Riflessione
personale sulle parole di Selvaggia
Lucarelli contro Liliana Segre.
di Paolo Corrias
Viviamo
in un tempo in cui l’indignazione è diventata un mestiere, e la parola più
efficace è spesso quella più brutale. Il confronto si è trasformato in accusa,
il dissenso in delegittimazione, e la memoria in fastidio. In questo clima, le
parole hanno smesso di cercare ponti, preferendo scavare trincee.
È
in questo contesto che si colloca la polemica scatenata da Selvaggia Lucarelli
contro Liliana Segre. Non si tratta, in fondo, solo di due punti di vista
differenti su un conflitto tragico come quello israelo-palestinese. Si tratta,
piuttosto, del modo in cui si esercita oggi la critica, specialmente quando
viene rivolta verso figure che portano sulla propria pelle il peso della
storia.
Lucarelli,
commentando un’intervista rilasciata da Liliana Segre a La Repubblica, ha
accusato la senatrice sopravvissuta alla Shoah di aver trovato finalmente la
forza di parlare — non per condannare il massacro dei civili palestinesi a
Gaza, ma per difendere Israele dall’accusa di genocidio. E lo ha fatto con
sarcasmo tagliente, scrivendo frasi come: “Anzi, chiedo scusa a Segre. Non lo
chiamerò genocidio per non turbarla, ma ‘esercizio prolungato di autodifesa con
effetti collaterali sorprendentemente sgradevoli’”.
Ora,
si può — si deve — dissentire anche da chi ha vissuto l’indicibile. Ma c’è modo
e modo. E il modo in cui Lucarelli ha scelto di colpire è, a mio avviso,
sintomatico di un’epoca in cui il rispetto per la complessità viene visto come
debolezza, e la parola “genocidio” usata come una clava da chi vuole schierare
ogni coscienza sotto una sola bandiera.
Liliana
Segre non è un personaggio pubblico qualunque. Non parla da una posizione di
comodo o da una torre d’avorio. Le sue parole, ogni sua dichiarazione, sono
attraversate da un vissuto che pochi al mondo possono comprendere davvero. La
bambina di otto anni che fu deportata ad Auschwitz, che vide morire il padre,
che uscì da quell’inferno con il numero tatuato sulla pelle e la vita a
brandelli, oggi ha quasi cento anni. E nonostante questo, continua a esporsi. A
parlare. A dare voce — sempre — al rifiuto dell’odio.
Nell’intervista
che tanto ha indignato Lucarelli, la senatrice non nega le colpe del governo
israeliano. Al contrario, afferma con parole durissime: “È straziante vedere
Israele sprofondato in un simile abominio, con ministri fanatici e coloni che
compiono azioni squadristiche”. Eppure, ciò che ha fatto scattare la reazione
indignata è stata la sua scelta di non definire “genocidio” quanto sta
accadendo a Gaza. Una scelta che, per Lucarelli, equivarrebbe a una complicità
morale.
Ma
è davvero così semplice?
Possiamo
davvero ridurre la posizione di Segre — intrisa di sofferenza, attenzione al
linguaggio e profonda inquietudine storica — a una fredda presa di posizione
politica?
Possiamo
ignorare ciò che ha detto esplicitamente, ovvero che Israele non deve usare la
Shoah come scudo per giustificare ogni suo eccesso?
E
possiamo accettare che una giornalista liquidi tutto questo con l’ironia del
“non la chiamerò genocidio per non turbarla”?
C’è
un’assenza nelle parole di Selvaggia Lucarelli che grida più forte di qualunque
sarcasmo. Non un cenno alla strage del 7 ottobre. Non una parola sulle famiglie
massacrate nei kibbutz, sulle donne stuprate davanti ai figli, sugli anziani
trascinati via come bottino di guerra, sugli ostaggi ancora rinchiusi nei
tunnel, sulle 1.200 vite spezzate in una mattina di terrore. È come se tutto
questo non fosse mai accaduto.
È
un’assenza che pesa. Pesa sulle coscienze, sulle parole, sulla credibilità di
chi si erge a giudice morale. Pesa perché non si può pretendere giustizia per
le vittime palestinesi ignorando deliberatamente le vittime israeliane. Pesa
perché la giustizia vera — quella difficile, scomoda, imperfetta — non ha
bandiere. Ha solo occhi aperti.
Chi
tace sul 7 ottobre non solo manca di equilibrio, ma finisce per contribuire,
anche involontariamente, a quella spirale di disumanizzazione che oggi sta
inghiottendo ogni possibilità di dialogo. I bambini palestinesi non valgono
meno dei bambini israeliani. Ma nemmeno il contrario.
Lucarelli
scrive che per Segre non sarebbe la realtà a suggerire la parola “genocidio”,
ma che sarebbe la parola a manipolare la realtà contro Israele. E ci tiene a
precisare che, secondo lei, chi si rifiuta di usare quel termine starebbe
cercando di “salvare Israele” dall’infamante accusa.
Ma
qui si gioca una partita più sottile, che riguarda non solo Israele, ma tutti
noi. Riguarda la responsabilità delle parole. Il linguaggio non è neutro. Le
parole costruiscono narrazioni, definiscono il campo morale in cui ci muoviamo.
E “genocidio” non è un termine qualunque: è un termine giuridico, storico,
carico di una memoria precisa.
Segre
— che del genocidio è sopravvissuta — conosce bene il significato e il peso di
quel termine. Non vuole negare i crimini di guerra, gli abomini, l’ingiustizia.
Ma teme — e lo dice con forza — che l’uso strumentale di quella parola possa
cancellare la memoria della Shoah, o peggio, riattivare un antisemitismo
latente che oggi si traveste da critica legittima a Israele.
C’è
un altro punto che vale la pena approfondire. Quando Segre dice che “l’isterica
insistenza” nel voler usare la parola genocidio “scaturisce da sentimenti
antisemiti, magari inconsci”, viene accusata da Lucarelli di voler
delegittimare le voci di denuncia, in particolare quelle femminili, attraverso
una parola — isteria — che storicamente è stata usata per zittire le donne.
È
vero: il termine “isteria” porta con sé una lunga storia di misoginia e
patologizzazione del dissenso femminile. Ma in questo caso, mi sembra che il
richiamo sia a qualcosa di diverso: alla perdita di equilibrio, alla
trasformazione del dolore in furore accusatorio, alla volontà di ridurre tutto
a una sola parola, un solo colpevole, una sola vittima.
Ed
è qui che il rischio si fa reale: quello di sostituire un’ingiustizia con
un’altra, una narrazione unilaterale con un’altra narrazione, ugualmente
assolutista. Criticare Israele, denunciare i crimini di guerra, chiedere il
cessate il fuoco, pretendere giustizia per i palestinesi: tutto questo è
necessario. Ma trasformare Israele nel nuovo male assoluto, accostarlo senza
esitazione al nazismo, ignorare le sue paure, il suo trauma fondativo, la sua
storia, significa privare la critica della sua forza morale. E significa,
anche, cedere terreno a quel risentimento che spesso, troppo spesso, sfocia in
antisemitismo.
Uno
degli aspetti più inquietanti della vicenda è la pretesa, da parte di alcuni,
di stabilire chi ha ancora il “diritto” di parlare. Lucarelli lo fa
implicitamente, accusando Segre di essersi “svegliata” solo per difendere
Israele. Ma chi stabilisce quando una voce è legittima? Chi decide quando il
silenzio è colpevole e quando invece è un atto di misura?
Liliana
Segre ha parlato, eccome. Ha parlato della sua sofferenza, della paura per il
ritorno dell’odio, del rischio che il dolore si trasformi in vendetta cieca. Ha
parlato con la compostezza di chi ha imparato che ogni parola deve pesare. E
forse è proprio questo che oggi dà fastidio: la lentezza, la cautela, la
complessità. In un mondo che grida, chi sussurra appare sospetto.
Ci
siamo abituati a pensare che indignarsi significhi automaticamente avere
ragione. Che chi urla di più sia dalla parte giusta. Che chi è più feroce nella
denuncia sia moralmente superiore. Ma non è così.
L’indignazione
è necessaria, ma non è tutto. Ci vuole anche discernimento, capacità di
ascolto, rispetto per chi ha vissuto il male in prima persona. E soprattutto,
serve la consapevolezza che il conflitto israelo-palestinese non si risolverà
con i tweet, le battute sarcastiche, o i processi sommari sui social.
Le
parole possono ferire più di una pallottola. Possono disumanizzare, escludere,
separare. Ma possono anche costruire ponti. Liliana Segre ha sempre cercato di
costruirli. Anche ora, da una posizione che le è costata lacrime, insulti,
solitudine. Per questo la sua voce merita qualcosa di più della caricatura in
cui è stata ridotta.
Criticare
Liliana Segre non è un sacrilegio. Nessuno lo è. Ma ridicolizzarla, ignorarne
la storia, metterne in dubbio la buona fede, banalizzare il suo pensiero e
ridurlo a una parodia, è un atto di superficialità grave. È una forma di
violenza culturale.
Abbiamo
bisogno di voci come la sua. Voci che non urlano, che non cercano like, che non
semplificano il mondo in buoni e cattivi. Voci che fanno i conti con la Storia
e con il dolore. E che ci ricordano, ogni giorno, che la verità non è un’arma,
ma una responsabilità.
Se
vogliamo davvero costruire un mondo più giusto, iniziamo da qui: dalla capacità
di ascoltare anche chi non dice esattamente quello che vorremmo sentire.