
Non è facile per me parlare di Elly Schlein senza cedere alla tentazione
del giudizio affrettato.
Da mesi osservo la sua figura pubblica con attenzione, provando a mettere da
parte le emozioni , lo spaesamento, la disillusione, a volte persino la rabbia,
che ogni giorno la politica italiana riesce a suscitare in chi ancora spera che
essa possa servire a qualcosa. Forse è proprio questo il punto: Elly Schlein
rappresentava, per molti, una promessa. Per alcuni una speranza di rinnovamento
radicale, per altri l’ennesima illusione camuffata da progresso. Per me,
all’inizio, una curiosità intellettuale. Oggi, più che mai, uno dei sintomi di
una politica che ha smarrito il proprio centro: quello della credibilità.
Quando fu eletta segretaria del Partito
Democratico, Schlein arrivò come un volto nuovo, giovane, fresco, alternativo
al solito apparato di uomini grigi e autoreferenziali. Era donna, era
dichiaratamente queer, era femminista, europeista, figlia del mondo
globalizzato e della sinistra radical chic. Parlava benino, si muoveva tra le
lingue e le identità come chi ha frequentato più università che piazze. E
questo, per molti suoi sostenitori, era un pregio. Per me, era un campanello
d’allarme.
Il problema non è mai la cultura, sia
chiaro. Il problema è l’uso che si fa della cultura. Elly Schlein non ha mai
provato a nascondere le sue origini borghesi, ma ha anche cercato, fin
dall’inizio, di costruire una narrazione “alternativa” di sé: quella di una
ragazza ribelle ai salotti buoni, più vicina agli attivisti di strada che ai
circoli del potere. È una strategia vecchia quanto la politica, eppure oggi
funziona ancora: camminare tra i migranti a Lampedusa, indossare abiti sobri,
citare le lotte LGBTQ+ e i Fridays for Future, mentre si guida, di fatto, un
partito che ha amministrato gran parte del potere negli ultimi trent’anni.
La sinistra italiana è diventata negli
anni un laboratorio permanente di contraddizioni. Elly Schlein non le ha
risolte. Le ha semmai incarnate con una coerenza sorprendente: progressista nei
discorsi, moderata nelle azioni. Inclusiva nei toni, ma sempre più elitaria nei
contenuti. Una sinistra che parla a una minoranza molto istruita, urbana,
internazionalizzata, ma che ha rotto ogni rapporto con le classi popolari, i
piccoli imprenditori, gli operai, i disoccupati, gli italiani di provincia.
In questo senso, la sua elezione è stata
un atto simbolico perfetto: rappresenta alla perfezione il vuoto identitario di
un partito che ha smesso di rappresentare chi lavora. Ha ereditato un PD già in
crisi, e anziché ricostruirne le fondamenta, ha scelto di cambiarne la vernice.
Con toni gentili, ma con lo stesso distacco.
Parlare di comunicazione politica oggi
significa parlare di linguaggio. E il linguaggio di Elly Schlein, per quanto
spesso sofisticato e ben costruito, è anche profondamente ambiguo. Non per
incapacità, ma per strategia. Come molti leader contemporanei, anche lei gioca
sulla sfumatura, sull’indistinto, sul detto e non detto. Vuole apparire
radicale, ma non troppo. Inclusiva, ma senza dividere. Di sinistra, ma
dialogante. In un’epoca in cui la chiarezza premia (vedi Giorgia Meloni), Elly
Schlein sembra voler vincere con la diplomazia.
Ma la realtà è che la gente vuole sapere da che parte stai, non con chi ti
confronti. Se sei contro il jobs act o no. Se pensi che la famiglia sia solo
quella “tradizionale” oppure se vuoi davvero una riforma seria dei diritti. Se
vuoi abolire il reddito di cittadinanza oppure ampliarlo. La politica è fatta
anche di scelte nette, e Schlein sembra più a suo agio nel raccontare il
cambiamento che nel praticarlo.
In molti suoi interventi pubblici, ho
avuto la sensazione di ascoltare una brava studentessa che conosce bene il
programma ma non ha mai messo piede in una fabbrica. E non per mancanza di
volontà, ma perché il suo orizzonte simbolico è un altro: quello delle ONG,
delle università, delle reti europee, dei think tank progressisti. Tutto questo
è utile, persino necessario, ma non può bastare. Non puoi fare opposizione a Giorgia Meloni senza mettere i piedi nella
polvere della vita reale.
La sconfitta alle elezioni europee del
2024 ha rappresentato per Elly Schlein una doccia fredda. Ma era prevedibile.
In un’Italia dove la destra vince parlando alle paure e ai bisogni della gente,
la sinistra non può più permettersi di parlare solo a se stessa. Non può
rifugiarsi nel linguaggio dei diritti senza affrontare il problema della
giustizia sociale. Non può invocare l’Europa mentre metà del Paese affoga nella
precarietà. E soprattutto, non può restare zitta sui grandi
temi, o limitarsi a reazioni timide.
Sulla guerra in Ucraina,
sull’immigrazione, sulla crisi energetica, sul lavoro povero… il PD di Schlein
ha spesso oscillato tra silenzi imbarazzanti e posizioni annacquate. Nessun
affondo netto, nessuna proposta davvero di rottura. Solo dichiarazioni di
principio, conferenze stampa, tweet ben scritti. L’impressione è che la
battaglia non sia nel cuore, ma solo nella forma. E che l’ideologia – se esiste
– sia più un’estetica che una missione.
Un altro punto dolente riguarda la
questione femminile. Elly Schlein è spesso presentata come simbolo del
femminismo contemporaneo. Ma quale femminismo? Quello delle quote rosa? Delle
foto in prima pagina con i tailleur sobri? Della narrazione tutta centrata
sull’identità personale? Essere donna, in sé, non basta. E non basta nemmeno essere
queer. Il vero femminismo politico dovrebbe tradursi in atti concreti: tutela
della maternità, lotta al gender gap, accesso gratuito alla sanità, contrasto
alla violenza, riforma del lavoro part-time e precario. E qui, il vuoto si
sente.
Schlein ha parlato, certo. Ma ha agito
poco. E soprattutto, ha rappresentato un femminismo che – ancora una volta –
parla più alle élite urbane e colte che alle donne delle periferie, alle mamme
sole, alle impiegate in nero. Un femminismo simbolico, ma non popolare. E
quindi, come spesso accade, inefficace.
Elly Schlein è, forse, il simbolo
perfetto di una sinistra che ha smarrito il legame con la propria base. Non
perché non sia intelligente, colta, sensibile. Ma perché parla un linguaggio
che pochi riconoscono come proprio. Non sa entusiasmare. Non sa emozionare. Non
riesce a generare quel senso di “noi” che è l’anima profonda di ogni progetto
collettivo.
E così, mentre la destra continua a
occupare spazi e territori, mentre le diseguaglianze aumentano, mentre la
rabbia cresce e si trasforma in rassegnazione o populismo, la sinistra di Elly Schlein resta impigliata nella sua retorica e nella
sua correttezza.
Forse per paura di sbagliare. Forse per un eccesso di cautela. Forse per
mancanza di coraggio.
Scrivere questo articolo non è stato
facile. Non per mancanza di idee, ma per delusione. Avevo sperato, come molti, che
Elly Schlein potesse essere qualcosa di diverso. Che la sua elezione segnasse
un cambio di passo, un ritorno al pensiero forte, al coraggio delle scelte.
Invece, mi ritrovo a guardare una figura competente ma distante, elegante ma
impalpabile, appassionata ma fredda.
Forse è ancora presto per giudicare.
Forse la sua visione ha bisogno di tempo per radicarsi. Ma la politica non aspetta, e le speranze tradite lasciano
cicatrici profonde.
Oggi, guardando la sua traiettoria, mi
chiedo se Elly Schlein sia davvero la leader che serve alla sinistra italiana.
O se sia solo l’ennesimo esperimento di un partito che continua a cercare fuori
ciò che ha perso dentro.