31 luglio 2025

IL SILENZIO CHE FA RUMORE

 


Riflessione personale

Ci sono momenti in cui anche le parole sembrano sbagliate. Non per ciò che dicono, ma per ciò che possono provocare. È così che mi sento ogni volta che cerco di pensare, e forse anche solo sussurrare, qualcosa su Gaza. È come camminare su vetro: ogni parola potrebbe frantumarsi, ogni frase potrebbe essere interpretata, travisata, etichettata. E allora – come molti – mi fermo. Taccio. Ma questo silenzio non mi rende più saggio, né più umano. Solo più confuso, più distante da ciò che provo davvero.

Mi accorgo che la difficoltà non è solo nella complessità della realtà laggiù, ma nella paura che si è instaurata qui, dentro e attorno a me. Paura di sbagliare tono. Paura di offendere qualcuno. Paura di essere frainteso, ridotto a un'opinione che non è mia, o peggio, a uno schieramento ideologico a cui non appartengo.

Eppure non si può ignorare il dolore. Non si può essere spettatori passivi quando la sofferenza – così evidente, così lacerante – si riversa nei nostri occhi. Bambini affamati, famiglie sotto le macerie, ostaggi dimenticati, madri in fuga. E non importa da quale parte arrivino. La sofferenza vera, quella umana, non ha passaporto.

Mi rendo conto che spesso vorrei solo avere uno spazio per dire: "Non capisco tutto. Non so chi abbia ragione. Ma so che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui stiamo vivendo questo dramma collettivo". Non dico "vivendo" nel senso diretto, ma "vivendo interiormente": quel senso di impotenza mista a paura, la frustrazione che nasce dal non sapere come reagire, come parlarne, con chi, e se davvero vogliamo farlo.

A volte, l’unico pensiero chiaro che riesco a formulare è questo: siamo diventati incapaci di distinguere la compassione dalla posizione politica. Se esprimo dolore per Gaza, qualcuno penserà che sto legittimando Hamas. Se parlo dell’attacco del 7 ottobre, qualcun altro penserà che sto ignorando le sofferenze palestinesi. E allora si tace. Ma questo tacere ha un prezzo: quello della solitudine morale. Smettiamo di confrontarci, smettiamo di pensare insieme. Rimaniamo intrappolati nelle nostre bolle etiche, spaventati anche solo dal fatto che un amico possa pensarla in modo radicalmente diverso.

Eppure credo che il vero pericolo sia proprio questo: arrenderci all’idea che non si possa più parlare. Che non esistano più spazi per il dubbio, per l’empatia, per la fragilità del non sapere. Invece ce ne sarebbe un bisogno disperato. Non per risolvere tutto. Ma per tornare a guardarci negli occhi e dirci: "Io sento questo. Tu cosa senti?".

Vorrei che ci fosse più coraggio nell’ammettere la confusione. Più umiltà nel riconoscere che, spesso, la verità non sta da una parte sola. Più umanità nel dire che il dolore di un bambino israeliano non cancella quello di un bambino palestinese. E viceversa.

Non ho risposte. Ma credo che il primo passo sia permettersi di fare domande. Non con l’intento di vincere una discussione, ma per restare umani dentro una tragedia che ci supera.

Magari basterebbe questo: cominciare a parlarne. A bassa voce. Con rispetto. Con pudore. Senza slogan, senza giudizi. Solo con la volontà di restare presenti, e non complici del silenzio.

Ciò che accade a Gaza, come in molte altre parti del mondo, ci sfida a pensare in profondità cosa significhi oggi essere empatici, critici e dialogici allo stesso tempo. Questo testo non pretende di avere l’ultima parola. È, se mai, un tentativo di dare voce a quel disagio che molti sentono ma pochi osano esprimere. Se anche solo una persona, leggendo queste righe, sentirà meno solitudine nel proprio silenzio interiore, allora questo scritto avrà avuto un senso.

 

 

28 luglio 2025

L’accordo tra UE e USA “di Paolo Corrias”

 

C’è un valore sottile, e spesso trascurato, nei compromessi. È il valore della stabilità in tempi turbolenti, della pazienza quando il mondo corre, della lucidità quando sarebbe più facile gridare. È questo che ho pensato ieri sera, mentre leggevo dell’accordo raggiunto a Turnberry, in Scozia, tra la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente americano Donald Trump.

Non è solo un'intesa commerciale. È un gesto politico, simbolico e – nel suo piccolo – anche culturale. È un segnale che, tra due colossi economici come l’Unione Europea e gli Stati Uniti, il filo del dialogo resta saldo. E questa, da semplice cittadino europeo, mi pare una buona notizia.

Il cuore dell’intesa è semplice: un dazio uniforme del 15% sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, incluse automobili, farmaci e semiconduttori. Certo, non è un regalo. Ma è una soglia che, rispetto alle previsioni di un possibile 30%, rappresenta una forma di equilibrio. Lo ha detto con onestà la presidente von der Leyen: “È il massimo che siamo riusciti a ottenere”.

Come cittadino, non ho strumenti per giudicare la complessità delle trattative, ma posso apprezzare un risultato che – pur imperfetto – ha evitato l’irrigidimento dei rapporti e un’escalation di tensioni commerciali. In un’epoca in cui i dazi vengono usati come armi, questa è già una vittoria di maturità politica.

C’è un altro aspetto dell’accordo che merita attenzione. L’Unione Europea si è impegnata ad acquistare energia statunitense per un valore complessivo di 750 miliardi di dollari in tre anni, favorendo così il progressivo distacco dai combustibili fossili russi.

Una mossa che, pur con i suoi costi, indica una scelta di indipendenza strategica. Ci stiamo allontanando da vecchie dipendenze, da equilibri rischiosi. E anche se la transizione energetica è ancora lunga, questi sono i primi mattoni su cui costruire una maggiore autonomia.

Non solo: anche l’ambito militare è parte del pacchetto. L’Europa acquisterà nuove forniture militari dagli USA. È un tema delicato, su cui le opinioni si dividono. Ma non si può ignorare che in un mondo instabile, con conflitti alle porte dell’Europa, rafforzare la cooperazione tra alleati storici significa anche rafforzare la sicurezza condivisa.

L’accordo prevede anche l’azzeramento reciproco dei dazi su una lista di settori strategici: aeromobili, componentistica, farmaci generici, semiconduttori, alcuni prodotti agricoli. È un primo passo. E la stessa von der Leyen ha promesso che si lavorerà per allargare questo elenco.

Certo, alcuni nodi restano da sciogliere – come quello dei dazi su vino e superalcolici – ma l’apertura al confronto continuo mi sembra più importante del risultato immediato. Significa che non è un’intesa chiusa, ma un processo in evoluzione. E in un mondo che cambia rapidamente, il fatto stesso di poter aggiornare e migliorare un’intesa è già un punto di forza.

Non ho appartenenze politiche da rivendicare, né tesi da difendere. Scrivo solo da cittadino europeo attento e coinvolto, che non vuole lasciarsi andare al cinismo o alla sfiducia. Forse perché credo ancora che l’Europa, pur tra mille limiti, possa essere un esempio di dialogo in un tempo che predilige lo scontro.

In questo accordo vedo non la resa a una potenza più forte, ma la scelta consapevole di restare interlocutori credibili, capaci di trattare, di difendere i nostri interessi, di costruire ponti anche quando sembra più facile alzare muri.

Viviamo un’epoca difficile, in cui ogni notizia sembra subito diventare polarizzante. Ma non tutto è bianco o nero. A volte, nel mezzo, ci sono intese come questa, che non brillano per spettacolarità ma che, silenziosamente, fanno funzionare il mondo.

A distanza di 24 ore, rileggo le parole dei due protagonisti dell’accordo: Trump entusiasta come sempre, von der Leyen prudente ma ferma. Tra i due stili, due visioni. Ma la sostanza rimane: ci siamo parlati, abbiamo trovato un punto d’incontro.

E se c’è una lezione da trarre, forse è questa: in tempi incerti, la forza non sta solo nella potenza, ma nella continuità del dialogo.

Io, da cittadino europeo, lo considero un passo nella direzione giusta. Piccolo, forse. Ma necessario.


Il silenzio che sa di complicità.


Davanti alle violenze avvenute recentemente in Val di Susa, alle aggressioni alle Forze dell’Ordine, alle scene che nulla hanno a che vedere con il diritto al dissenso, ciò che più mi colpisce non è solo la brutalità dei fatti – già grave in sé – ma il silenzio ostinato e colpevole della sinistra italiana (disagio morale, prima ancora che politico), di quella che si definisce progressista, democratica, europeista. Di quella che si raccoglie sotto l’etichetta sempre più vuota del “campo largo”.

Dove sono Elly Schlein e Giuseppe Conte?

Dove sono le parole chiare, nette, in grado di distinguere tra protesta e violenza?
Dove sono le condanne senza “ma” e senza “se”?

Non ci sono. Non si sentono. Non parlano.

E questo silenzio non è neutrale: è complice.

È un silenzio che puzza di calcolo, di strategia elettorale, di paura di perdere i consensi delle frange più radicali che da anni agiscono sotto la bandiera dell’ambientalismo e dell’anticapitalismo. È un silenzio che non ha il coraggio della responsabilità politica, ma si nasconde dietro l’ambiguità, l’inerzia e l’autoassoluzione.

Io questo non lo accetto. E non lo dimentico.

La sinistra italiana, oggi, non riesce più nemmeno a dire l’ovvio. Non riesce a dire che lanciare pietre, incendiare mezzi, ferire poliziotti, sabotare cantieri non è “protesta”: è violenza, punto. E chi resta zitto, chi si gira dall’altra parte, chi borbotta con parole vaghe su “modelli di sviluppo alternativi” senza mai prendere posizione, si sta assumendo una responsabilità pesante. Sta contribuendo ad alimentare una cultura della tolleranza verso l’intimidazione e il disordine, solo perché arriva dalla parte “giusta”.

È questa la sinistra che dovremmo sostenere? Una sinistra che si indigna per i manganelli contro gli studenti ma tace quando si colpiscono gli agenti? Una sinistra che si autodefinisce “democratica” e poi non ha il coraggio nemmeno di dire che la violenza è inaccettabile sempre, da chiunque provenga?

Elly Schlein ha avuto tempo e modo per parlare. Ha avuto gli spazi e le occasioni. Ma ha scelto il silenzio. Conte, da parte sua, è un campione di ambiguità: condanna “la violenza” in astratto, ma sempre con tono indulgente, sempre con quel retrogusto giustificazionista che serve solo a tenere buoni i voti degli ex grillini rimasti intrappolati nel mito della lotta perenne contro il sistema.

E allora lo dico chiaramente: il campo largo, così com’è, non è un progetto politico. È un contenitore fragile di viltà, silenzi, convenienze. Un’alleanza senza spina dorsale, senza coraggio, senza una visione vera dell’Italia. Perché chi non ha il coraggio di condannare la violenza solo perché ha paura di perdere il voto del centri sociali, dei comitati, degli attivisti più urlanti, non può governare un Paese.

Non mi basta che Schlein parli di diritti, di giustizia sociale, di uguaglianze. Tutte cose nobili, ma che si svuotano se non si ha il coraggio della coerenza. Non mi basta che Conte si presenti come il garante della Costituzione se poi sta zitto davanti a chi la calpesta con le molotov e i petardi.

Non ci sono ambiguità ammissibili quando c’è qualcuno che attacca lo Stato con la violenza. Non si può restare in silenzio in nome della pluralità. Il silenzio, in politica, è una scelta. E oggi è una scelta codarda.

Personalmente, non appartengo a Fratelli d’Italia ma almeno in questa occasione hanno avuto il coraggio di dire ciò che la sinistra non osa dire: che chi aggredisce, devasta e ferisce deve essere punito. Che le Forze dell’Ordine meritano rispetto, non silenzio.

Il paradosso è che questa sinistra, quella del campo largo, non riesce nemmeno più a difendere i principi su cui dovrebbe essere nata: la non violenza, la legalità, la difesa dei diritti dentro le regole democratiche. La protesta è sacra, sì. Ma non esiste protesta legittima che passi attraverso l’odio, l’aggressione, la strategia del terrore. E chi oggi non condanna questi atti non è ambiguo: è connivente.

Questo non è un attacco ideologico. È una presa di coscienza. Ed è una delusione amara.
Da cittadino che ha creduto in certi valori, oggi mi ritrovo orfano di una sinistra vera. Una sinistra che abbia il coraggio di essere scomoda anche per sé stessa. Di condannare chi sbaglia anche se indossa una bandiera amica. Di mettere la democrazia prima del consenso.

Ma oggi, quella sinistra non c’è. C’è solo un campo largo che resta muto.

E quando si tace davanti alla violenza, si diventa parte del problema.

27 luglio 2025

Giuseppe Conte: il volto gentile della spesa pubblica senza freni

È difficile parlare di Giuseppe Conte senza inciampare nel paradosso. Un uomo arrivato alla guida del governo italiano senza essere mai stato eletto, privo di una militanza politica alle spalle, ma capace , con una sorprendente abilità mimetica, di attraversare due governi agli antipodi (prima con la Lega, poi con il PD e il M5S), sopravvivere a due legislature e presentarsi infine come leader di un movimento “di lotta e di governo” allo stesso tempo. Ma al di là della sua capacità comunicativa e dell’immagine da “avvocato del popolo”, c’è un’eredità più pesante che va analizzata con freddezza: il conto che ha lasciato allo Stato italiano.

Parlare di bilancio pubblico può sembrare noioso o tecnico. Ma è da lì che si capisce tutto: la visione politica, la credibilità, il rapporto tra la promessa e la realtà. E Giuseppe Conte, in questo, ha incarnato un modo di governare basato più sulla distribuzione del consenso che sulla sostenibilità delle scelte.

Durante i governi Conte I e Conte II, l’Italia ha accumulato centinaia di miliardi di nuovo debito pubblico, gran parte dei quali giustificati in nome dell’emergenza sanitaria e sociale. Ma c’è una differenza tra spendere per salvare vite – cosa doverosa – e utilizzare la pandemia come paravento per misure populiste, assistenziali e spesso clientelari, con impatti strutturali sul bilancio statale.

Il reddito di cittadinanza, per esempio, è una misura che ha avuto senso in un contesto di povertà estrema, ma la sua applicazione, durata e gestione sono state profondamente sbagliate. Introdotto nel 2019 con il governo Conte–Salvini, doveva “abolire la povertà” – slogan che lui stesso usò, col piglio da santone più che da premier – ma ha di fatto creato una nuova fascia di dipendenza assistenziale, senza risolvere il problema della disoccupazione e aggravando le casse pubbliche.

Costo annuo stimato: oltre 8 miliardi di euro, con punte di spesa superiori nei primi anni, senza effetti reali sull’occupazione. Il fallimento dei “navigator”, la mancata attivazione di percorsi di reinserimento lavorativo e le truffe emerse nel tempo ne sono la prova.

Sotto Conte, lo Stato è diventato una sorta di bancomat elettorale. Dalle lotterie degli scontrini al bonus monopattino, dal superbonus 110% (che merita un capitolo a parte) al bonus terme, vacanze, biciclette, occhiali… si è creata una cultura del “premio” scollegata da ogni idea di merito o riforma strutturale.

Il Superbonus 110% in particolare è stato uno dei più costosi, disorganizzati e dannosi interventi mai visti nella storia della finanza pubblica italiana. Nato con buone intenzioni (rilanciare l’edilizia, migliorare l’efficienza energetica), è diventato una valanga incontrollata di spesa, con stime che oggi oscillano oltre i 150 miliardi di euro. Soldi sottratti al futuro, a una fiscalità seria, a una programmazione vera.

Il meccanismo del credito d’imposta cedibile ha creato un sistema opaco e incontrollabile di guadagni facili per imprese furbe, consulenti, banche e intermediari. Chi aveva già una casa e i mezzi per avviare lavori ha beneficiato enormemente, mentre i più poveri, ancora una volta, sono rimasti ai margini. Un Robin Hood al contrario.

Conte ha inoltre consolidato un modello di spesa corrente fuori controllo, senza preoccuparsi degli equilibri di medio-lungo periodo. Le sue manovre finanziarie sono state spesso costruite con entrate fittizie, stime ottimistiche, fondi emergenziali e deroghe continue alle regole di bilancio.

Durante la pandemia, è vero, serviva flessibilità. Ma Conte ha approfittato di quella flessibilità per non affrontare mai il nodo vero: come rendere sostenibili i conti pubblici nel tempo. Le clausole di salvaguardia, le spese obbligatorie, gli impegni futuri assunti dallo Stato sono esplosi, lasciando ai governi successivi il compito di fare i conti con una realtà drammatica.

Secondo diverse analisi indipendenti, tra il 2018 e il 2021 il debito italiano è passato dal 134% al 156% del PIL, in parte per il COVID, ma in parte per una serie di scelte fatte senza alcuna valutazione dell’impatto a lungo termine. Quando si distribuisce consenso a debito, il conto arriva. Sempre.

Il grande paradosso di Conte è che, mentre accumulava deficit, debito e misure insostenibili, riusciva a mantenere una narrazione da “statista responsabile”. Merito della sua calma, della voce pacata, della retorica sempre sobria. Un abile comunicatore, certo. Ma la sostanza dice altro: sotto il suo governo non c’è stata alcuna riforma fiscale, nessun taglio vero agli sprechi, nessuna razionalizzazione della macchina pubblica. Solo incentivi, proroghe, bonus, rinvii.

Conte è stato il re dell’interventismo emergenziale, ma totalmente assente nella costruzione di una visione a medio termine. L’Italia non è uscita più forte dalla sua gestione. È uscita più indebitata, più confusa, più dipendente dallo Stato, senza strumenti reali per affrontare le sfide del futuro: invecchiamento, produttività, transizione ecologica.

C’è un punto che, per me, è decisivo. Conte rappresenta una nuova forma di populismo: non urlato, ma sussurrato. Non quello dei Vaffa e degli slogan brutali, ma quello più elegante, insinuante, apparentemente moderato. Eppure, la logica è la stessa: dare qualcosa a tutti, promettere senza coprire, evitare i conflitti veri, dire ciò che piace sentirsi dire.

Ha governato con Salvini, poi con Zingaretti e Franceschini. Ha detto tutto e il contrario di tutto. Si è definito “socialista liberale” e poi ha stretto alleanze con le ali estreme. Oggi guida un Movimento 5 Stelle trasformato in partito personale, senza congressi, senza dibattito interno, e con un programma economico ancora centrato sulla spesa pubblica massiva e su un’idea di Stato che distribuisce denaro come fosse gratuito.

Giuseppe Conte ha dimostrato che si può diventare popolari non facendo riforme, ma distribuendo illusioni. E questa, in fondo, è la sua vera eredità politica: ha consolidato l’idea che governare significhi semplicemente “dare qualcosa a tutti”, senza affrontare il costo sociale delle scelte, senza avere il coraggio di dire qualche no.

Il risultato? Un’Italia più fragile, un debito fuori controllo, conti da sistemare per decenni. E mentre lui continua a presentarsi come la voce del popolo, a opporsi al governo in carica con la stessa retorica del “noi stiamo con i deboli”, restano le macerie di un bilancio drogato da bonus e promesse.

La politica ha bisogno di passione, ma anche di responsabilità. E Conte, in questo equilibrio, ha scelto sempre la via più facile: quella del consenso immediato, a spese del futuro.


Elly Schlein: la distanza tra simbolo e sostanza

 

Non è facile per me parlare di Elly Schlein senza cedere alla tentazione del giudizio affrettato. Da mesi osservo la sua figura pubblica con attenzione, provando a mettere da parte le emozioni , lo spaesamento, la disillusione, a volte persino la rabbia, che ogni giorno la politica italiana riesce a suscitare in chi ancora spera che essa possa servire a qualcosa. Forse è proprio questo il punto: Elly Schlein rappresentava, per molti, una promessa. Per alcuni una speranza di rinnovamento radicale, per altri l’ennesima illusione camuffata da progresso. Per me, all’inizio, una curiosità intellettuale. Oggi, più che mai, uno dei sintomi di una politica che ha smarrito il proprio centro: quello della credibilità.

Quando fu eletta segretaria del Partito Democratico, Schlein arrivò come un volto nuovo, giovane, fresco, alternativo al solito apparato di uomini grigi e autoreferenziali. Era donna, era dichiaratamente queer, era femminista, europeista, figlia del mondo globalizzato e della sinistra radical chic. Parlava benino, si muoveva tra le lingue e le identità come chi ha frequentato più università che piazze. E questo, per molti suoi sostenitori, era un pregio. Per me, era un campanello d’allarme.

Il problema non è mai la cultura, sia chiaro. Il problema è l’uso che si fa della cultura. Elly Schlein non ha mai provato a nascondere le sue origini borghesi, ma ha anche cercato, fin dall’inizio, di costruire una narrazione “alternativa” di sé: quella di una ragazza ribelle ai salotti buoni, più vicina agli attivisti di strada che ai circoli del potere. È una strategia vecchia quanto la politica, eppure oggi funziona ancora: camminare tra i migranti a Lampedusa, indossare abiti sobri, citare le lotte LGBTQ+ e i Fridays for Future, mentre si guida, di fatto, un partito che ha amministrato gran parte del potere negli ultimi trent’anni.

La sinistra italiana è diventata negli anni un laboratorio permanente di contraddizioni. Elly Schlein non le ha risolte. Le ha semmai incarnate con una coerenza sorprendente: progressista nei discorsi, moderata nelle azioni. Inclusiva nei toni, ma sempre più elitaria nei contenuti. Una sinistra che parla a una minoranza molto istruita, urbana, internazionalizzata, ma che ha rotto ogni rapporto con le classi popolari, i piccoli imprenditori, gli operai, i disoccupati, gli italiani di provincia.

In questo senso, la sua elezione è stata un atto simbolico perfetto: rappresenta alla perfezione il vuoto identitario di un partito che ha smesso di rappresentare chi lavora. Ha ereditato un PD già in crisi, e anziché ricostruirne le fondamenta, ha scelto di cambiarne la vernice. Con toni gentili, ma con lo stesso distacco.

Parlare di comunicazione politica oggi significa parlare di linguaggio. E il linguaggio di Elly Schlein, per quanto spesso sofisticato e ben costruito, è anche profondamente ambiguo. Non per incapacità, ma per strategia. Come molti leader contemporanei, anche lei gioca sulla sfumatura, sull’indistinto, sul detto e non detto. Vuole apparire radicale, ma non troppo. Inclusiva, ma senza dividere. Di sinistra, ma dialogante. In un’epoca in cui la chiarezza premia (vedi Giorgia Meloni), Elly Schlein sembra voler vincere con la diplomazia.

Ma la realtà è che la gente vuole sapere da che parte stai, non con chi ti confronti. Se sei contro il jobs act o no. Se pensi che la famiglia sia solo quella “tradizionale” oppure se vuoi davvero una riforma seria dei diritti. Se vuoi abolire il reddito di cittadinanza oppure ampliarlo. La politica è fatta anche di scelte nette, e Schlein sembra più a suo agio nel raccontare il cambiamento che nel praticarlo.

In molti suoi interventi pubblici, ho avuto la sensazione di ascoltare una brava studentessa che conosce bene il programma ma non ha mai messo piede in una fabbrica. E non per mancanza di volontà, ma perché il suo orizzonte simbolico è un altro: quello delle ONG, delle università, delle reti europee, dei think tank progressisti. Tutto questo è utile, persino necessario, ma non può bastare. Non puoi fare opposizione a Giorgia Meloni senza mettere i piedi nella polvere della vita reale.

La sconfitta alle elezioni europee del 2024 ha rappresentato per Elly Schlein una doccia fredda. Ma era prevedibile. In un’Italia dove la destra vince parlando alle paure e ai bisogni della gente, la sinistra non può più permettersi di parlare solo a se stessa. Non può rifugiarsi nel linguaggio dei diritti senza affrontare il problema della giustizia sociale. Non può invocare l’Europa mentre metà del Paese affoga nella precarietà. E soprattutto, non può restare zitta sui grandi temi, o limitarsi a reazioni timide.

Sulla guerra in Ucraina, sull’immigrazione, sulla crisi energetica, sul lavoro povero… il PD di Schlein ha spesso oscillato tra silenzi imbarazzanti e posizioni annacquate. Nessun affondo netto, nessuna proposta davvero di rottura. Solo dichiarazioni di principio, conferenze stampa, tweet ben scritti. L’impressione è che la battaglia non sia nel cuore, ma solo nella forma. E che l’ideologia – se esiste – sia più un’estetica che una missione.

Un altro punto dolente riguarda la questione femminile. Elly Schlein è spesso presentata come simbolo del femminismo contemporaneo. Ma quale femminismo? Quello delle quote rosa? Delle foto in prima pagina con i tailleur sobri? Della narrazione tutta centrata sull’identità personale? Essere donna, in sé, non basta. E non basta nemmeno essere queer. Il vero femminismo politico dovrebbe tradursi in atti concreti: tutela della maternità, lotta al gender gap, accesso gratuito alla sanità, contrasto alla violenza, riforma del lavoro part-time e precario. E qui, il vuoto si sente.

Schlein ha parlato, certo. Ma ha agito poco. E soprattutto, ha rappresentato un femminismo che – ancora una volta – parla più alle élite urbane e colte che alle donne delle periferie, alle mamme sole, alle impiegate in nero. Un femminismo simbolico, ma non popolare. E quindi, come spesso accade, inefficace.

Elly Schlein è, forse, il simbolo perfetto di una sinistra che ha smarrito il legame con la propria base. Non perché non sia intelligente, colta, sensibile. Ma perché parla un linguaggio che pochi riconoscono come proprio. Non sa entusiasmare. Non sa emozionare. Non riesce a generare quel senso di “noi” che è l’anima profonda di ogni progetto collettivo.

E così, mentre la destra continua a occupare spazi e territori, mentre le diseguaglianze aumentano, mentre la rabbia cresce e si trasforma in rassegnazione o populismo, la sinistra di Elly Schlein resta impigliata nella sua retorica e nella sua correttezza. Forse per paura di sbagliare. Forse per un eccesso di cautela. Forse per mancanza di coraggio.

Scrivere questo articolo non è stato facile. Non per mancanza di idee, ma per delusione. Avevo sperato, come molti, che Elly Schlein potesse essere qualcosa di diverso. Che la sua elezione segnasse un cambio di passo, un ritorno al pensiero forte, al coraggio delle scelte. Invece, mi ritrovo a guardare una figura competente ma distante, elegante ma impalpabile, appassionata ma fredda.

Forse è ancora presto per giudicare. Forse la sua visione ha bisogno di tempo per radicarsi. Ma la politica non aspetta, e le speranze tradite lasciano cicatrici profonde.

Oggi, guardando la sua traiettoria, mi chiedo se Elly Schlein sia davvero la leader che serve alla sinistra italiana. O se sia solo l’ennesimo esperimento di un partito che continua a cercare fuori ciò che ha perso dentro.

Meloni, Trump e il fragile equilibrio dell’Europa

Dopo aver letto l’articolo del Time su Giorgia Meloni, ho provato un misto di curiosità e rispetto. Non capita spesso che l’Italia si trovi al centro della diplomazia globale, a giocare un ruolo di ponte tra due mondi così influenti come gli Stati Uniti e l’Unione Europea. E vedere Giorgia Meloni muoversi con sicurezza tra questi equilibri così delicati mi ha fatto riflettere sul significato della leadership in un’epoca di trasformazioni profonde.

Giorgia Meloni non è una figura convenzionale, e questo lo sapevamo già. Ma è proprio la sua atipicità a renderla interessante, capace di scardinare le logiche stanche e spesso autoreferenziali della politica europea. In un momento in cui molti leader si limitano a galleggiare nei compromessi, lei sceglie di esporsi, di rischiare, di prendere posizione. Anche quando queste posizioni possono risultare scomode, anche quando il suo interlocutore si chiama Donald Trump.

Il rapporto tra Meloni e Trump non va letto come una semplice simpatia ideologica. È qualcosa di più complesso, di più strategico. Trump è stato, ed è di nuovo, un attore chiave nello scenario mondiale, e avere un filo diretto con lui rappresenta per l’Italia un’occasione rara. Meloni, in questo, si è dimostrata abile nel costruire ponti, mantenendo saldo il legame con l’Occidente senza spezzare il delicato tessuto europeo.

Ciò che ho apprezzato di più è la sua capacità di tenere insieme, con equilibrio, due appartenenze apparentemente in tensione: da un lato, la fedeltà storica dell’Italia agli Stati Uniti, che da sempre rappresentano un punto di riferimento per la nostra sicurezza e la nostra economia; dall’altro, l’impegno per la stabilità e la cooperazione europea. Meloni non cede a schieramenti ideologici rigidi: preferisce il pragmatismo, la diplomazia concreta, fatta di gesti misurati ma decisi.

Nella sua posizione, il rischio di sbagliare è altissimo. Eppure, anche nelle situazioni più spinose, come la questione dei dazi o le tensioni su immigrazione e difesa, ha mostrato di saper mediare, proporre soluzioni, rilanciare il dialogo. Lo ha fatto anche con coraggio, evitando il populismo fine a sé stesso e scegliendo invece il linguaggio della responsabilità. E per una leader che proviene da un contesto politico spesso sottovalutato o mal interpretato, questo è un segnale forte.

Non è un mistero che su certi temi, come i diritti civili, l’identità culturale o l’immigrazione, Meloni mantenga posizioni nette. E se da cittadino posso avere opinioni diverse su alcuni punti, da osservatore non posso che riconoscere la coerenza con cui li porta avanti. In un tempo in cui molti politici si nascondono dietro le parole, lei sceglie invece di dirle con chiarezza. E questo, nel bene e nel male, crea un rapporto diretto con le persone.

Certo, sarà fondamentale che la sua leadership continui a muoversi su binari istituzionali, europei, democratici. Ma finora, e lo dico con onestà, Meloni ha dimostrato di saper tenere questa rotta. Ha difeso l’Ucraina, ha mantenuto l’Italia dentro i percorsi europei, ha cercato un ruolo attivo e costruttivo anche nei confronti di Trump e della nuova amministrazione americana. Non da subalterna, ma da interlocutrice autonoma.

In un’epoca in cui il centro politico sembra sfilacciarsi, Giorgia Meloni rappresenta una sintesi nuova: identitaria ma dialogante, conservatrice ma pragmatica, nazionale ma con uno sguardo aperto sul mondo. E forse è proprio questo che molti, in Europa e negli Stati Uniti, cominciano a riconoscere in lei.

Non so dove porterà questo percorso. Ma oggi, da cittadino italiano, posso dire che sento che l’Italia ha finalmente una voce riconoscibile nel mondo. Una voce che parla con fermezza, ma anche con intelligenza. E in tempi così complessi, questa non è una conquista da poco.


Giorgia Meloni: una donna, una nazione, una nuova voce nel mondo

Dopo aver letto l’intervista sul TIME ampia e dettagliata su Giorgia Meloni, ha significato per me molto più che ripercorrere le tappe di una carriera politica. È stato un viaggio nella trasformazione del nostro tempo, nella storia recente dell’Italia e nelle pieghe di un cambiamento che, piaccia o no, ha rimesso il nostro Paese al centro della scena internazionale. E lo ha fatto attraverso la figura inaspettata, ma oggi determinante, di una donna che ha saputo affrontare il destino senza chiedere sconti.

Giorgia Meloni non viene dalle élite, non ha avuto un percorso accademico brillante, non è cresciuta nelle stanze ovattate del potere. È una donna che ha conosciuto la difficoltà, che ha attraversato le ferite della vita sin dall’infanzia e che, con tenacia rara, ha scelto di trasformare la rabbia in proposta, l’esclusione in partecipazione, la marginalità in leadership. E non si tratta solo di una narrazione eroica, ma di una realtà documentata, che emerge con forza tra le righe dell’intervista. È la storia di una persona che ha saputo costruire qualcosa da zero, e che oggi guida l’Italia con fermezza, determinazione e, soprattutto, con piena consapevolezza del proprio ruolo.

La sua domanda, posta alla fine dell’intervista con il TIME, “C’è qualcosa del fascismo che la mia esperienza le ricorda, di quello che faccio al governo?”,  mi ha colpito profondamente. Non solo per il contenuto, ma per la lucidità e il coraggio con cui viene pronunciata. Meloni non elude il passato, ma lo affronta. Sa che il tema è delicato, che c’è chi vorrebbe usarlo come un’arma contro di lei in ogni circostanza. Ma sa anche che l’Italia ha bisogno di andare oltre le letture meccaniche della storia, senza negare nulla, ma neppure restando prigioniera di etichette preconfezionate. E in questo senso, il suo percorso è davvero nuovo: non rimuove, non rinnega, ma propone un’alternativa che è fatta di identità, di radici, ma anche di apertura, realismo e dialogo.

Mi ha sempre colpito la sua capacità di unire elementi apparentemente opposti: patriottismo e pragmatismo, fermezza e moderazione, conservatorismo e adattamento al mondo globale. Da premier, Meloni ha spesso stupito anche i suoi più ostinati critici. Ha mantenuto saldo il legame dell’Italia con l’Europa e con la NATO, ha sostenuto l’Ucraina con determinazione, ha rafforzato le relazioni con gli Stati Uniti e ha assunto un ruolo guida nel Mediterraneo, riaffermando l’interesse nazionale ma senza cedere a derive isolate o anti-europee.

La sua vicinanza a Donald Trump, descritta nell’articolo, viene spesso letta con sospetto da una certa opinione pubblica. Io la interpreto invece come una scelta strategica e consapevole. Meloni conosce la complessità del mondo di oggi e sa che avere canali di dialogo forti con entrambe le sponde dell’Atlantico è fondamentale per la sicurezza, l’economia e la credibilità dell’Italia. In un’epoca in cui le alleanze si ridefiniscono rapidamente, Meloni ha saputo giocare il suo ruolo da protagonista. Non da gregaria, ma da leader autonoma, autorevole, rispettata.

Persino sul piano economico, spesso trascurato dai suoi predecessori, sta lavorando per dare solidità a un Paese che troppo a lungo è stato considerato fragile. Il miglioramento del rating del debito, la stabilizzazione del quadro politico, la centralità conquistata nei dossier europei ed energetici sono frutto non solo della fortuna, ma della capacità di visione e di determinazione. Giorgia Meloni ha dimostrato di saper gestire la complessità senza smarrire il senso dell’equilibrio, e senza cedere a quegli estremismi che spesso le vengono imputati ma che, nella realtà dei fatti, ha saputo contenere, canalizzare, trasformare.

Eppure, ciò che più mi colpisce in lei non è solo la politica, ma l’umanità. Una donna che si prende cura di una figlia, che viene da una storia familiare difficile, che non ha mai fatto mistero delle sue fragilità e che ha trasformato quelle ferite in forza. Una donna che ha saputo parlare a chi non si sentiva rappresentato da nessuno, che ha restituito voce a un’Italia spesso ignorata, ma profondamente viva.

Non sto dicendo che tutto ciò che fa sia perfetto, né che non si possano avere opinioni diverse. Ma riconosco in Giorgia Meloni qualcosa che nella politica italiana mancava da tempo: la coerenza. Il coraggio. E una visione. Sa di non poter piacere a tutti, e non lo pretende. Ma sa anche che il suo compito non è solo quello di governare, ma di dare un senso al nostro tempo, una direzione, una spinta verso l’alto.

In un momento storico in cui il centro si frantuma e gli estremi spesso urlano senza costruire, Meloni sceglie la strada più difficile: quella del dialogo tra identità e istituzioni, tra nazione e alleanze, tra passato e futuro. E forse proprio per questo oggi l’Italia è di nuovo ascoltata, considerata, rilevante. Forse proprio per questo, da Palazzo Chigi, quella voce femminile che cammina tra corridoi di marmo è riuscita a farsi sentire lontano, oltre le nostre frontiere, oltre le vecchie categorie, oltre gli schemi abituali.

Per tutto questo, oggi, mi sento di dire grazie. Non solo a una leader, ma a una donna che ha scelto di metterci la faccia, la vita, l’anima. Con determinazione. Con intelligenza. Con cuore italiano.

 

 


25 luglio 2025

Giuseppe Conte, un’illusione di leadership

Perché non mi ha mai convinto, nemmeno nei momenti più drammatici.

Ci sono figure politiche che lasciano un’impronta profonda, che dividono, che fanno discutere, ma che almeno danno il senso di una direzione, di una visione. Poi ci sono quelle che sembrano attraversare il potere come fantasmi eleganti: parlano bene, appaiono composte, ma alla fine non lasciano nulla. Per me, Giuseppe Conte appartiene a questa seconda categoria.

Quando è diventato Presidente del Consiglio nel 2018, non lo conosceva praticamente nessuno. È arrivato lì senza un passato politico, senza un mandato elettorale, senza una base personale su cui poggiare. È stato presentato come “l’avvocato del popolo”, ma non era chiaro quale popolo rappresentasse. Fin da subito, ho percepito in lui una debolezza strutturale: era un tecnico travestito da politico, o forse il contrario. In ogni caso, non mi ha mai dato l’idea di essere lì per costruire qualcosa. Sembrava piuttosto uno spettatore privilegiato del proprio ruolo.

Il suo trasformismo mi ha lasciato perplesso. In pochi mesi è passato da paladino del governo sovranista con la Lega a conduttore di un esecutivo europeista con il PD. Due governi profondamente diversi, opposti quasi in tutto. Eppure lui era lì, immobile nella forma ma camaleontico nella sostanza. Qualcuno l’ha chiamato equilibrio. Io l’ho visto come opportunismo. Non si può guidare un Paese seguendo il vento del potere, adattandosi ogni volta all’alleato di turno come se nulla fosse. Serve coerenza. O almeno il coraggio di dire da che parte si sta.

La gestione della pandemia ha esposto tutti i limiti di questa ambiguità. Ricordo l’incertezza, i provvedimenti comunicati con ore di ritardo, i decreti notturni, la corsa affannata dietro l’emergenza. La sensazione era di una barca senza timone, dove ognuno faceva come poteva. Le Regioni contro il governo, il governo contro le Regioni, i cittadini confusi e abbandonati. E mentre tutto questo accadeva, Conte si mostrava in video con toni gravi, come un attore di teatro più che come un leader in trincea. Molti lo hanno trovato rassicurante. Io ci ho visto un uomo che gestiva l’emergenza più per immagine che per visione.

Anche sul piano economico, non riesco a ricordare un provvedimento forte, strutturale, duraturo. I famosi “ristori” sono arrivati tardi, male, e spesso inadeguati. La burocrazia non è stata snellita, anzi. I lavoratori autonomi e le piccole imprese sono stati lasciati a se stessi per mesi. E mentre il debito pubblico esplodeva, si continuava a parlare di futuro senza mai davvero costruirlo.

In politica estera, la firma con la Cina del Memorandum sulla Via della Seta è stata un salto nel vuoto. Una mossa che ha sollevato dubbi tra gli alleati europei e atlantici, e che non ha portato benefici tangibili all’Italia. Ancora una volta, ho avuto la sensazione che mancasse una direzione: si andava dove sembrava conveniente, senza un disegno complessivo.

E poi il Recovery Plan. Una delle sfide più importanti per l’Italia del dopoguerra. Quando Conte ha lasciato Palazzo Chigi, quel piano era ancora fumoso, indefinito, privo di struttura. È stato Draghi a doverlo riscrivere, a dargli forma. Questo, forse, è il segnale più chiaro del fallimento di una leadership: quando hai nelle mani l’occasione di cambiare il Paese e non riesci nemmeno a impostarla.

In fondo, Giuseppe Conte non ha mai smesso di essere un mediatore. Ma il mediatore può tenere unito un tavolo di discussione, non può guidare una nazione in crisi. E l’Italia, in quegli anni, aveva bisogno di molto di più.

Quello che mi lascia è una sensazione di occasione persa. Di tempo scivolato tra le dita. Di un governo che ha fatto tanto rumore per poi evaporare in una nuvola di ambiguità. Conte non ha distrutto il Paese, certo. Ma nemmeno lo ha difeso con la forza e la chiarezza che servivano.

E in politica, a volte, è proprio la mancanza di coraggio a fare più danni della cattiva volontà.

23 luglio 2025

Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge sul femminicidio.

Oggi ho letto che il Senato ha approvato all’unanimità il disegno di legge sul femminicidio. Centosessantuno voti favorevoli. Un applauso in aula. Le parole del Presidente del Senato: “Sono estremamente lieto di questo risultato”. Eppure, mentre leggevo, dentro di me non riuscivo ad applaudire. Non per mancanza di gratitudine, ma perché questo risultato ha il sapore amaro di qualcosa che arriva troppo tardi, su una terra dove il sangue ha già impregnato il suolo.

Femminicidio. Una parola dura. Una parola che non è solo linguaggio, ma memoria. Ogni volta che la pronuncio, mi tornano in mente volti. Alcuni li conosco. Altri no. Ma sono tutti lì, come fotografie spezzate: donne ammazzate per amore malato, per possesso, per rifiuto, per quella maledetta idea che la vita di una donna possa essere proprietà privata.

Non sto scrivendo per fare cronaca. Sto scrivendo perché questa legge parla anche a me. A mia madre, a mia sorella, alle mie amiche. A tutte le volte in cui ho sentito il terrore nascosto dietro la voce di una donna che dice: “Va tutto bene”. A tutte le volte in cui non è andato bene per niente.

Il fatto che oggi venga introdotto nel codice penale l’articolo 577-bis, che riconosce il femminicidio come reato autonomo, con l’ergastolo per chi uccide una donna per odio, per rifiuto, per dominio… è una svolta. È un modo per dire: “Ti vediamo. Sappiamo cosa succede. E non lo accettiamo più.”

Non è solo una questione di giustizia. È un gesto di civiltà. Il disegno di legge – 14 articoli – non si limita a punire. Cerca di proteggere, di prevenire. Rafforza le aggravanti per la violenza domestica e sessuale, introduce tutele per le vittime, obbliga all’ascolto rapido, garantisce l’accesso ai centri antiviolenza anche ai minori. Soprattutto, riconosce che dietro ogni storia di violenza c’è una struttura sociale da decostruire, un’educazione da rifondare.

Leggo che saranno formati i magistrati, gli operatori sanitari, gli assistenti sociali. Finalmente. Perché la violenza non è sempre un pugno. A volte è un silenzio imposto, una parola velenosa, una paura che ti paralizza. Serve qualcuno che sappia leggere quei segnali.

E mi colpisce anche un altro passaggio: l’obbligo di confisca dei beni dell’autore del reato, le misure economiche a tutela degli orfani. Perché la violenza, oltre che colpire, lascia dietro di sé un deserto. Bambini senza madri. Famiglie distrutte. E finora lo Stato ha spesso lasciato queste macerie a chi resta. Finalmente, si fa carico anche del dopo.

Non mi illudo. Nessuna legge da sola potrà fermare la mano di chi uccide. Ma questa legge, almeno, dice ad alta voce quello che molti non vogliono sentire: che l’omicidio di una donna in quanto donna non è un delitto come un altro. È un gesto che affonda le radici nella cultura, nella storia, nel modo in cui continuiamo a parlare – o a non parlare – delle relazioni tra uomini e donne.

C’è chi ha detto: “È un testo necessario”. Concordo. Ma io aggiungo: era urgente da anni. Non sono qui per celebrare la politica, ma per riconoscere un passo. Uno solo. Ma nella giusta direzione.

E dentro di me, oggi, porto un sentimento doppio. Da un lato, il sollievo di vedere finalmente riconosciuta una realtà troppo a lungo taciuta. Dall’altro, il dolore di sapere che questa legge nasce da troppe tombe, da troppi nomi letti nei telegiornali come numeri, come statistiche.

Io non dimentico. Perché non sono solo un cittadino. Sono una persona che ascolta, che conosce, che ha amato donne che hanno avuto paura. E questa legge non la leggo solo con gli occhi. La sento nella pelle.

È un inizio. Ma adesso tocca a noi, ogni giorno, far sì che non sia solo carta. Ma vita.

22 luglio 2025

Il dovere di fermare chi lucra sulla speranza

Ci sono notizie che non passano inosservate. L’annuncio del Regno Unito sul primo regime sanzionatorio globale contro il traffico di esseri umani è una di quelle notizie che mi spinge a scrivere non da osservatore esterno, ma da cittadino che sente, che ha visto, che ha ascoltato troppe storie spezzate sui marciapiedi delle nostre città e sulle coste del nostro Mediterraneo.

Sono fermamente a favore di questa scelta. Finalmente, qualcuno ha avuto il coraggio di guardare in faccia il cuore marcio del problema e di chiamarlo con il suo nome: crimine. Perché di questo si tratta. Non di flussi, né di fenomeni “complessi” da gestire con diplomazia sterile o parole ambigue. Stiamo parlando di reti criminali internazionali che sfruttano, ingannano, umiliano e spesso condannano a morte persone disperate. Ed è ora che vengano trattate come meritano.

Congelare i beni, vietare l’ingresso nel Paese, impedire qualsiasi legame con il sistema economico britannico: sono misure giuste, proporzionate, necessarie. Perché se è vero che non si possono salvare tutte le vite solo con la repressione, è anche vero che non si può restare passivi mentre bande criminali organizzano attraversamenti in gommoni fatiscenti e vendono illusioni a caro prezzo. Ogni euro pagato ai trafficanti è un mattone in più nel muro del disumano. E dietro quel denaro, ci sono sempre le stesse facce: uomini armati, mercanti di morte, profittatori della miseria.

Chiunque abbia visto le immagini dei cadaveri galleggianti nel Mediterraneo o ascoltato le testimonianze di chi è sopravvissuto a torture nei centri di detenzione libici, non può non sentire dentro sé un bisogno urgente di giustizia. Non basta commuoversi. Bisogna agire. E questo regime sanzionatorio britannico è un primo segnale forte: basta tolleranza verso chi lucra sulla speranza altrui.

Certo, so bene che da solo non basterà. Lo so, perché dietro la migrazione irregolare c’è un intero mondo di disuguaglianze, guerre, fallimenti politici, sogni infranti. Ma ogni lungo cammino comincia da un passo, e questo è un passo nella giusta direzione. È una dichiarazione netta: non ci sarà più complicità economica o istituzionale con chi si arricchisce facendo attraversare clandestinamente confini, spezzando famiglie, cancellando identità.

Questa iniziativa manda anche un messaggio importante ai cosiddetti “facilitatori”: aziende, finanzieri, organizzazioni ambigue che, fino a ieri, potevano operare indisturbate nell’ombra, vendendo motori per gommoni o riciclando denaro con circuiti alternativi. Ora anche loro avranno un prezzo da pagare. E io dico: era ora.

Lo dico senza alcuna retorica, ma con la convinzione profonda che ci siano momenti in cui bisogna scegliere da che parte stare. Io sto dalla parte dei diritti umani, non della loro caricatura. Sto dalla parte di chi non accetta più che il cinismo travesta la crudeltà con la maschera dell’efficienza. Sto dalla parte di chi crede che la libertà e la dignità debbano essere protette anche con strumenti forti, quando servono.

Sento spesso dire che queste misure rischiano di penalizzare i migranti. Ma è vero il contrario: non colpire i trafficanti significa lasciarli agire impuniti. Vuol dire accettare che il viaggio della speranza resti monopolio della criminalità organizzata. Vuol dire voltarsi dall’altra parte mentre altri si arricchiscono vendendo morte.

Mi auguro che altri governi europei – e non solo – seguano l’esempio. Che si crei una rete sanzionatoria internazionale, capace di bloccare i flussi finanziari e logistici che alimentano questa macchina dell’orrore. E allo stesso tempo, mi auguro che si aprano canali umani, legali e sicuri per chi cerca una nuova vita. Repressione e protezione devono camminare insieme. Non esiste giustizia se non protegge i più fragili, e non esiste protezione vera senza giustizia contro chi li sfrutta.

Questo nuovo regime sanzionatorio è un passo storico. È una promessa concreta. È una battaglia che va combattuta con determinazione. Perché difendere la vita significa anche questo: impedire che venga venduta al miglior offerente. 

19 luglio 2025

Una giustizia più giusta: l’Italia rialza la testa

"L’Italia merita una giustizia più giusta: lavoriamo per mettere fine alle storture. Siamo di parola e lo faremo." 
— Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio

Non è solo una dichiarazione d’intenti. Nelle parole pronunciate da Giorgia Meloni durante l’intervento alla Federazione dei magistrati onorari di tribunale, si coglie il segnale di una svolta politica e morale che riguarda il cuore stesso dello Stato di diritto: la giustizia. E quando un capo di governo pronuncia parole come “fine alle storture” in materia giudiziaria, non si può fare a meno di accogliere con favore – e con attenzione – la portata di un tale impegno.

Da troppo tempo il sistema giudiziario italiano soffre di una cronica inadeguatezza: processi infiniti, sentenze che arrivano a distanza di decenni, un garantismo a fasi alterne, incertezza normativa, confusione tra poteri e, sul piano umano, intere categorie dimenticate o sacrificate per inerzia. Tra queste, proprio i magistrati onorari: professionisti che reggono sulle proprie spalle migliaia di procedimenti ogni anno, ma che per anni hanno vissuto in un limbo, trattati come temporanei, marginali, quando invece sono strutturalmente indispensabili.

La riforma dell’ordinamento che li riguarda – finalmente approvata – rappresenta non solo un atto tecnico, ma un gesto politico e civile di rilevante portata. È la correzione di una stortura. È riconoscere che la giustizia non si fa solo nei tribunali di Roma o Milano, ma anche nei piccoli uffici di provincia, grazie a donne e uomini che spesso lavorano con compensi ridicoli e tutele inesistenti. In un Paese che troppo spesso ha dato prova di dimenticare i suoi servitori silenziosi, questo passo avanti non può che essere salutato con favore.

Ma Meloni non si è fermata qui. Ha rilanciato su un obiettivo ancora più ambizioso: una riforma complessiva della giustizia. Parole pesanti, che richiedono visione, determinazione e la capacità di resistere a pressioni interne ed esterne. Eppure, è proprio questo il nodo cruciale. La giustizia italiana ha bisogno di essere ripensata, alleggerita da una burocrazia paralizzante, semplificata, resa più umana. Ha bisogno di essere restituita ai cittadini, che troppo spesso la percepiscono come distante, ostile, lenta.

In un clima mediatico e culturale dove la giustizia è sempre più terreno di scontro ideologico – tra garantismo e giustizialismo, tra politicizzazione della magistratura e delegittimazione del potere giudiziario – parlare di "giustizia più giusta" è rischioso, ma necessario. Significa rivendicare una visione che rimetta al centro non solo la macchina della legge, ma la persona. E in questo, la coerenza è fondamentale.

Meloni ha detto: "Siamo di parola e lo faremo." Ed è proprio questa la cifra su cui si giocherà la credibilità dell’intero progetto. Perché la giustizia, più ancora che l’economia o la sicurezza, è ciò che segna il grado di civiltà di un Paese. È la misura della fiducia dei cittadini nelle istituzioni. È la prima forma di rispetto che uno Stato può – o non può – garantire ai suoi cittadini.

Da giornalista e da cittadino, non posso che riconoscere l’urgenza e la correttezza di queste parole. E non si tratta di condividere ogni posizione del governo attuale, ma di dare atto che su questo fronte l’Italia aveva bisogno di un cambio di passo netto, concreto, non più rimandabile. Se davvero si riuscirà ad avviare una stagione nuova per la giustizia italiana, sarà una conquista di tutti. Perché una giustizia giusta non è né di destra né di sinistra: è semplicemente la condizione minima per vivere in una società libera, responsabile e umana.