticenza dall’altra. Come se bastasse sollevare polveroni per nascondere ciò che manca. Come se l’arte di accusare l’altro potesse sostituire l’onestà di raccontare se stessi.

La verità è che la politica italiana è diventata un talk show permanente, dove ogni oggetto è pretesto per un dibattito, ogni dettaglio un campo di battaglia, ogni foulard una bandiera ideologica. E mentre ci si accapiglia sui doni istituzionali, il Paese resta a guardare, sempre più distante, sempre più disilluso.

Perché il problema non sono le scarpe pitonate o le statuette con la motosega. Il vero problema è l’ipocrisia di chi chiede trasparenza solo agli altri, di chi si erge a paladino della legalità quando è all’opposizione, ma diventa opaco quando è al potere. E questo vale per tutti. Ma oggi, in particolare, riguarda chi – come Italia Viva – ha fatto del doppio standard una strategia comunicativa.

Ci si riempie la bocca di legalità, ma non si pubblicano nemmeno le ricevute del passato. Si invoca la trasparenza, ma si dimenticano gli anni in cui si stava al governo. Si chiedono i bonifici di oggi, ignorando quelli di ieri.

Il risultato? Un teatrino stanco, ripetitivo, autoreferenziale. Dove la politica diventa polemica sterile, e la verità è solo un optional da sventolare quando conviene. Un Paese che discute per settimane di una ciotola di ceramica e non riesce a discutere seriamente di sanità, scuola, giustizia, lavoro, è un Paese che ha perso il senso delle priorità.

E allora sì, ridiamoci pure su. Ma con amarezza. Perché se i regali diplomatici sono il pretesto per l’ennesima lite da cortile, forse il vero dono che ci meritiamo – noi cittadini – è uno solo:
la fine della politica fatta di fumo, ego e distrazione di massa.

 

 

02 agosto 2025

Zona franca: il diritto negato di un’isola che resiste

 


Riflessione personale di un sardo qualunque

Mi chiamo come tanti. Vivo in Sardegna. La osservo ogni giorno dalla mia finestra, o seduto su una panchina che guarda il mare. Una terra meravigliosa, sì. Ma anche una terra dimenticata.

Da anni sento ripetere una frase che, col tempo, è diventata più un’eco stanca che una promessa: “La Sardegna è zona franca.” Lo dice lo Statuto, lo dicono i politici in campagna elettorale, lo dicono alcuni cittadini con fierezza, altri con disincanto.

Eppure, noi sardi continuiamo a pagare tutto, fino all’ultimo centesimo. Paghiamo tasse alte, accise sui carburanti, IVA sui beni, costi enormi per spostarci da e verso l’Italia. Paghiamo perfino con la solitudine geografica e infrastrutturale.

Ma allora, zona franca di cosa? Di chi?

Una promessa scritta ma mai mantenuta

Lo Statuto della Sardegna, firmato nel 1948, all’articolo 12 ci promette questo:

“La Regione è autorizzata ad attuare nel proprio territorio una zona franca con vantaggi fiscali e doganali…”

Parole solenni. Ma sono passati più di 70 anni, e quelle parole sono rimaste in un cassetto. Abbiamo avuto governi di ogni colore, promesse rinnovate, titoli di giornale e dichiarazioni trionfali.

Ma la verità è che la Sardegna non è mai stata una vera zona franca. Mai.

Qualche porto, qualche proclama

Ci sono sei porti in Sardegna dichiarati “zone franche doganali”: Cagliari, Olbia, Porto Torres, Oristano, Arbatax, Portovesme. Ma riguardano solo le merci in transito. Un discorso tecnico, lontano dalla vita concreta delle famiglie, degli artigiani, dei giovani che cercano un futuro.

Chi vive a Sassari, a Nuoro, a Iglesias, a Quartu o a Lanusei non ha alcun beneficio. Nessuna detrazione. Nessun regime speciale.

Eppure viviamo su un’isola. E questo, nel 2025, significa ancora isolamento, ritardi, costi doppi. Significa essere cittadini italiani… ma un po’ più a caro prezzo.

Politica delle illusioni

Ci sono stati presidenti regionali che hanno proclamato la zona franca integrale. Ma la verità è che serviva – e serve – una legge dello Stato, e un riconoscimento dell’Unione Europea.

E nessuno ha mai avuto davvero il coraggio di combattere fino in fondo per ottenerlo.

Hanno preferito gestire l’ambiguità. Alimentare speranze. Senza spiegare che, senza il via libera di Roma e Bruxelles, tutto resta carta straccia.

E altrove, invece, funziona

Lo dico con rispetto: a Livigno l’IVA non si paga. A Campione d’Italia, enclave svizzera, ci sono vantaggi fiscali. Alle Canarie, a Madeira, in alcune zone della Spagna e del Portogallo ci sono regimi fiscali agevolati per davvero. Approvati. Funzionanti. Operativi.

E la Sardegna? La Sardegna resta ferma. Con uno Statuto bellissimo ma inattuato. Con porti che accolgono merci, ma con giovani che partono senza più tornare.

Zona franca è giustizia, non privilegio

Non è solo una questione economica. È una questione di dignità. Di equità. Di rispetto per una terra che ha dato tanto e ricevuto poco.

Io non voglio che la Sardegna diventi un paradiso fiscale. Non voglio l’illegalità, né l’evasione. Ma voglio un trattamento giusto. Vero. Coerente con la nostra storia, la nostra posizione, le nostre difficoltà.

Perché vivere su un’isola è una condizione che chiede qualcosa in cambio. Non per avere di più. Ma per non restare sempre con meno.

E ora?

Vorrei che chi legge queste righe si fermasse un istante a pensare. Che sia un sardo o no. Che sia un politico o un semplice cittadino.

Vorrei che ci chiedessimo, tutti insieme: perché a noi no? Perché la Sardegna non ha ciò che altri territori hanno avuto?

Se davvero vogliamo cambiare le cose, serve consapevolezza. Non proclami. Non illusioni. Ma volontà. Competenza. Coraggio.

Io continuo a sperarci. Ma non in silenzio.